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Tramite l’elaborazione dei dati ho elaborato tre idealtipi di famiglia che possono essere validi per entrambi i contesti in cui ho condotto l’indagine (Italia e Svezia). Tali modelli non sono pensati come uno schema rigido, a compartimenti stagno, imbalsamati nella loro episteme. È di tutta evidenza che trattando la figura idealtipica della famiglia nella specifica coniugazione che ad essa si darà, ed essendo questa per sua natura flessibile e in continua evoluzione sociale, i relativi membri, in particolare i più giovani (seconde generazioni), possono, nella loro formazione e in virtù della mediazione con l’ambiente sociale circostante, assumere anche caratteri propri di un altro idealtipo familiare. La mobilità trans-idealtipica è una caratteristica dei modelli sociologici teorizzati e utilizzati per analizzare fenomeni tanto complessi come le famiglie migranti nei contesti di accoglienza e le loro relazioni interne e con la madrepatria.

6.2.2 Il modello nostalgico-ortodosso

Il primo modello idealtipico di famiglia migrante palestinese è definito nostalgico - ortodosso. Come nota Stefano Allevi (1997) “la maggior parte delle coppie sono endogame, soprattutto quelle dei migranti di prima generazione. È presente una diversità di aspettative di matrimonio nella seconda generazione che dipende dalle strategie di integrazione ricevute all’interno della comunità”227. Questo tipo di famiglia cerca di restare in continuo contatto con la madrepatria, ricordando e sperando allo stesso tempo di avere la possibilità di poter tornare nel proprio

      

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villaggio d’origine. I membri di questo modello sono molto attivi all’interno della società di accoglienza, soprattutto nel promuovere socialmente e politicamente la causa palestinese nella loro città o addirittura a livello nazionale. La coppia è composta da entrambi i coniugi palestinesi; alcuni di loro si sono conosciuti tramite le famiglie. In esse sono ancora in vigore la tradizione del matrimonio tra cugini o parenti. In altri casi, come dimostrato in ambedue le nazioni, la coppia si è formata durante la permanenza del giovane palestinese nel campo profughi, dove viveva insieme ai genitori, prima di partire per la nuova meta. Per loro è importante che i bambini conoscano bene l’arabo, per cui vengono spesso iscritti a corsi di arabo presso centri e associazioni. In famiglia, inoltre, si parla rigorosamente in arabo. Si tratta di una scelta voluta, ponderata, anche porta ai ragazzi a un perfetto bilinguismo.

La cucina è mista, anche se si predilige il cibo arabo, soprattutto nelle occasioni particolari. A una cena in una delle famiglie intervistate, mi è stato offerto cibo, in parte arabo ed in parte svedese (Uppsala, intervista U2 ).

In casa sono presenti diversi simboli che servono a ricordare la causa palestinese e la terra perduta, e a mostrare a chi frequenta la casa le origini della famiglia. Simboli come la bandiera palestinese, foto o poster di Gerusalemme (Al Quds), la mappa della Palestina storica, foto dei leader palestinesi come Yasser Arafat o ciondoli rappresentanti di Handala. Proprio perché la speranza di tornare non scema, il forte carattere transazionale si manifesta mantenendo un costante contatto con la famiglia di origine attraverso l’utilizzo dei social network, telefonate e l’utilizzo di skype ed altri programmi informatici che permettono di poter comunicare in contemporanea con due o più persone.

Anche le rimesse sono considerate un obbligo nei confronti di coloro che vivono in una condizione profondamente disagiata nei confronti dei quali i migranti sviluppano quasi un senso di colpa, per il fatto che essi hanno l’opportunità di una vita tranquilla e confortevole.

Molte famiglie di questo modello cercano di tornare nel luogo di provenienza almeno una volta l’anno, indispensabile portare anche i figli, per visitare i nonni e la rete parentale, fonte di ricordi sul passato che aiutano i giovani a non dimenticare la propria origine e soprattutto la storia e le motivazioni che hanno spinto i propri genitori a vivere in diaspora. E’ stato interessante approfondire il rapporto con la seconda generazione che, come afferma Maria Luisa Maniscalco, a volte genera “un ribaltamento dei ruoli, per il quale i figli, grazie alla loro maggiore familiarità con il contesto ospitante assumono precocemente responsabilità adulte, fino a diventare genitori dei genitori”228 ne deriva inevitabilmente un atteggiamento di ambivalenza, di contrasto tra il ruolo istituzionale e quello affettivo. In quella che è stata la mia personale esperienza, sono venuta a contatto con casi del genere, soprattutto nelle interviste svolte in Svezia, dove le abitudini e la lingua sono risultate inizialmente difficili per molteplici ragioni.

In Svezia a Göteborg, Khadigia, parlando della sua famiglia e della vita in questo paese così tranquillo conclude l’ intervista dicendo:

“Bella (la vita) c’è sicurezza, ma comunque non è la mia terra, qui è Ghurba (migrazione), prima o poi dobbiamo tornare(nel nostro paese). Qui c’è sempre la paura di perdere i propri figli,

      

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Maniscalco M.L., Islam europeo. Sociologia di un incontro, Franco Angeli, Milano, 2012, p.141

nel senso che diventano europei e si dimenticano la loro origine

(Göteborg, intervista G15)

In questa frase, possiamo notare come la forza della riproduzione socio- culturale arrivi fino ad annullare il diritto alla soggettività dei giovani, che non possono correre il rischio di dimenticare le proprie origini.

Ad Uppsala, Wasir, quando gli chiedo se ha l’intenzione di tornare in Palestina quando i ragazzi avranno finito di studiare, mi risponde:

• “io vorrei tanto tornare, credimi, tutti i giorni, quando dormo, sogno la Palestina. Ho tutti i miei ricordi e tutta la mia vita è lì. Ma dopo dieci anni che viviamo qui, i nostri bambini si sono abituati; sono piccoli ancora e quando andiamo in visita lì non si trovano bene. Credo che questo possa essere un problema” (Uppsala, intervista U1)

Le testimonianze dei palestinesi residenti in Italia, sono state molto interessanti ad esempio, a Roma, Mahdi mi racconta del suo rapporto con i figli e dell’importanza di parlare in arabo:

• “Noi in casa parliamo in tutte e due le lingue: italiano ed arabo, è una costrizione. I bambini parlano naturalmente in italiano è il genitore che poi deve saper trasmettere l’altra lingua. Non è facile da programmare o imporre, ai bambini viene più spontaneo parlare in italiano. Sia io che la mamma cerchiamo di trovare degli spazi per parlare in arabo, ad esempio, quando si parla della cultura araba e raccontiamo della Palestina, lo

facciamo in arabo. Quindi per tutte le cose belle usiamo la lingua araba. Il sabato e la domenica frequentano pure un corso di arabo organizzato da un’associazione in una scuola pubblica” (Roma, intervista R3)

In questo caso ci rendiamo conto come la lingua madre venga usata per rappresentare, raccontare il bello e creare sensazioni positive.

A Napoli, Marwan palestinese che vive da più di trenta anni in Italia e lavora in un locale tipicamente arabo, mi dice mentre parliamo dei viaggi e del futuro:

• “Quest’anno sono entrato per la prima volta in Palestina dalla mia nascita, l’ho potuto fare perché avevo il passaporto italiano. Ho visitato tutta la Palestina compresa la parte chiamata “Israele” (tono sarcastico), non sono riuscito invece ad entrare ad Al Khalil (Hebron) e a Jenin perché c’erano dei problemi di sicurezza. Comunque io tornerei in Palestina senza pensarci, anche se Napoli è diventata la città del mio cuore, ed i bambini sono legati a Napoli ma tornerebbero di sicuro in Palestina” (Napoli, intervista N3)

Marwan, nell’ipotizzare la scelta dei suoi figli, rispetto al luogo in cui vivere, sembra quasi voler proiettare su di essi, il proprio pensiero, le proprie attese o desideri per il futuro.

6.2.3 Il modello ibrido-misto

Il secondo modello idealtipico è la famiglia cosiddetta ibrida - mista. Come sostengono Asher Colombo e Giuseppe Sciortino (2004) “i cosiddetti matrimoni misti indicano, da un lato, il grado di apertura che la società di accoglienza riserva ai neo arrivati e, dall’altro, la disponibilità degli stranieri a uscire dal proprio gruppo di riferimento”229. Questo modello è così denominato perché all’interno della coppia uno dei due coniugi non è palestinese. Può essere considerato come il più integrato all’interno del contesto sociale di riferimento. I suoi membri sono stati in grado di preservare le proprie caratteristiche culturali e identitarie, senza per questo rimanere estranei, esclusi al contesto in cui si è scelto di vivere. Partecipano alla vita politica e sociale della comunità palestinese ma con occhi critici, hanno costruito negli anni una rete amicale locale e considerano i propri figli fortunati perché possiedono un bagaglio culturale ed emotivo molto più articolato e complesso dei coetanei. Come sostiene Dionisia Maffioli (1996) “le coppie miste possono considerarsi un punto privilegiato di osservazione del modo in cui avviene, nel quotidiano, la fusione o lo scontro, far due culture”230. Il vivere sospeso tra due culture può, nel loro caso, essere una forma di ricchezza identitaria che li porta ad avere una doppia presenza, in primis nel paese di origine, di cui si conoscono usi, costumi, lingua e tradizioni e certamente anche gli elementi identitari e culturali dello stesso, di cui è fatta salva la memoria, e dall’altro hanno sviluppato un atteggiamento adeguato nel luogo in cui vivono grazie alla

      

229

Colombo A., Sciortino G., Gli immigrati in Italia, il Mulino, Bologna, 2004, pag. 85

230

Maffioli D., I comportamenti demografici delle coppe miste, in Tognetti Bordogna M., Legami familiari e immigrazione: i matrimoni misti, L’Harmattan Italia, Torino, 1996