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Evoluzione dell’eguaglianza tributaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale

Nel documento Anno Accademico 2008/2009 (pagine 174-180)

7. …(segue)e misure bilaterali

I CONDIZIONAMENTI ESTERNI SULL’ORDINAMENTO FISCALE ITALIANO IN RELAZIONE AL CRITERIO DELLA

9. Evoluzione dell’eguaglianza tributaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale

Nel sindacato di legittimità, in materia fiscale, la Corte Costituzionale ha, fin dall’inizio, utilizzato congiuntamente l’art. 53, comma 1, Cost. e il

(416) F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto

comunitario, cit., pagg. 44-45.

(417) Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 23 aprile 1998, n. 142.

(418) Corte Costituzionale, sentenza 26 ottobre 2000, n. 441. La sentenza è disponibile sul sito internet: www.cortecostituzionale.it

principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.. Nella sentenza n. 92 del 18 giugno 1963, la Corte ha affermato che “il primo comma dell’art. 53, nel sancire non già solo il dovere delle prestazioni tributarie, ma altresì il principio della correlazione di queste con la capacità contributiva di ciascuno” impone “al legislatore, oltre all’obbligo di non disporre prestazioni che siano in contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione a tutela della persona, altresì l’obbligo di commisurare il carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti, allorché sia dato riscontrare per essi una perfetta identità della situazione di fatto presa in considerazione dalla legge al fine dell’imposizione del tributo. Ed è a questa ultima esigenza, esattamente ricollegata dall’ordinanza al principio generale di eguaglianza sancito nell’art. 3 della Costituzione” (419).

Quale espressione dell’art. 3 Cost., la capacità contributiva deve intendersi come esigenza di razionalità dell’imposizione tributaria sia sotto il profilo del fondamento – ovverosia del collegamento effettivo tra il dovere tributario e l’indice considerato – sia della coerenza delle fattispecie con il presupposto considerato (420). A questo giudizio di coerenza, che può essere definito “interno” ad un singolo istituto tributario o ad un singolo tributo, deve aggiungersi un giudizio di coerenza (o, meglio, di ragionevolezza) riferito all’intero sistema tributario per accertare se i tributi che lo compongono realizzino razionalmente il riparto dei carichi pubblici in ragione della funzione distributiva e redistributiva dell’imposizione tributaria.

L’accertamento della razionalità e della coerenza della disciplina istitutiva del tributo trova un limite nella discrezionalità del legislatore tributario. L’assorbimento della questione nell’area della discrezionalità del legislatore non consente alcun giudizio di costituzionalità sul diverso trattamento fiscale delle fattispecie considerate. Ad esempio, nella sentenza n. 143 del 27 luglio 1982, la Corte non ritiene irragionevole l’imposizione di un limite quantitativo alla deduzione degli interessi passivi dei soli imprenditori individuali dal reddito d’impresa poiché “spetta al legislatore, secondo le sue valutazioni discrezionali di individuare gli oneri deducibili considerando il necessario collegamento con la produzione del reddito, il

(419) La sentenza è disponibile sul sito internet: www.cortecostituzionale.it. Nello stesso senso, si veda la sentenza 13 dicembre 1963, n. 155, punto 2 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, Milano, 1983, pag. 168; e più, recentemente, sentenze 19 novembre 1987, n. 400, punto 5 del considerato in diritto, E.DE MITA, Fisco e

Costituzione. II. 1984-1992, Milano, 1993, pag. 596; 15 marzo 1996, n. 73, punto 3 del

considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, Milano, 2003, pag. 437.

nesso di proporzionalità con il gettito generale dei tributi, nonché l’esigenza fondamentale di adottare le opportune cautele contro le evasioni di imposta” (421).

Allo stato attuale, non è possibile individuare i confini della discrezionalità del legislatore alla luce del principio di uguaglianza. Tuttavia, la Corte si è espressa nel sindacare le norme fiscali in base al concetto di eguaglianza formale, ancorato strettamente alle classificazioni adottate dal legislatore tributario (422). Questa tendenza è confermata dalla pressoché totale assenza di pronunce da parte della Consulta, che avendo ad oggetto la legittimità della norma fiscale in riferimento agli artt. 53 e 3 Cost., nella quale sia stato espresso un giudizio di ragionevolezza e di coerenza dei singoli tributi rispetto al sistema tributario ovvero di razionalità del riparto dei carichi impositivi riferita al sistema tributario nel suo complesso (423).

Le ragioni di questa ritrosia della Corte Costituzionale nel sindacare la norma tributaria oltre il semplice giudizio sulla sua coerenza con il principio di uguaglianza formale potrebbe dipendere dal carattere meta-giuridico del giudizio, il quale condurrebbe anche a valutazioni di tipo politico. In particolare, si è parlato, citando una pronuncia costituzionale, di “affievolimento del diritto costituzionale rispetto a valutazioni politiche” (424).

Altra spiegazione della ritrosia del giudice costituzionale a sindacare le norme tributarie in relazione al principio di uguaglianza sostanziale è individuata nella tecnica casistica adottata dal legislatore che impedisce la ricostruzione in sistema dell’insieme delle disposizioni in materia tributaria. In questo senso, la stessa giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che l’ordinamento tributario sia retto da una sorta di “principio della polisistematicità” (425).

(421) Corte Costituzionale, sentenza 27 luglio 1982, n. 143. (422) Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 17 aprile 1985, n. 104.

(423) La giurisprudenza costituzionale sembra ridurre il proprio spazio di intervento rispetto all’ordinamento tributario alla sola esigenza di eguaglianza formale. A conclusioni simili sono pervenuti G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria.

Profili storici e giuridici, Torino, 1995, pag. 130-131; S. LA ROSA, Riflessioni sugli

“interventi guida” della Corte costituzionale in tema di eguaglianza e capacità contributiva, , in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano. Atti del Convegno “I settanta anni di “Diritto e pratica tributaria””, V.UCKMAR (a cura di), Padova, 2000, pag. 187, attribuisce questa situazione alla “collocazione istituzionale della Corte

Costituzionale nel nostro ordinamento” che “ne fa essenzialmente un organo di garanzia, più che di positivo orientamento dell’evoluzione del nostro ordinamento”.

(424) E.DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., pagg. 4-5, il quale ritiene che le decisioni della Corte riportino delle “motivazioni attente alle finalità politiche delle leggi

tributarie esaminate”.

Naturalmente, l’impossibilità di ricostruire in sistema le norme tributarie impedisce ab origine la possibilità di rintracciare la coerenza di una norma, di un istituto o di una imposta rispetto all’ordinamento giuridico. In altre parole, sarebbe il contesto normativo specifico dell’ordinamento tributario ad impedire l’evoluzione dell’eguaglianza formale all’eguaglianza ragionevolezza.

10. Prevalenza dell’ordinamento comunitario su quello statale.

I rapporti fra l’ordinamento comunitario e quello statale sono informati ai principi di prevalenza e di diretta efficacia. Né l’uno né l’altro trovano un espresso riconoscimento nei trattati europei, fatta salva l’attribuzione della “diretta applicabilità” ai regolamenti comunitari da parte dell’art. 249 del Trattato UE.

L’efficacia diretta è l’attribuzione ai soggetti, da parte delle norme comunitarie, di diritti soggettivi che possono essere “fatti valere” dinanzi ai giudici nazionali (426). L’efficacia diretta riguarda, inoltre, qualsiasi norma comunitaria, indipendentemente dai destinatari dell’atto normativo, che sia sufficientemente precisa ed incondizionata e la cui applicazione non richieda l’emanazione di ulteriori atti comunitari o nazionali, di esecuzione o comunque integrativi (427).

L’effetto diretto può essere definito come situazione giuridica soggettiva ovvero come diritto di agire in via giudiziale. Sebbene parte della dottrina restringa la nozione dell’effetto diretto alla componente processuale (428), tuttavia, un’altra parte della dottrina ritiene che l’attribuzione di posizioni giuridiche soggettive al singolo costituisca la condizione necessaria della efficacia diretta. Ai caratteri della norma – di chiarezza, precisione e determinatezza – deve aggiungersi la possibilità di ricavare dalla stessa “una regola di condotta suscettibile di interessare direttamente la situazione dei singoli”(429).

All’effetto diretto è collegato il principio strutturale dell’ordinamento comunitario e, cioè, quello della prevalenza del diritto comunitario sul

(426) Corte di Giustizia europea, caso 26/62, Van Gend & Loos. (427) G.TESAURO, Diritto comunitario, cit., pag. 165 ss.

(428) S. AMADEO, Norme comunitarie, posizioni giuridiche soggettive e giudizi interni, Milano, 2002, pag. 21 ss., 127 e 169 ss.

(429) S.AMADEO, op. cit., pag. 21 ss., 127 e 169 ss.. L’autore osserva che tale duplice fondamento dell’efficacia diretta, in termini sostanziali di situazioni giuridiche soggettive e processuali di “diritto di agire”, è dovuta alle differenti concezioni esistenti negli ordinamenti nazionali in merito alla individuazione delle posizioni giuridiche che costituiscono il presupposto dell’azione giudiziale.

diritto nazionale che importa, in generale, la disapplicazione delle norme interne ove contrastanti. E, invero, la Corte di Giustizia ha enunciato tale principio nella sentenza Simmenthal (430) ove ha affermato che: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.

Come, peraltro, ha rilevato la dottrina, il primato del diritto comunitario si può manifestare in maniera indiretta, sia mediante l’obbligo, imposto dall’art. 10 del Trattato UE – in tema di leale cooperazione – di interpretare il diritto statale in maniera conforme al diritto comunitario, anche se non dotato di efficacia diretta, così che il giudice nazionale di ogni ordine e grado possa procedere ad una interpretazione adeguatrice del testo della norma che sia in linea con i principi comunitari, sia dall’obbligo di risarcire il danno (conformemente all’istituto della responsabilità da fatto illecito o aquiliana) derivanti dalla mancata trasposizione interna di atti comunitari da parte di uno stato membro (431).

La ricostruzione appena svolta pare essere condivisa in dottrina, salvo talune precisazioni. Tuttavia, resta il fatto che i principi dell’effetto diretto e della prevalenza non trovano alcun riconoscimento positivo nei trattati europei e che la loro ricostruzione sia stata effettuata, in primo luogo, in base alla natura e all’autonomia di cui godrebbe l’ordinamento comunitario rispetto a quello internazionale (e statale) e, in secondo luogo, in ragione delle funzioni e sugli obiettivi attribuiti alla Comunità dagli Stati membri, così come emerge dalle sentenze Van Gend & Loos e Costa (432).

(430) Corte di Giustizia europea, sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione

delle finanze dello Stato v. Simmenthal SpA, in Racc., 629.

(431)P.MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 2006, pag. 91, 160. In giurisprudenza, si veda Corte di Giustizia europea, sentenza 19 novembre 1991, cause riunite da C-6/90 a C-9/90, A. Francovich e D. Bonifici e altri v. Repubblica

italiana, in Racc., I-5357.

(432) Nelle sentenze citate, infatti, la Corte osserva: “la Comunità costituisce un

ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale”; inoltre, i

giudici rilevano che tale ordinamento è “integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati

membri”; cosicché tali caratteri “hanno per corollario l’impossibilità per gli stati di far

prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune”. Quanto al secondo fondamento della prevalenza e dell’effetto diretto, la Corte osserva che “lo scopo del Trattato Cee, cioè l’instaurazione di un mercato comune il cui

funzionamento incide direttamente sui soggetti della Comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli stati contraenti”.

11. (segue). Rilevanza dell’ordinamento statale per

l’ordinamento comunitario.

E’ stato affermato che la prevalenza del diritto comunitario si estende a qualunque norma interna, anche di rango costituzionale.

Nella giurisprudenza meno recente questo orientamento è affermato dalla Corte in maniera perentoria ed assoluta nel caso Leonesio, laddove la Corte esclude, in specie, che l’art. 81, comma 4, della Costituzione italiana possa ostacolare la “efficacia immediata di una disposizione comunitaria né, di conseguenza, l’esercizio immediato dei diritti soggettivi che detta disposizione attribuisca ai singoli” (433). Nella sentenza Internationale Handelsgesellschaft, i giudici comunitari affermano la prevalenza del diritto comunitario sulle costituzioni nazionali, la Corte osserva che il riconoscimento delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (434), le quali – secondo i giudici – costituirebbero “parte integrante dei principi giuridici generali di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza”, consentono di dare effettività all’autonomia dell’ordinamento comunitario che è alla base della sistemazione dei rapporti fra l’ordinamento comunitario e quello statale. Solo avocando a sé l’esclusiva competenza a pronunciarsi sull’interpretazione e sulla validità degli atti comunitari, la Corte avrebbe potuto “difendere” l’autonomia dell’ordinamento comunitario dalla medesima pretesa avanzata dalle Supreme Corti nazionali (435).

L’art. 6, para. 2, non è una clausola che contiene un “rinvio recettizio” agli ordinamenti nazionali ed al diritto internazionale bensì individua un elemento giuridico “privilegiato” per la costruzione dei valori e principi comunitari. Le “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, nella misura in cui siano riconosciuti come principi comunitari, assurgono a diritto “costituzionale” non scritto dell’ordinamento comunitario e, insieme alle disposizioni dei trattati, ne costituiscono i valori ed i principi fondamentali. Al pari delle disposizioni dei trattati, quindi, i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario costituiscono parametro di legittimità degli atti comunitari e di quelli statali.

Il richiamo alle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” determina anche la stretta dipendenza (o interdipendenza) dell’ordinamento comunitario rispetto a quello interno. Si consolida ancor di più quello stretto legame fra le Comunità europee e gli Stati membri che non si limita, come

(433) Corte di Giustizia europea, sentenza 17 maggio 1972, causa 93/71, O. Leonesio v.

Ministero dell’agricoltura e foreste della Repubblica italiana, in Racc. 287.

(434) Cfr. anche Corte di Giustizia europea, la sentenza 12 novembre 1969, causa 29/69, E.

Stauder v. Città di Ulm-Sozialamt, in Racc., 419.

si è tradizionalmente sottolineato, all’attività organizzativa (il diritto comunitario è applicato per mezzo degli apparati statali) ma diviene, più intensamente, presupposizione giuridica.

Per tale ragione, diviene rilevante individuare sia il procedimento di formazione sia il contenuto proprio dei valori e dei principi comunitari. Quanto al primo aspetto, è stato correttamente osservato che la Corte non adotta un criterio specifico di comparazione, bensì opera una “integrazione selettiva” dei principi degli ordinamenti nazionali (436). L’interesse della giurisprudenza comunitaria non è rivolto ai diversi gradi di comunanza fra i principi degli Stati membri quanto, piuttosto, alla loro consonanza al sistema comunitario europeo. In questo senso, le Costituzioni degli Stati membri costituiscono delle semplici fonti di ispirazione per la Corte, “la quale si prefigge il compito di rielaborare i principi reperiti negli ordinamenti statali alla luce della struttura e degli obiettivi della Comunità” (437).

Se la giurisprudenza comunitaria rielabora, come si è cercato di dimostrare, i principi degli ordinamenti statali, questi assumono nell’ordinamento comunitario un contenuto del tutto, o in parte, nuovo. Nel passaggio dagli ordinamenti nazionali a quello comunitario, conformemente alla dottrina della comparazione, i principi fondamentali subiscono una profonda trasformazione, causata dalla specificità (o autonomia) propria degli obiettivi e delle politiche comunitarie. Anche nella prospettiva comunitaria, quindi, l’aspetto di gran lunga più interessante dell’analisi dei rapporti ordinamentali e, di riflesso dei rapporti fra fonti, non risiede nei criteri di composizione sistematica delle fonti dei due ordinamenti, quanto nell’accertamento della reciproca integrazione fra le norme (i principi ed i valori) dell’uno e dell’altro.

12. Il principio di uguaglianza alla luce del diritto comunitario:

Nel documento Anno Accademico 2008/2009 (pagine 174-180)

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