5. I versi liguri: La casa in mare.
5.3 La cornice de La casa in mare: dalla Prefazione al Congedo.
5.3.1 Lettura di Salvataggio.
Le quattro sezioni principali de La casa in mare sono inserite in una cornice delineata dai componimenti singoli che formano Prefazione e Congedo, rispettivamente Salvataggio (pp. 13-14) e la breve prosa Apoteosi d’un lanaiolo musico (pp. 81-86). A rendere compatto l’assemblaggio della cornice è il carattere speculare dei due componimenti – sul quale si avrà modo di soffermarsi più avanti – e, seppur nella profonda differenza di registro, la messa in scena di una sorta di favola, in entrambi i casi proiettata su di uno sfondo marino.
La lirica Salvataggio (pp. 13-14), composta da una singola strofa di ventisette endecasillabi sciolti, viene pubblicata per la prima volta nel ’54 tra le pagine de «La fiera letteraria» con alcune varianti rispetto alla redazione definitiva, che si legge poi, sempre nello stesso anno, nel libello Saper dir di sì, nel quale riveste già la posizione inaugurale. Il testo presenta l’intestazione in esergo «Per Antonio Baldini, che tante volte / dal suo faro tranquillo, m’incoraggiò / a riprendere il mare», scrittore amico del poeta e collaboratore a diverse testate letterarie novecentesche, tra le quali si ricordano «La Voce» e «La Ronda».
Protagonisti della scena sono un equipaggio – come poteva essere quello della stessa ditta serriana – e un’imbarcazione, da quest’ultimo tratta in salvo (come suggerisce il titolo) dagli abissi marini: all’euforia dei marinai e operai dell’equipaggio, che occupa la parte iniziale del componimento, a partire dal dodicesimo verso si contrappone il cordoglio dell’imbarcazione che, umanizzata, ha la possibilità di esprimersi in prima persona.
Dal mare in un groviglio di rottami lenta risorge la nave salvata. Il ventre enorme, per tetri fondali, uomini anfibi assidui ricucirono,
l’ossigeno s’inspira, cauti spinsero l’aria, commisurandola, nel suo
corpo già inerte che or vibra emergendo. Di gioia ride e piange l’equipaggio avventuroso, come fa il chirurgo − con più riserbo – se una vita salva. Ma il vecchio scafo rugginoso e scabro di crostacei, che s’era addormentato dolcemente sul fondo – dopo tanti colpi di mare – cigola, resiste, e lacrima dalle orbite corrose
delle cubìe. Spettrale guarda, e geme: «Il mio destino… Ancora il mare aperto, l’avvicendarsi, ancora, delle calme monotone alla furia delle raffiche fra le sàrtie, e implacabile l’estivo azzurro, e desiderio, sete, febbre d’un porto irraggiungibile. Del mondo, dell’arcano suo cerchio d’acqua e stelle, ormai nell’ombra dormivo dimentico, dai risucchi e dall’alghe levigato. Perché non farmi riposare al fondo?»
Marsiglia, aprile 1953
Nei due versi iniziali viene brevemente riassunto l’avvenimento concreto, occasione poetica per il componimento: una nave, avviluppata «in un groviglio di rottami» (e quest’ultimo termine richiama alla memoria il primo titolo ipotizzato per gli Ossi montaliani), viene recuperata dalle profondità marine, mentre l’equipaggio assiste alla risalita. Il lessico impiegato anticipa l’atmosfera generale del componimento: a partire dal titolo, infatti, appare chiaro il richiamo all’area semantica della “salvazione”, sulla quale insistono anche il participio passato «salvata» e il verbo «risorgere», ovvero tornare in vita; inoltre a conferire maggiore solennità al passo è l’attributo «lenta»,
che contribuisce a dilatare la scena, anche grazie alla posizione di rilievo in cui è posto – all’inizio del verso anticipando predicato e sostantivo. La scelta del predicato “risorgere” risulta importante per tre motivi: esalta il gesto compiuto dall’equipaggio, anticipa il processo di umanizzazione della nave, introduce il movimento di risalita verticale che, come poi si vedrà, può essere assimilato a quello del palombaro.
Dal terzo all’undicesimo verso la narrazione compie un salto all’indietro nel tempo, alla fase di lavoro subacqueo che precede l’estrazione dagli abissi: a rendere possibile il recupero dell’imbarcazione è la paziente costanza degli «uomini anfibi assidui», i palombari che, attraverso il «mozzo respiro» concesso loro dal tubo dello scafandro, sono in grado di resistere sottacqua per lunghi periodi e di ricucire, senza interruzione, il «ventre enorme» dell’imbarcazione. Inizia a questa altezza la metafora medica, esplicitata poi nei versi successivi e portata avanti fino al verso 12, nel quale il gesto del palombaro viene assimilato a quello del chirurgo. Oltre a mettere in luce il graduale processo di umanizzazione dell’imbarcazione (culminante nel monologo finale), viene così sottolineata la delicatezza e accortezza degli operai del mare che «cauti», dopo aver «ricucito» il «ventre» dello scafo, spingono l’aria proprio come il chirurgo inspira l’ossigeno a un morente.
Prima di procedere con l’analisi, occorre sottolineare l’attenzione retorica e stilistica impiegata dall’autore nella costruzione della similitudine che occupa i versi 5-8: «[…] E poi, come a un morente / l’ossigeno s’inspira, cauti spinsero / l’aria, commisurandola, nel suo / corpo già inerte che or vibra emergendo». Dal punto di vista retorico si nota la presenza di una costruzione chiastica («ossigeno s’inspira» – «spinsero / l’aria») rafforzata anche da un enjambement (vv. 6-7); inoltre, prendendo in esame anche la conclusione del primo emistichio del quinto verso, bisogna notare il particolare legame che unisce i termini «respiro», «inspira» e «spinsero»: se i primi due appartengono alla medesima area semantica (e quindi formano una figura etimologica), al contrario, nei confronti del terzo si instaura il meccanismo opposto: l’apparente tessuto fonico che li accomuna non appartiene a una medesima radice etimologica, andando a formare così una paronomasia. Dal punto di vista stilistico, le pause impresse dalla punteggiatura risultano finalizzate a dettare il ritmo
dell’episodio, a trasmettere l’incedere accorto degli operai subacquei che immettono l’aria «commisurandola»; oltre a essere isolato attraverso i segni di interpunzione, quest’ultimo termine incarna, grazie alla sua segmentazione sillabica, anche fonicamente l’accortezza dell’atto di misurazione. Sempre dal punto di vista fonico risulta interessante l’orditura dell’ottavo verso, in cui la ricorrenza del suono vibrante – in realtà diffuso in tutto il componimento – traduce il tremolio causato all’imbarcazione dalla risalita, come mette in risalto anche la scelta dell’avverbio «or» in forma apocopata.
Procedendo con l’analisi, i versi 9-11 sono dedicati alla raffigurazione degli operai del mare, passo apprezzato anche da Saba, che in una lettera inviata a Serra osserva: «mi è piaciuta specialmente il passo che riguarda l’equipaggio, che ravviva tutto il componimento151». La risalita dell’imbarcazione provoca nell’equipaggio «avventuroso» una reazione di gioia che può essere assimilata a quella del chirurgo quando salva una vita, ma con una differenza: all’euforia riservata del medico si contrappone la felicità scomposta dell’equipaggio che, come sottolinea l’antitesi del verso nove, senza trattenersi «ride e piange». A rafforzare il legame metaforico tra l’azione degli operai subacquei e quella del chirurgo è il parallelismo tra la clausola del secondo verso «nave salvata» e quella dell’undicesimo verso «come fa il chirurgo / […] se una vita salva», che mette in collegamento la vita umana e la nave.
La metafora ripresa dal campo medico, qui attribuita genericamente al lavoro subacqueo degli operai del mare, ritorna in modo più specifico nel terzo testo della raccolta, Il babbo palombaro, dove attraverso gli occhi di Ettore bambino viene descritto il lavoro paterno: «in fondo in fondo, laggiù lavoravi / sulle navi ammalate, / ferite, o morte. / Mi diceva la mamma / ch’eri il chirurgo, il medico / delle navi ammalate, / e al loro freddo capezzale d’acqua / scendevi, e le guarivi» (vv. 28-35). Al coraggio degli operai del mare fa eco la loro innata delicatezza, tratto peculiare anche del padre Antonio Serra che, seppur «maschio e coraggioso», possiede una
151 Questa missiva sabiana del 28 aprile 1953 si trova custodita presso l’archivio Serra a Roma,
innata «gentilezza di fanciulla»; è proprio questo contrasto a conferire al padre di Ettore – come a tutti i sommozzatori – caratteristiche che esulano dalla norma.
Il dodicesimo verso, introdotto dal «ma» avversativo, segna l’inizio della seconda parte del componimento dove viene descritto il «vecchio scafo rugginoso» – in opposizione all’equipaggio «avventuroso», termini collegati per omoteleuto – e «scabro / di crostacei», ovvero ruvido a causa della superficiale incrostazione di organismi marini152. In questi versi giunge a compimento il processo di trasfigurazione dell’imbarcazione, alla quale vengono attribuiti sentimenti e sembianze umane: al pianto di gioia dell’equipaggio si contrappone lo stato d’animo della nave che «cigola, resiste, / e lacrima dalle orbite corrose / delle cubìe», dove quest’ultime (i fori cilindrici che, praticati nella parte laterale della chiglia, permettono il passaggio della catena o dell’ancora) si trasformano in pupille umane attraverso le quali lo scafo «spettrale guarda, e geme».
Al gemito provocato dalla risalita sono dedicati gli ultimi nove versi nei quali, grazie all’utilizzo del discorso diretto, la nave umanizzata ha la possibilità di esprimere in prima persona il suo rimpianto per la vita trascorsa negli abissi. In seguito alla riabilitazione delle sue funzioni sa che ad attenderla sarà «ancora» la vita del mare, «ancora» l’alternarsi periodico di momenti di «calme monotone» alla «furia delle raffiche / fra le sàrtie» (i cavi fissi che sostengono trasversalmente gli alberi delle navi), l’azzurro dell’estate «implacabile», e infine sa che al viaggio sopra il livello dell’acqua corrisponde «desiderio, sete, febbre / d’un porto irraggiungibile» (quest’ultimo termine concorda per omoteleuto con il precedente «implacabile», a sottolineare la ricercatezza fonica ordita dal poeta). Attraverso questa enumerazione, evidenziata sia dall’anaforico «ancora», sia dall’ellissi del verbo principale, le parole dello scafo assumono una forte enfasi emotiva che culmina nel termine chiave «porto irraggiungibile», messo in rilievo anche dalla climax ascendente che lo precede. Il porto è una presenza ricorrente all’interno della raccolta (come nell’intera produzione dell’autore) e appare interessante notare come al variare dei
152 Dopo il «rottami» del primo verso, al verso 12 appare un altro termine di ascendenza montaliana,
«scabro», come più avanti, al verso 15, si leggerà «cigola», richiamo dell’incipit del celebre osso
componimenti assuma connotazioni e sfumature diverse: può essere luogo concreto, scalo di merci e crocevia di diverse etnie, come appare nella lirica omonima (Porto p. 59, analizzata nel capitolo precedente), ma può alludere anche alla dimensione del viaggio in chiave metaforica, come punto di partenza o di agognata destinazione. In Sabbia nel porto «giunta la sera, il bimbo / fra gli ultimi rabbuffi / – veliero al vento in giorno di libeccio – / sussulta, e alfine approda / calmo in seno alla madre, come in porto» (vv. 1-5, p. 39), il poeta attinge dall’immaginario concreto dei suoi viaggi e assimila il rientro a casa dopo una giornata di lavoro all’abbraccio materno, meta di tranquillità come il porto per un navigatore. In Verso l’ultimo approdo (pp. 71-75), nel quale l’equipaggio è ritratto nel momento in cui salpa dal porto «della giovinezza», la metafora del viaggio assume una portata più ampia: la narrazione esula dall’esperienza diretta dell’autore e si innalza a livello oggettivo, inscenando una «sintesi lirica della storia d’ogni uomo153», in cui l’equipaggio che salpa dal porto della giovinezza è destinato a non gettare l’ancora se non «in braccio a morte» (v. 91).
Come recitano le parole dello scafo, anche in Salvataggio, in modo analogo rispetto a Verso l’ultimo approdo, il «porto irraggiungibile» incarna la tensione umana nei confronti di un’inarrestabile ricerca, anticipando così l’andamento parabolico dell’intera raccolta, che culminerà in una progressiva rarefazione e oggettivazione del tema marittimo. Tuttavia nella lirica prefazione l’immagine del porto come punto d’arrivo possiede un valore aggiunto, poiché consente di intrecciare la dimensione orizzontale del viaggio sopra agli abissi a quella verticale, incarnata nel movimento di risalita dell’imbarcazione. Lo scafo, che «s’era addormentato / dolcemente sul fondo – dopo tanti colpi di mare» (da notare la trama musicale creata dal ricorrere del suono “do”), piange nel momento dell’estrazione perché sa che alle spedizioni marittime corrisponde la febbre per una destinazione impossibile da raggiungere. Prima del naufragio, adagiato sulla piana abissale il vecchio scafo «dormiva dimentico», privo dei turbamenti e dei desideri che lo accendevano al di sopra della superficie marina, in quel mondo misterioso fatto «d’acqua e stelle», soggetto alla ciclicità del tempo. Il
rifugio marino, equivalente a una condizione accogliente d’oblio fuori dal tempo, rappresenta una via d’uscita all’inutile moto di ricerca condotto sopra il livello dell’acqua, destinato a rimanere deluso; il rapporto dialettico con le profondità marine riecheggia il messaggio della suite montaliana Mediterraneo in cui il mare, padre “patrigno” – per usare un’allocuzione di ascendenza leopardiana –, dopo aver plasmato l’individuo lo respinge, determinando in quest’ultimo il vano desiderio di tornare nel suo grembo ospitale e privo di pericoli.
Nel movimento di discesa e risalita dagli abissi compiuto dall’operaio del mare, oltre alla suggestione orfica del Porto Sepolto ungarettiano, bisogna quindi rintracciare anche l’influsso del legame tra mare e individuo al centro della III sezione degli Ossi montaliani: i sommozzatori, grazie alla loro natura intermedia di «uomini anfibi» – come recita il quarto verso di Salvataggio –, si contraddistinguono dagli altri esseri umani per la capacità eccezionale di trascorrere lunghi periodi immersi nelle profondità marine. Tuttavia anche per loro, come per lo scafo protagonista di Salvataggio, questa condizione privilegiata, estranea alla temporalità, è destinata a giungere a termine, come accade al padre del poeta nei versi conclusivi del poemetto inserito nei Ritratti di famiglia, (vv. 237-254), raffigurato nel momento della definitiva risalita:
Se li sorprende l’uomo, in esilio qui vivono
e tristemente muoiono gli uccelli; così le creature
generate dal mare,
quando l’onda le butta sulla sabbia. Dopo tanta fatica,
(da molti anni era morta la soave nostra madonna),
tornasti a riva dai puri fondali col tuo peculio che sapeva d’alghe. Ma per te fu l’esilio,
in queste arse contrade. Moristi come muoiono i palombari,
con le povere vene consumate dall’aria tenebrosa,
compresso il cuore dopo tante prove154.
Per il palombaro la vita terrestre equivale a una violazione della sua indole naturale, proprio come un volatile in gabbia, o come le creature marine sbattute sulla spiaggia in seguito a un fortuito colpo di mare; in modo analogo il protagonista di Mediterraneo, nel VII movimento, assimila il suo destino a quello de «l’informe rottame / che gittò fuor del corso la fiumara / del vivere in un fitto di ramure e di strame» (Ho sostato talvolta nelle grotte, vv. 22-24, p. 54).
Sebbene il rapporto dialettico tra l’uomo anfibio e le profondità marine sia portato avanti da Serra con minore intensità esistenziale, al malessere provocato dall’esilio corrisponde la valorizzazione dei «puri fondali» – dove il «francescano del mare» poteva predicare ai pesci – a scapito delle «arse contrade», espressioni collegate nel testo grazie a un parallelismo tra le clausole dei versi 246 e 249. Anche il protagonista di Salvataggio, che piange al momento della risalita, vorrebbe continuare a riposare sul fondo dove, levigato dai risucchi delle correnti e dal movimento delle alghe, ormai divenuto «rugginoso e scabro di crostacei», sembra aver realizzato un processo di metamorfosi in elemento equoreo, proprio come auspica per sé il protagonista di Mediterraneo, che in apertura del VII movimento recita: «Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi, / mangiati dalla salsedine; / scheggia fuori dal tempo […]», (vv. 1-4, p. 59).
La suggestione della III sezione degli Ossi di seppia si rintraccia fortemente anche nella mancata trasformazione del protagonista di Rifiuto di naufragio (pp. 63-64), nella sezione Echi della conchiglia: «della sabbia potessi che nell’ombra / già si
154 Questa lirica confluirà in versione ridotta e riveduta nel postumo Piccolo canzoniere (1987), cit.;
emblematici i cambiamenti apportati a questi versi, che saranno spogliati dall’inciso patetico posto tra parentesi «(da molti anni era morta la soave / nostra madonna)», (E. Serra (1987), cit., pp. 22-27).
annera, il più sperso, consumato / granello farmi, e sparire nell’umida / traccia che lascia l’onda; / o mentre – labbro timido – ritorna / il flutto lieve al vento e si pronuncia, / farmi goccia che illumina la luna / per un attimo, e subito s’abbuia / nell’infinito tempo» [corsivo mio]. Oltre alla complessiva suggestione tematica della suite montaliana, è possibile riscontrare calchi formali, quali l’ottativo «potessi», apertura dell’ottavo movimento, «Potessi almeno costringere in questo mio ritmo stento», e il predicato «sparire», reminiscenza dei versi 32-33 di Riviere, «sparir carne / per spicciar sorgente» [corsivo mio].