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5. I versi liguri: La casa in mare.

5.1.2 La gronda ferita.

La seconda sezione, La gronda ferita, conta ben otto componimenti dei venti che formano la raccolta nel suo complesso, tra i quali quattro erano già stati pubblicati nel volume Virgulti sulla frana del 1949141. Dal punto di vista stilistico e formale appare piuttosto coesa: le otto liriche richiamano il modello della canzone e oscillano da un minimo di sedici versi a un massimo di sessantotto, dove l’endecasillabo, prevalente in alcune, si alterna a un metro più breve (soprattutto senario e settenario), prevalente in altre. Il titolo suggerisce una svolta in direzione elegiaca: la gronda se “ferita”, ovvero forata, al posto di trattenere l’acqua piovana la fa discendere, in un moto assimilabile sia a quello delle lacrime, sia allo scorrere del tempo; infatti, i testi che compongono la sezione, sempre caratterizzati da un minuzioso descrittivismo,

141 I testi già pubblicati in Virgulti sulla frana (Modena, Berben 1949) sono Riflessi al crepuscolo,

Sabbia nel porto (che in realtà costituiva la prima parte di Riflessi al crepuscolo), Pianto di madre sul mondo (con il titolo La meta) e infine l’eponimo Virgulti sulla frana.

presentano come filo conduttore il tema della memoria, dell’azione corrosiva del tempo sui luoghi dell’infanzia dell’autore. I luoghi e le immagini dell’infanzia si stringono soprattutto attorno alla città natale del poeta, La Spezia (e alle sue zone limitrofe), a eccezione di Piazzetta San Matteo (pp. 41-43), ubicata tra i vicoli genovesi.

La lirica di apertura è Riflessi al crepuscolo (p. 37), divisa in due strofe di otto versi ciascuna, dove il poeta si aggira «fra una gente attonita / che ormai non ha più patria» (vv. 2-3), su di uno scenario allucinato dal quale emergono solo rovine, quali «la corrosa / statua nella muraglia, il fiore spento / fra calcinati scheletri, / per viali d’incendio142» (vv. 5-8); nella seconda stanza – come suggerisce il modello della canzone leopardiana – il poeta interiorizza il paesaggio e si sofferma sul suo stato d’animo: quando ormai sente che tutto è perso, a consolarlo e straziarlo allo stesso tempo è «[…] biondo, rosa, / un ultimo riflesso / ch’alita il sole alla gronda ferita, / fuggevole riflesso che ricorda / quello dei tuoi capelli, in luce in ombra, / sul mio viso riverso» (vv. 11- 16). In questi versi si trova espressa una sorta di fenomenologia del ricordo: durante il crepuscolo un raggio di sole si insinua (o «alita», per riprendere la sinestesia impiegata nel testo) nel foro di una gronda ‘ferita’, e questo fugace bagliore viene assimilato dal poeta al riflesso dei capelli della madre sul suo giovane viso. Come si deduce dalla lettura della seguente Sabbia nel porto (nel volume Virgulti sulla frana unita a Riflessi al crepuscolo), la figura femminile, sebbene non sia chiaramente esplicitato, è quella materna centrale poi in tutta la raccolta.

La potenza del ricordo non scaturisce solo dal fortuito scorrere del tempo, ma è collegata a trasformazioni concrete e irrevocabili, che investono lo scenario dell’infanzia del poeta; l’ambientazione di questa lirica non è, infatti, immaginaria ma reale: in calce è inserito il riferimento temporale «Estate 1945», anno conclusivo del secondo conflitto mondiale, che trasformò la città della Spezia in teatro di pesanti bombardamenti, che coinvolsero la popolazione civile e modificarono profondamente

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In questo passo si possono rintracciare diverse suggestioni montaliane, dalla muraglia di Meriggiare

pallido e assorto (p. 30) alla statua di Spesso il male di vivere ho incontrato (p. 35).L’edizione di riferimento per le poesie di E. Montale è Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori 1984; per le altre occorrenze ci si limiterà a riportare solo il riferimento alla pagina.

il profilo architettonico cittadino. Tuttavia, il sentimento di disorientamento e angoscia, trasmesso dagli eventi bellici, non viene proiettato da Serra in una dimensione di tragedia comune e condivisa, ma rimane circoscritto allo sconvolgimento dei referenti concreti del periodo infantile, tra i quali emerge con forza l’immagine della giovane madre.

Alla madre non è dedicato uno specifico ritratto di famiglia, perchè la sua figura si delinea nell’arco di tutta la raccolta, a volte aleggiando quale presenza inespressa: è la morte prematura, avvenuta quando il poeta aveva solo vent’anni, a stabilire una particolare tensione emotiva, che spiega la posizione di rilievo rivestita all’interno della raccolta. La città natale assume un valore affettivo molto forte proprio perché finisce per coincidere con la figura materna, e il suo sconvolgimento definisce nel poeta quasi una seconda perdita, come emerge dalle prime strofe de La casa immaginaria (vv. 1-18, p. 49-50), uno degli ultimi testi della sezione143:

Dopo tanto penare e girovagare,

ho ritrovato la mia città: distrutta.

In quegli spazi

già inclusi nelle nostre care stanze, respirava mia madre.

(Per l’azzurra notte superstite,

come ne’ miei capelli risento le sue

affilate carezze).

143 Tra le Note conclusive della raccolta (p. 90), Serra puntualizza che la prima pubblicazione de La

Tento ricostruirla, la mia casa, con una geometria immaginaria: incroci di righe invisibili, labile fumo nell’aria, di cui vanisce ogni traccia.

Questo testo rappresenta un unicum nel panorama della raccolta per il suo stile conciso (da contrapporre allo stile solitamente prolisso di Serra) e apparentemente asettico, dietro al quale, in realtà, si nasconde un forte coinvolgimento emotivo. Inoltre, la sinteticità e il breve dispiegarsi del verso, dove il posizionamento di ogni singola parola risponde a una precisa strategia sul piano semantico – come accade soprattutto nell’esordio – stabiliscono un legame diretto (e visivo) con la costruzione dei testi ungarettiani de Il porto sepolto.

La prima strofa si delinea grazie alla giustapposizione di versi brevi che, portatori di un nucleo autonomo di significato, vanno modellando progressivamente il messaggio. I due versi iniziali sono rispettivamente occupati da due voci verbali all’infinito, che rispondono alla doppia funzione di fornire l’antefatto della narrazione e di presentare il protagonista: entrambe parasintetiche, la prima pone l’accento sullo stato d’animo di ‘pena’ del poeta, motivato poi nel secondo verso dal suo stile di vita da ‘girovago’ – immagine cara al poeta che già nell’esordio di Esule, «col batticuore ho corso tutto il mondo», affidava la sua identificazione al viaggio 144. Ma al termine di questo viaggio il protagonista ritrova «la sua città: / distrutta», dove la forte pausa impressa dalla punteggiatura e dalla fine del verso crea un effetto di suspence che, oltre a conferire una grande forza espressiva al passo, isola il termine chiave ‘distrutta’ sottolineandone il forte valore connotativo.

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Nella scelta della voce verbale «penare» si può rintracciare una ripresa della presentazione che a sua volta fa di sé l’autore del Porto sepolto nella lirica Pellegrinaggio: «Ungaretti / uomo di pena», vv. 11- 12, p. 46. L’edizione di riferimento per l’opera di Ungaretti è Vita d’un uomo (1969), cit.; per eventuali altri richiami ci si limiterà a riportare solo il riferimento alla pagina.

Nei primi tre versi della seconda strofa il focus dell’obiettivo si restringe e dalle macerie cittadine passa a illuminare «quegli spazi» dove «respirava» la madre del poeta: l’impiego del termine generico ‘spazio’, per individuare il luogo dove una volta si ergevano le «care stanze» materne, implica un processo di spersonalizzazione provocato dagli eventi contingenti. I termini ‘care’ ‘stanze’ e ‘madre’ appaiono tra loro legati da un rapporto di assonanza, spia di un legame più profondo a livello semantico: le stanze suscitano un sentimento di affetto perché consentono al poeta di percepire con forza la presenza della madre, o forse perché l’azione del tempo ha finito per definire un rapporto di identità tra i luoghi e l’oggetto del ricordo.

All’altezza dell’ottavo verso, la seconda strofa appare scandita in due periodi, evidenziati nel testo dall’espediente grafico dello scalino (spesso utilizzato da Serra) e dall’impiego delle parentesi, che isolano il periodo fino alla conclusione della strofa (v. 12), quasi si trattasse di una didascalia, posta a margine rispetto alla scena principale. Questi due periodi appaiono contrapposti sul piano verbale, poiché alla dilatazione temporale dettata dall’imperfetto «respirava» segue la puntualità del presente «risento»; inoltre «respirava» si distingue rispetto alle altre voci verbali («ritrovato», «risento» e «ricostruirla») che, contraddistinte dal prefisso ‘ri’, esprimono una condizione di ripetizione, di ritorno a una fase anteriore, incarnando così la tensione del ricordo.

Allo spazio chiuso dell’abitazione si contrappone l’aria aperta della notte «azzurra» (Serra appare sempre sensibile al cromatismo), che si innalza sopra alle macerie e rispetto a esse è «superstite»: surrogato del respiro materno, la brezza notturna scompiglia i capelli del poeta con le sue «affilate carezze»; il gesto della ‘carezza’, intimo e delicato, è tratto distintivo della madre e appare ogni volta che il poeta la ricorda, come per esempio in Sabbia nel porto «ed era una carezza, / solo intravisto, quel bianco sì terso», (vv. 17-18, p. 39) o in Verso l’ultimo approdo «caldi della materna carezza la guancia» (vv. 4-5, p. 71).

La terza strofa si concentra sull’abitazione del poeta, termine chiave del componimento (a partire dal titolo) che, oltre a trovarsi in clausola, è rafforzato dal pronome pleonastico che lo precede («ricostruirla»); l’espressione «la mia casa» è

una variatio, più specifica, del secondo verso «la mia città»: in entrambe le diciture il sostantivo è accompagnato dall’attributo possessivo con l’importante funzione di enfatizzare l’aspetto affettivo. Il poeta cerca di ovviare alla distruzione attraverso l’impiego della memoria: con una «geometria immaginaria» prova a innalzare nuovamente le pareti della sua abitazione, ma le «righe invisibili», come «labile fumo», sono destinate a svanire; i termini che delineano la consistenza effimera della ricostruzione sono rafforzati tra loro da corrispondenze foniche, quali la rima tra ‘immaginaria’ ed ‘aria’ e la consonanza tra i due attributi ‘invisibili’ e ‘labile’. Infine, si può notare come il predicato «vanisce» sia impiegato anche da Montale in Casa sul mare, dove la memoria è tema cardine: «tu chiedi se così tutto vanisce / in questa poca nebbia di memorie» (vv. 16-17, pp. 93-94), e più avanti «vorrei prima di cedere segnarti / codesta via di fuga / labile come nei sommossi campi / del mare spuma o ruga» (vv. 27-30, pp. 93-94), dove appare anche l’attributo ‘labile’ impiegato anche da Serra a inizio verso.

Se l’abitazione finisce per coincidere con l’infanzia, la sua distruzione corrisponde all’avvento dell’età adulta, come si legge nell’esordio della quinta strofa «ecco, e dal candido / limitare d’infanzia / qui mi sorprendo / sulle macerie» (vv. 24-27). Mentre il poeta è «quasi vegliardo», l’immagine della madre persiste «giovane ancora, bellissima» (v. 30), cristallizzata come fuori dal tempo; ma «nell’amoroso / sogno» che li lega, anche il poeta rimane «quel bimbo d’allora» (vv. 32-34), dove la venatura sensuale autorizza una sovrapposizione con la figura della moglie. Questa raffigurazione ambigua, oltre a rintracciarsi in altri testi della raccolta come Sabbia nel porto (p. 39), sarà proficua all’interno dell’intera produzione dell’autore che, soprattutto in seguito alla malattia e dipartita della moglie, affiancherà spesso le due figure femminili. Anche in Caproni si trova una sovrapposizione simile, come si legge, per esempio, ne L’ascensore dove mima un fidanzamento con la madre.

L’immagine conclusiva della tomba materna, sulla quale trascorre il vento «solingo», si contrappone alla vacuità e inafferrabilità del ricordo e riporta bruscamente il poeta sul piano del presente. Allo stesso modo anche nel sonetto D’estate (presso una moschea) – analizzato nel capitolo precedente – l’atmosfera languida veniva turbata

dall’affiorare lontano di una tomba spazzata dal vento; il camposanto ricorre anche in altri due testi della sezione dedicati alla città natale – Pianto di madre sul mondo e Alla Spezia – sempre con la funzione di controbilanciare lo slancio del ricordo. Rispetto a Pianto di madre sul mondo, datata «La Spezia, Gennaio 1946» e dal taglio fortemente patetico, Alla Spezia appare più interessante come testimonianza delle sfumature stilistiche rintracciabili all’interno della raccolta.

L’ode per la città ligure, scritta a Marsiglia nel 1948, è composta da una strofa unica di sessantotto versi dal metro vario (in prevalenza settari ed endecasillabi) e viene pubblicata per la prima volta tra le pagine de La casa in mare; attraverso la dedica intrecciata, «A Manara Valgimigli / in memoria di Severino Ferrari / della Spezia amatissimo», Serra intende nobilitare la sua città e allo stesso tempo giustificare il suo intento di lode. Infatti, come precisa nelle Note poste in chiusura del volume, entrambi gli intellettuali furono profondi estimatori della città ligure: il grecista Manara Valgimigli fu insegnante alla Spezia tra il 1903 e il 1905 nel medesimo liceo dove, alcuni anni prima, fu impiegato anche il poeta Severino Ferrari, il quale dedicò alla Spezia una corona di sei sonetti (Serra ne riporta il primo, Fonte)145.

Dalla lettura di questa lirica emerge e colpisce l’impiego di uno stile aulico e classicheggiante, da inscrivere nella volontà dell’autore di attribuire origini elleniche alla sua città natale, come egli stesso spiega, improvvisandosi etnografo, nelle pagine conclusive del volumetto (pp. 92-93):

Sulla costa dell’Argolide, all’ingresso del golfo di Nauplia, un’isoletta e una città si chiamano Spezia.

I Greci, odissei perpetui, cercavano nel Mediterraneo porti belli e sicuri. Nel 600 av. Cr. una colonia di Focesi si spinse fino a quella che fu poi Massalia, dentro quel piccolo golfo intagliato fra rocce d’oro (il «Vieux Port» di oggi). Chi mi dice che essi, o greci d’altra stirpe, non si siano stabiliti, in quei tempi di migrazioni marittime, nel porto di Venere, il più sicuro, il più armonioso del Mediterraneo?

Ad ogni modo, anche se non è vero, mi piace immaginare che di origine greca sia il nome della mia città natale.

La Spezia, Capodanno 1956.

Questa ricostruzione fantasiosa trova conferma tra i versi nell’ode dedicata alla Spezia, come si può evincere dai passi qui di seguito riportati, (vv. 1-4 e vv. 31- 44, pp. 51-53):

Ellenico il nome tuo, Spezia, profumato come l’incenso ch’esali dai limpidi seni. […]

Eri di Venere il porto, delle sue Grazie la riva. Dalla rosea Grecia lontana, e della congiunta Provenza, suonavano canti

che a me fanciullo in un murmure facevi ascoltare,

per gioco all’orecchio appressandomi una conchiglia, di freschi

echeggiante sussurri di mare. E ormai da quanti anni, li òde solo mia madre d’entro il suo sepolcro,

come un bimbo nella sua cuna!

In questi versi si trova anticipata l’immagine eponima della sezione seguente, Echi della conchiglia: attraverso una sorta di rito di iniziazione, quasi incarnata da una ninfa, La Spezia città natale, pone all’orecchio di Ettore bambino una valva marina

dalla quale scaturiscono i sussurri del mare, che lo mettono in contatto con la sua storia mitica.

Prima di proseguire con l’analisi della raccolta, occorre soffermarsi sulla tappa conclusiva della sezione, Virgulti sulla frana (pp. 55-56, dedicata «Agli amici Barile e Sbarbaro / ricordando una pergola»), che segna un’apertura rispetto al clima elegiaco progressivamente intessuto ne La gronda ferita. Protagonista della scena è la «faccia franata / della vecchia casa marina», dove «non c’è più colore», poiché gli agenti atmosferici, «sferzate di pioggia e venti, / morsi di salsedine», sommati allo scorrere del tempo hanno determinato il graduale sbiadirsi di quella che una volta era «tutta colore di rosa». L’esordio avversativo della seconda strofa (attraverso la congiunzione ‘ma’) anticipa un cambiamento rispetto al taglio malinconico dei versi iniziali: grazie all’arrivo della primavera la vecchia casa «gode, e si scalda / a quel suo ricordo di rosa», dove il termine ‘rosa’ possiede una sfumatura polisemica, che richiama il primitivo colore della facciata e allo stesso tempo suggerisce la ritrovata freschezza del fiore, ricordo di giovinezza.

Nella parte centrale della lirica la casa, dai tratti antropomorfi, «intorno attonita guarda» (v. 12) l’arrivo della stagione primaverile e la conseguente l’esplosione vitale della natura, osserva il mondo che «si dora / nella quiete come un frutto» (vv. 13-14), spia la vite che mette «[…] le prime fogliette / sulla muraglia friabile» (vv. 22-23) e così sotto i riflessi del sole la sua «faccia rugata / sotto cigli d’ardesia s’illumina» (vv. 29-30). A seguire la prima parte descrittiva, nell’ultima breve strofa (vv. 31-34), sempre fedele al modello leopardiano, il poeta si immedesima nell’abitazione e introietta dentro di sé il paesaggio:

Così, anche a me basta un nulla, perché la mia vita si colori di giovane sangue, e ripalpiti.

Il ritorno della bella stagione comporta un risveglio nel poeta, un’apertura positiva verso il futuro, simile a quella del «fanciullo antico» di Riviere (pp. 103-105),

componimento conclusivo degli Ossi di seppia, che auspica di «cangiare in inno l’elegia» (v. 56). La «prematura guarigione» del testo montaliano non trova un riscontro solo tematico in Virgulti sulla frana, ma viene anche ripresa dal punto di vista formale negli ultimi versi, nei quali Serra opera una sorta di sintesi richiamando sia l’incipit – «Riviere, / bastano pochi stocchi d’erbaspada / […] / ed ecco che in un attimo / invisibili fili a me si asserpano», vv. 1-2 e vv. 10-11, [corsivo mio] – sia l’explicit – «[…] e nel sole / che v’investe, riviere, / rifiorire!», vv. 64-66.