4. La tastiera composita della poesia serriana.
4.2 Da Stambul a Parigi: il tema del viaggio nella lirica serriana.
4.2.1 Mattinata a Stambul 126
La serie dei componimenti nati dall’occasione dei viaggi possiede una sua coesione interna, poiché il poeta, che si trovi a Costantinopoli, a Parigi o a Marsiglia, è spinto dalle medesime sensazioni e preoccupazioni legate sia alla sua condizione di esule, sia al pensiero costante per la famiglia lasciata a Livorno, in particolare la moglie, spesso oggetto delle sue riflessioni. Stambul ed altri paesi del 1936 possiede anche un suo equilibrio a livello interno, poiché attraverso il susseguirsi delle sezioni l’autore scandisce in modo analitico le tappe del suo itinerario di viaggio.
Mattinata a Stambul, testo rappresentativo di questa raccolta confluito poi nel postumo Canzoniere (pp. 45-47), è una rivisitazione in chiave moderna della tradizionale forma canzone: suddivisa in quattro stanze di irregolare lunghezza, è formata da un’alternanza di settenari ed endecasillabi, a parte alcune eccezioni concentrate nei versi iniziali.
Di questa lirica sono giunte tre redazioni pubblicate rispettivamente in Stambul ed altri paesi del ’36, Serata d’addio del ’61 e infine nel postumo Piccolo Canzoniere, composte rispettivamente da quarantotto, sessantotto e cinquantun versi. Come si può dedurre dalle oscillazioni quantitative, tra queste stesure sono riscontrabili profonde differenze testuali, senza però che la trama principale della lirica subisca variazioni significative: al centro della narrazione è posto l’autore protagonista che, dopo essersi svegliato nella sua stanza, si slancia tra le strade affollate e multiculturali di Costantinopoli, pronto ad affrontare la sua avventura quotidiana127.
Mettendo a confronto le tre redazioni di Mattinata a Stambul si può notare come sia la versione presente in Serata d’addio a divergere maggiormente dalle altre: in linea con lo spirito generale dell’opera, si assiste infatti a una dilatazione del testo in chiave patetica. Con la redazione definitiva riportata nel Canzoniere i luoghi “crepuscolari”
126 Quando i componimenti a cui si fa riferimento sono tratti da Piccolo Canzoniere (1987, cit.) ci si
limiterà a riportare il numero di pagina tra parentesi, in caso contrario si segnalerà attraverso un preciso riferimento bibliografico la raccolta di provenienza.
127 Il testo si trova in Stambul ed altri paesi (1936), cit., pp. 21-22, e in Serata d’addio (1961), cit., pp.
vengono rimarginati, offrendo una versione del testo assimilabile piuttosto a quella di Stambul; tuttavia la maggiore asciuttezza formale e narrativa, risultato dell’incessante labor limae dell’autore, rende senza dubbio l’ultima stesura del testo – quella qui di seguito trascritta – la più convincente:
Da verdi nuvole mi sveglia un canto. Son vivo, nel sudario, ma sospiro pensando che un altro giorno è nato. A malincuore lascio
(in preda ai tarli) il mio vecchio divano, fiabesco Gran Visir, calco solenne verminosi viali di tappeti,
varco mura, cancelli, e arditamente mi slancio contro la città proterva.
(Se a mezzogiorno non potrò tornare, accenderò stasera un po’ di fuoco nella cucina immensa,
dove sola è rimasta filacciosa la mia povera gatta,
affusolata sul camino spento.)
Nella distesa celeste mattina, benché timido, affronto il Caravanserraglio, disordinata, sucida matassa di vicoli in discesa.
Cinte di rovi e cancellate salto, espugno fortilizi di letame difesi da mosaici e griglie d’oro. E qui d’ogni paese
ritrovo sul mattino, come sempre, santi fuggiaschi e acerbi anacoreti. Pallore di prigione, facce magre, spasimante silenzio delli sguardi: è gente che si affanna, e raspa, e cerca nei grovigli di spine e di lordure anche per oggi il pane.
Vagola dentro i sottoscala bui, presso le fogne; arranca pei rifiuti che dalle rive e dalle navi gettano sul trasparente velo.
Ma lungo l’acque della Cornucopia, meduse enormi levigano in cielo come in un mare d’indaco, si gonfiano d’opale sovra i templi. E l’esule sospira se intravede il minareto fulgere
che stelo affilatissimo si spinge a ritrovar la sua corolla in cielo. Entro sotto la cupola.
Potessi,
potessi anch’io volgendomi alla Mècca, pregare genuflesso Mohammed,
e finalmente pago, persuaso alzare gli occhi al verde Paradiso calmo, accettando il destino qual è.
La giornata del poeta inizia all’alba quando viene svegliato dalla preghiera del muezzin, che si espande «da verdi nuvole»; il componimento si apre con una notazione cromatica che non solo conferma la tendenza al bozzettismo già riscontrata in Serra, ma possiede anche un’importante implicazione simbolica: il verde è infatti il colore emblema dell’islam e la scelta di inserire questo attributo nel verso d’avvio
possiede una sfumatura deittica, di anticipazione dell’atmosfera generale del componimento. Le avventure del protagonista si svolgono sullo sfondo della città musulmana di Costantinopoli e gli elementi caratteristici di questa cultura, come il «Caravanserraglio» o il «Gran Visir», partecipano alla narrazione quasi fossero personaggi sulla scena, messi in risalto anche grazie all’iniziale maiuscola.
In modo quasi speculare all’esordio, si può notare come l’attributo «verde» sia reiterato nel penultimo verso, quando il protagonista sogna di poter alzare gli occhi al «verde Paradiso», meta ultraterrena secondo la fede islamica. La ricorrenza simbolica di questa notazione coloristica si trova anche nella lirica successiva, Sera dell’uomo solo (pp. 48-50), dove ancora una volta il protagonista si muove alle prime luci dell’alba e l’atmosfera circostante viene visualizzata in modo emblematico attraverso l’attributo «verde128»: «Calmata la furente / luce del giorno, / a consolarmi il palpito / seguo per l’aria verde, delle prime / ghirlandette di lumi / sui minareti, il volo / delle colombe» (vv. 1-7).
Dopo una riflessione preliminare sull’inizio di un giorno nuovo (vv. 3-5), in cui vita e morte sono messe in relazione nel verso antitetico «son vivo nel sudario», prende avvio l’avventura quotidiana del protagonista, descritta con accenti eroicomici: Ettore si autodefinisce in tono iperbolico «fiabesco Gran Visir» (nelle edizioni precedenti si legge l’espressione ancor più esplicita «scendo solenne come il Gran Sultano»), e dopo aver abbandonato «a malincuore» il suo divano «in preda ai tarli», attraversa con solennità «viali di tappeti verminosi», ovvero brulicanti di vermi, e con ardore si slancia «contro la città proterva».
Come in un a parte teatrale, dove l’attore esprime i suoi pensieri parallelamente alla scena principale, così nella seconda strofa – la più breve di soli sei versi – momentaneamente la narrazione si interrompe per dare spazio ai pensieri del protagonista (espediente reso graficamente attraverso l’impiego delle parentesi). Mentre si allontana dalla sua dimora, Ettore si interroga sulla sorte della sua gatta «filacciosa» destinata, nel caso non rientrasse per il pranzo, ad aspettarlo tutto il
128 Anche in questo componimento l’attributo verde appare due volte, sebbene nella sua seconda
giorno «affusolata sul camino spento»; a diversificare questa porzione di testo, oltre all’utilizzo delle parentesi, è anche l’impiego del futuro semplice al posto del presente o dell’imperfetto, che caratterizzano invece tutto il brano.
La narrazione riprende nella strofa successiva, quando il protagonista, «benché timido», è pronto ad affrontare il Caravanserraglio, edificio della tradizione araba caratterizzato da un’ampia corte interna, dove avveniva la sosta o il ricovero delle carovane, qui utilizzato in modo figurato per indicare analogicamente la grande confusione che regna a Costantinopoli. L’eroe protagonista si accinge a misurarsi col Caravanserraglio-Costantinopoli «disordinata, sucida matassa / di vicoli in discesa129» (vv. 21-22), si prepara a saltare cancellate e cinte di rovi, a espugnare fortilizi – che in realtà sono formati da letame – difesi da mosaici e griglie d’oro: in questo passo la sfumatura eroicomica si risolve nel contrasto tra i verbi e gli attributi utilizzati dal narratore per descrivere le proprie azioni e lo scenario decadente in cui vengono calate. Questo aspetto risulta maggiormente accentuato nella versione presente in Serata d’addio, dove la terza strofa di trentadue versi risulta essere quasi il doppio rispetto alla versione definitiva del Canzoniere (diciotto versi) e quasi il triplo rispetto alla prima stesura del ’36 (undici versi); qui la narrazione si sofferma per dieci versi (24-34) sul furore di guerra del protagonista, disposto a sfidare «con armi di legno» gli abitanti di Costantinopoli «tremebondi / e di paura pallidi»: questi versi, privi di corrispettivo nella versione del ’36, verranno poi eliminati in quella definitiva in funzione di uno snellimento narrativo.
Ritornando al testo del Canzoniere, il poeta prosegue con la descrizione del degrado di Stambul e, dal verso 26 fino alla conclusione della terza strofa (v. 37), arricchisce il quadro soffermandosi sui volti «d’ogni paese» che affollano le strade della città: tutte le mattine egli incontra sul suo itinerario i commercianti del Gran Bazar o gli operai del porto, che come lui si dirigono al lavoro. Costoro vengono prima definiti su un piano allegorico come «santi fuggiaschi e acerbi anacoreti», poi in modo più concreto e visivo si evocano il «pallore di prigione, facce magre / spasimante silenzio
129 Questo verso subisce forse la suggestione della lirica ungarettiana In memoria: «L’ho
accompagnato / insieme alla padrona dell’albergo / dove abitavamo / a Parigi / dal numero 5 della rue di Carmes / appassito vicolo in discesa» (vv. 22-27, [corsivo mio]).
delli sguardi», espressioni legate per asindeto e rafforzate da un intreccio di allitterazioni e assonanze.
Al degrado del paesaggio urbano e umano dei vicoli di Stambul si contrappone lo scorcio paesaggistico offerto dall’ultima strofa, introdotta dal «ma» avversativo (v. 38), nella quale protagonista della scena è l’opposizione tra cielo e mare, o ancor meglio la loro compenetrazione. Il poeta volge lo sguardo «lungo l’acque della Cornucopia», sinonimo per indicare il Corno d’oro, canale che divide la città di Istanbul in due parti, lungo il quale si stagliano le sagome degli edifici, delle ville, dei giardini, dei luoghi di culto sovrastati da una moltitudine di cupole130. Sono proprio queste cupole a consentire la compenetrazione tra cielo e mare: «meduse enormi levigano in cielo / come in un mare d’indaco, / si gonfiano d’opale sovra i templi», la forma e il colore ceruleo delle molteplici cupole che si profilano nel cielo di Istanbul ricordano meduse che proiettate su di un cielo d’indaco lo rendono analogicamente sovrapponibile alla distesa marina.
«E l’esule sospira se intravede / il minareto fulgere», ovvero risplendere, mentre «stelo affilatissimo si spinge / a ritrovar la sua corolla in cielo»: a Istanbul molteplici minareti, come i sei che sorgono intorno alla Moschea Blu – per numero inferiori solo alla moschea della Mécca, che ne possiede uno in più – con la loro forma longilinea e sottile si allungano verso il cielo, e questa peculiarità architettonica consente al poeta l’assimilazione con un fiore alla ricerca della sua corolla131.
Questi versi divergono dalle redazioni precedenti offrendo un interessante esempio del labor limae serriano, (a sinistra si riportano i versi di Serata d’addio, vv. 60-63, p. 35, e a destra quelli tratti dal Canzoniere, vv. 42-45, p. 47) :
E il cuore s’alza come un minareto dilanïante stelo che si spinge
E l’esule sospira se intravede il minareto fulgere
130 In prossimità del Corno d’oro sorgono le due moschee principali della città, la Moschea Blu e Santa
Sofia, che con il susseguirsi delle loro numerose cupole potrebbero aver ispirato questa immagine al poeta. Inoltre la Moschea Blu prende il suo nome dal particolare colore delle sue cupole.
131 In quest’immagine si può vedere una suggestione dei versi conclusivi della lirica ungarettiana I
a ritrovare una corolla in cielo. che stelo affilatissimo si spinge a ritrovar la sua corolla in cielo.
Oltre alla soppressione del termine patetico «cuore» a favore del generico «esule», nell’edizione definitiva al posto della similitudine viene preferito un legame meno diretto e sottointeso tra il sospiro dell’esule e la forma del minareto; anche l’espressione «a ritrovare una corolla in cielo» viene modificata inserendo, al posto dell’indeterminativo, l’articolo determinativo rafforzato dal possessivo, espediente che rende l’immagine più puntuale e meno vaga.
La forma allungata dei minareti assolve a una funzione religiosa di richiamo costante per il fedele islamico che, potendoli scorgere anche a grande distanza, ha la possibilità di affievolire affanni e incertezze; questa opportunità di sollievo religioso non è fruibile per il poeta non credente, e anzi insinua riflessioni e dubbi. Se infatti ai versi 42-45 sembra esserci una svolta sul piano impersonale e universale («e l’esule…»), caratterizzata dall’uso della terza persona e assolutamente insolita nella produzione serriana, a due versi di distanza si rivelerà essere un pretesto per creare un parallelismo con i sentimenti di rammarico e angoscia che si innescano nel protagonista.
Gli ultimi versi del componimento si concentrano sul dissidio interiore del poeta, sulla sua speranza di condividere un giorno la fede in una vita ultraterrena, come evidenzia la carica patetico-ottativa del predicato in anadiplosi «Potessi / potessi anch’io[…]», enfatizzato e rafforzato anche dall’uso del verso spezzato, che nella sua prima occorrenza al verso 46 appare isolato nella pagina. A completare il predicato sono poste due proposizioni infinitive – «pregare genuflesso Mohammed» e «alzare gli occhi al verde Paradiso» – che descrivono concretamente e in sequenza i gesti quotidiani compiuti dai fedeli musulmani, spiati con invidia dal protagonista. Questa invidia è rivolta alla serenità concessa da una vita scandita dalle abitudini religiose e da un approccio a-problematico, fruibile dal poeta solo quando riuscirà a sentirsi «pago, persuaso», «calmo, accettando il destino qual è», come recita con perentorietà il verso conclusivo (grazie all’utilizzo dell’endecasillabo tronco).
Il tormento interiore, destinato con lo scorrere del tempo a divenire sempre più centrale e incalzante, è ricorrente già all’altezza di Stambul, quando, nascosto dietro a soleggiati scorci irrompe il dubbio, risuona l’inchiesta esistenziale, come nella lirica In ascolto (vv. 28-29, pp. 33-34) «Ma perché sono in questo / punto di mondo?», o ancora in Grido notturno (vv. 9-10, pp. 36-37) «Dove ho vissuto, e quale il mio destino / quando la luce apparirà sul mondo?». L’incapacità di trovare sollievo nella fede diventerà negli anni ’60/’70 oggetto di discussione tra il poeta spezzino e i poeti della riviera di Ponente, Angelo Barile e il padre cappuccino fra Gherardo Del Colle, che cercheranno di guidare l’amico alla scoperta della serenità interiore, senza tuttavia ottenere mai il risultato sperato; il poeta continuerà, infatti, a sentirsi stretto in un insanabile dissidio, come recita l’epigrafe dantesca posta in apertura dell’ultima sezione del Canzoniere: «il sì e il no nel capo mi tenzona». Lo stesso Serra nella postfazione al Canzoniere scrive: «Barile lesse da solo, e nel 1967 ad Albisola con me, le poesie riunite in questo piccolo canzoniere, ma non tutte; e ora penso con tristezza che molto gli dorrebbe di me se conoscesse certi componimenti (ad esempio Comparsa e Sommario) che non avrebbe potuto approvare, aridi, e gravati come sono dalla tormentosa ombra del dubbio132»; a conferma delle parole serriane si riportano gli ultimi versi di Sommario (pp. 194-195): «Né posso lamentarmi se col nascere, / dono d’acerba luce, / a noi fu solo promessa la morte» (vv. 31-33).