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Ritratti di famiglia.

5. I versi liguri: La casa in mare.

5.1.1 Ritratti di famiglia.

La casa in mare si apre con una dedica propiziatoria alla Liguria, alla quale segue la lirica-cornice Salvataggio, isolata come unico testo all’interno della Prefazione (e sulla quale si avrà modo di tornare in seguito). La prima sezione vera e propria è Ritratti di famiglia, in cui l’autore, come recita il titolo, affresca una sorta di genealogia familiare; è composta da sole tre liriche, tra le quali si può subito scorgere una grande differenza nel numero di versi: le prime due, I nonni (pp. 17-22) e Il babbo palombaro (pp. 23-32), contano rispettivamente centoquarantadue e duecentosettantuno versi, contro i soli quattordici di Autoritratto (p. 33). La differenza quantitativa è anche spia di una differenza interna, da proiettare sullo scenario più ampio dell’intera raccolta: i quattrocentotredici versi totali dei due componimenti, oltre a pesare quasi un terzo sul numero complessivo dei versi de La casa in mare, possiedono tratti stilistici e tematici peculiari che consentono loro di emergere all’interno della raccolta (così come all’interno dell’intera produzione serriana).

139 Durante la trattazione quando ci si riferirà ai componimenti de La casa in mare – (1959), cit. – si

riporterà semplicemente il riferimento alla pagina; in caso contrario, si segnalerà attraverso un preciso riferimento bibliografico la raccolta di provenienza.

Entrambi i componimenti, I nonni e il poemetto dedicato al palombaro Antonio Serra, si contraddistinguono per un andamento narrativo tendente alla prosa, dove le pause metriche, la presenza di inversioni e di alcune voci dotte risultano fondamentali per determinare l’appartenenza al genere poetico. L’autore offre al lettore una rivisitazione di alcuni episodi fondanti della sua infanzia attraverso il susseguirsi di compiaciuti e minuziosi quadretti, densi di particolari e segnati da un forte descrittivismo che, coadiuvato da sfumature colloquiali, riesce a dare spessore quasi tridimensionale ai personaggi. A caratterizzare queste scenette, oltre alla prevalente paratassi, è un tono – seppur sempre sorvegliatissimo – spontaneo, meno rigido rispetto agli altri componimenti, forse grazie al trasporto emotivo che consente al poeta di astrarsi dalle convenzioni letterarie.

Il babbo palombaro – il toscanismo ‘babbo’ va fatto risalire al periodo adolescenziale trascorso a Livorno – è suddiviso in quattro macrosequenze dal verso vario, di cui le prime tre risultano dedicate alla rappresentazione favolosa della figura paterna attraverso lo sguardo dal basso di Ettore bambino, mentre l’ultima, riferendosi alla risalita dagli abissi e alla vecchiaia del palombaro Antonio Serra, è condotta attraverso lo sguardo dell’adulto, al quale corrisponde anche un diverso impiego stilistico.

L’andamento narrativo collegato a un solido impianto figurativo – come caratteristiche trainanti dell’intero poemetto – traspaiono nella descrizione dello scafandro del palombaro, (vv. 42-61):

Il tuo vestito

– lei numerava come raccontandomi una fiaba – era fatto

di dura gomma e bronzo,

e per farti affondare ti mettevano pani di piombo sul petto e sul dorso, e d’un casco metallico,

ti coprivano il capo, e ti serravano i piedi dentro scarpe da gigante, tutte di ferro, e l’aria te la davano con un tubo flessibile

che partiva – sul mare – da una barca e finiva su quella

orrenda, eppure tua, testa di rame. E, alla vita, un cordiglio:

francescano del mare,

così potevi anche tu predicare ai pesci, come Antonio

ch’era il tuo Santo; e ne portavi il nome.

Il giovane Ettore, ricalcando il racconto della madre, raffigura la tenuta subacquea del padre attraverso una lunga e minuziosa enumerazione, che trova il suo referente concreto nella foto del padre allegata in apertura della lirica140. In questo passo l’impiego di un periodare lineare collegato a un lessico semplice, la martellante ricorrenza della congiunzione coordinante ‘e’, le voci verbali rigorosamente all’imperfetto (che tra loro creano un effetto fonico quasi di cantilena) insistono nel riprodurre la cadenza narrativa della fiaba, che a tratti, infatti, ricorda il registro orale più di quello scritto. La vista dello scafandro desta sentimenti contrastanti nel bambino che allo stupore mischia sensazioni di ripugnanza; la descrizione si conclude con un’immagine suggestiva, che conferisce solennità al lavoro paterno: la corda posta attorno alla vita del palombaro richiama il saio francescano e trasforma Antonio Serra in predicatore delle creature marine, come Sant’Antonio, del quale porta anche il nome; bisogna peraltro notare come Serra, di solito piuttosto scrupoloso, compia un’imprecisione facendo rientrare in modo erroneo Sant’Antonio nell’ordine francescano.

Strettamente collegato a questo poemetto è il componimento che lo precede, prima tappa della genealogia familiare, dedicata ad affrescare I nonni: come recita il titolo, al centro della narrazione si trovano le figure degli avi che, portavoce di una società rurale ormai dissolta, consentono al poeta di illustrare le sue origini e ripercorrere alcuni episodi della sua infanzia (vv. 1-22, e vv. 37-49):

– Volete mettermela

una firmetta qui, Signor Francesco? Un favore d’amico,

e non vi costa niente.

– E perché no? – Prendeva la sua lente e subito firmava. Era impossibile per lui dire di no.

Affabile, compito,

snello, (sempre in marsina); occhi celesti come una marina calma d’estate; e al biondo tremolìo delle ciglia, ridente.

[…]

Ma firma, firma e firma (né le disavventure

né le calamità gli occhi gli apersero), con tutte quelle sue

care firmette (semplici favori), si ritrovò sul lastrico,

lui, con la bella moglie, e tre figliole.

Sul lastrico, in marsina. Una mattina,

dato gli aveva il colpo di grazia.

Come si nota già da questi versi, rispetto a Il babbo palombaro, alcuni aspetti risultano più marcati: la pennellata dell’autore si fa più fresca, vivida, impressionistica, anche grazie all’accento posto sull’aspetto discorsivo (il testo inizia proprio con un discorso diretto), che conferisce maggiore spessore realistico alla figura del nonno materno.

A scandire la descrizione dei nonni è una netta bipartizione tra ramo materno e paterno, divisione tradotta nel testo anche sul piano stilistico, che risponde all’esigenza tematica di evidenziare le diverse indoli dei protagonisti: il carattere gioviale dei nonni materni è reso attraverso la vivace alternanza dell’endecasillabo con metri brevi (quaternari e senari), mentre la severità e l’austerità della nonna paterna viene tradotta dall’impiego esclusivo del più solenne endecasillabo sciolto. Ecco come viene descritta Maria Monteverde, nonna materna e originaria delle Cinqueterre (vv. 53-54 e vv. 64-69, pp. 18-19):

La nonna sempre bella, sempre rosea e vispa, allegra,

[…]

E quanti dolci ella tirava fuori da quelle pentoline

di terra fra la paglia!

Dolci; e per sé le bocce cristalline del buon vinetto biondo

che dà felicità.

In questi versi si rintracciano diversi effetti tesi a riprodurre la spontaneità della lingua parlata, da estendere all’intera sequenza dedicata al ramo materno: insieme all’andamento paratattico, risaltano la regolare struttura della frase quasi sempre priva

di inversioni, le ripetizioni («sempre bella, sempre rosea») e l’utilizzo dei vezzeggiativi, come «pentoline» e «vinetto», che sottolineano la tensione affettiva nei confronti della nonna; anche la scelta delle facili rime (per esempio «pentoline / cristalline» o «dà» e «felicità» all’interno del medesimo verso, come anche nella sequenza dedicata al nonno «marina / marsina» e «marsina / mattina») e dell’impiego frequente delle allitterazioni («bocce cristalline / del buon vinetto biondo») sintetizzano una tendenza generale dell’intera sequenza: la trama fonica ripetitiva sembra funzionale a una fissazione mnemonica, quasi si trattasse di un racconto tradizionale destinato a essere tramandato oralmente da una generazione all’altra. Questo quadretto è da contrapporre alla descrizione di Benedetta Fossati, genovese, giovane vedova del nonno sommozzatore, il quale perse la vita durante un’immersione (vv. 81-88, p. 20):

Era una rupe vestita di nero,

l’immagine impietrita della vedova. Tutta nervi, alta, e di cèrulo acciaio

gli occhi. Rapido, un piglio di comando; e il comando lo dava con lo sguardo

più che a parole: di parole scarsa.

Questo ritratto possiede un forte impatto visivo, che testimonia ancora una volta le spiccate doti bozzettistiche serriane: dalle linee ben definite e dai colori non sfumati, l’immagine della nonna, alta e tutta nervi, si incide sullo sfondo come una rupe, sia per il colore del vestito (il nero che simboleggia lo stato di vedova), sia per la pietrosità che ne richiama il temperamento – sul quale insiste anche la trama fonosimbolica di «impietrita». Nel bozzetto un posto di rilievo è riservato alla raffigurazione degli occhi «di cèrulo acciaio» (espressione sottolineata da un enjambement), attraverso i quali era solita esprimere «rapido, un piglio di comando». La rima imperfetta che lega ‘comando’ a ‘sguardo’ è spia di un legame anche a livello semantico, consolidato dall’anadiplosi di ‘comando’, termine sul quale insiste anche

il pronome pleonastico ‘lo’, indice di una sfumatura colloquiale; è da notare, inoltre, come il termine ‘sguardo’ acquisti un valore centrale grazie alla sua posizione mediana tra la ripetizione sia di ‘comando’ sia di ‘parole’. Anche la costruzione sintattica mira a ottenere precisi effetti: dall’incedere dei brevi e secchi periodi traspare il carattere assertivo e tempestivo di Benedetta Fossati, e l’andamento nominale – due sole voci verbali in sei versi, la copula dell’esordio e il debole «dava» – sembra voler tradurre la preminenza dello sguardo sull’impiego della parola. Un’ultima osservazione lessicale: la nonna era di parole «sc-arsa», dove la scelta di questo termine non connota soltanto la sua indole taciturna, ma raccoglie al suo interno l’arsura che qualifica e richiama la conformazione fisica della terra ligure. Tuttavia la scarsezza di espressione di Benedetta Fossati non implica pochezza morale e affettiva, anzi insiste nel connotare la peculiarità di colei che, silenziosa e severa, «sapeva indovinare nel cuore», o come viene dichiarato più avanti «il suo silenzio non ci spaventava, / anzi, ci riposava». L’austerità di questo quadretto appare mitigata nei versi finali, dove la figura della nonna viene avvolta da un’aura di tenerezza:

Dalla gran tasca del vestito nero – distribuendo a’ suoi passerottini – a manciate toglieva minutissimi confetti, e li chiamava «finocchietti», o più precisamente «fenugeti»,

ché lei l’italiano non lo sapeva.

Tutta la sequenza dedicata a Benedetta Fossati ruota attorno all’espressione verbale: dalla sostituzione della parola con il «piglio dello sguardo» che la rendeva così autorevole e temibile, la sua immagine muta quando le viene data la parola, pronunciata in dialetto. Anche l’andamento narrativo, più disteso e meno incisivo rispetto all’esordio, e l’impiego di vezzeggiativi («passerottini» e «finocchietti») appaiono funzionali ad ammorbidire questo ritratto.

Dopo aver illustrato il suo legame natale e affettivo con la terra ligure, Serra passa a delucidare il suo legame elettivo con la Liguria, ritraendo se stesso come tappa conclusiva dell’albero genealogico: attraverso Autoritratto (p. 33) – dedicato simbolicamente «al suo Santagata», pittore amico del poeta – oltre a illustrare il suo carattere come risultante delle forze prodotte dai caratteri dei nonni, Serra intende soprattutto mettere in evidenza la sua affinità con i poeti liguri:

In me degli avi liguri si fondono difetti e pregi. Questa littorale vena di canto, e questo abbandonarsi alla vita obliandola: un’ebbrezza quale nel sole smemora le bionde vigne propense dai colli sul mare. (Ma brilli un rischio, e subito mi piace). Quella severità per cui me stesso,

più ch’altri, angustio; sempre incontentabile. Una mestizia che fa consueto

me d’ogni lutto. E tempera di quercia: aggredita dai venti e gli uragani alla terra s’abbranca per resistere; e alleva qualche nido tra le fronde.

Quattordici endecasillabi sciolti, scanditi in periodi brevi e asciutti, dall’andamento espositivo e dall’intento programmatico, dimostrano la volontà di Serra di porsi in continuità con la poesia «littorale» degli «avi liguri». Sebbene tematicamente questo testo proceda sul solco tracciato dai due racconti in versi che lo precedono, la presenza di diverse voci dotte, la struttura altamente sorvegliata e priva di sbavature colloquiali, impongono uno iato dal punto di vista stilistico.

Oltre alla volontà di inserire la propria opera sulla scia ligure, si notano anche riferimenti ai «difetti e pregi» ereditati dai diversi temperamenti degli avi familiari: le

«bionde / vigne propense dai colli sul mare» (dove la voce dotta ‘propense’ risponde al significato etimologico di ‘pendere in avanti’), che trasmettono un senso di ebbrezza al poeta, richiamano il «buon vinetto biondo» sorseggiato dalla nonna materna (v. 68), invece la «severità» e la «tempera di quercia» (dove ‘tempera’ è voce rara per ‘tempra’) richiamano due caratteristiche già attribuite alla nonna paterna che «[…] sempre taciturna, / e come nella sua severità / sapeva indovinarci il cuore!» (vv. 123-125), viene assimilata anche a una enorme e vecchia «quercia» (v. 132, dove il termine ‘quercia’ si trova in clausola come in Autoritratto). Le diverse indoli compenetrate nel carattere serriano appaiono segnalate anche dalla suddivisione del testo in due parti, messe in evidenza grazie alla presenza dell’inciso posto tra parentesi al settimo verso che, avversando l’atmosfera languida di ebbrezza descritta nei primi sei versi, anticipa la componente avventurosa – «ma brilli un rischio e subito mi piace» – ereditata dal ramo paterno.