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Spesso è proprio all’interno della famiglia che si inizia a progettare una strategia per pianificare la migrazione, a volte di tutta l'intera famiglia, in altri casi, invece, quest’ultima raggiungerà successivamente la persona

      

che ha migrato per prima. Si tratta di una strategia che risponde a varie ragioni. Con ogni probabilità, il primo migrante del nucleo familiare, sebbene per mezzo di un progetto migratorio e di vita concordato con la famiglia stessa, con la quale egli resta in costante contatto durante tutta la sua esperienza migratoria, costruisce un piano migratorio che risente dei legami che egli e la sua famiglia hanno saputo mantenere con parenti o amici già emigrati. Questi costituiscono una formidabile banca di dati e di indirizzi in grado di aumentare, mediante la socializzazione delle informazioni, le probabilità di riuscita del piano migratorio, essendo a loro che il migrante si rivolge, sia per ottenere informazioni pratiche (amministrative, economiche, occupazionali, sociali), sia per i mezzi e gli strumenti, sia per il patrimonio umano che essi sono in grado di mettere a sua disposizione. Nel caso della famiglia palestinese, la dinamica è parzialmente diversa, come si vedrà, risentendo questa dell'accelerazione obbligatoria impartita dall'esodo forzato iniziato già nel 1948 e poi rinforzato da una lunga serie di eventi storici, politici e sociali che non hanno arrestato, anzi aumentato il flusso in uscita di interi nuclei familiari. Per la donna, seguire le orme del marito è molto più complesso. Ciò è dovuto al fatto che, per via della migrazione, è possibile che parte dei legami sociali (parentali e amicali) stretti in patria possano perdersi. A tale riguardo è però utile far presente che, nel contesto delle famiglie diasporiche, questo legame tende a rimanere solido ed anzi molte volte possiamo anche affermare che si rinsaldi. Si tratta di una dinamica originale e interessante che presuppone il rafforzamento del legame determinato proprio dall'evento traumatico, in questo caso la diaspora, il quale sembra interiorizzarsi a tal punto da divenire parte dell'identità collettiva e fondamento di un processo di

identificazione che regge e collega l'appartenenza culturale e identitaria, indipendentemente dalle distanze, confini e contesti socio-politici. Attraverso il ricongiungimento, la famiglia che approda nella società di accoglienza, abbandona alcune caratteristiche tipiche della cultura di origine come può essere, ad esempio, la struttura estesa o patriarcale del proprio Paese, assumendo forme mononucleari. Si tratta di un meccanismo di adattamento e inclusione nella società di accoglienza che aumenta le probabilità di realizzare le condizioni auspicate e il progetto di vita immaginato. In questi contesti, le donne assumono ruoli che molto probabilmente non avrebbero mai assunto nella propria terra natia, perché generalmente a carico della famiglia dello sposo. Le loro azioni diventano, quindi, cariche di significato per il marito, i figli e la comunità. Già Saint-Blancant176affermava, “sentendosi responsabili del patrimonio culturale comunitario, diventano spesso più praticanti, più rispettose delle proibizioni religiose, imponendole alle loro figlie”. È condivisibile, in sostanza, il pensiero del sociologo Fabio Berti177, il quale sostiene che “la famiglia musulmana si fa portatrice di un bagaglio di valori che seppure con le dovute variazioni tende a rinnovare nelle società di approdo ed anzi per garantire la propria identità e portata talvolta ad esaltarsi ancora di più che in patria (….) da una parte la famiglia ricerca il successo economico, dall’altra invece si propone di mantenere dei valori e dei riferimenti religiosi del paese di origine”178. In questa tesi si cercherà di dimostrare come, in alcuni Paesi di accoglienza, la comunità palestinese, soprattutto grazie alla famiglia vista come nodo inserito in una fitta rete di relazioni e scambi, risulti

      

176Saint- Blanc C., L’Islam della diaspora, Edizioni lavoro, Roma, 1995, pag.72  177

Berti F.,Esclusione e integrazione. Uno studio su due comunità di immigrati, Franco Angeli, 2000 

essere stata il perno in grado di garantire le basi fondamentali per la sopravvivenza e resistenza della propria identità. Lo studio sulla famiglia palestinese mi ha condotto ad una ricerca sociale in Palestina che si rivelata intensa e ricca di riflessioni e informazioni. Si tratta di un’esperienza che mi ha permesso di entrare in stretto contatto con la popolazione locale. È capitato di essere ospite nelle loro case e, osservando con attenzione la struttura e l’organizzazione familiare, ho rilevato la presenza costante, in ognuna di esse, di simboli ricorrenti, che poi ho ritrovato sia nelle famiglie palestinesi in Italia che in quelle in Svezia. Un esempio interessante è l'esposizione costante della foto della Moschea al Aqsa179, o di alcuni leader politici come Yasser Arafat, o foto antiche che corrispondevano al villaggio di origine della famiglia, che dopo la Nakba o Naksa, sono stati rasi al suolo per essere ricostruiti e rinominati con nomi ebraici.

L’esistenza della comunità palestinese come comunità transitoria nelle società di accoglienza, con il proprio vissuto, è stato analizzata negli ultimi decenni da diversi studiosi e, peraltro, anche sotto differenti angolazioni. Secondo Chambers180 (1994), tutte le identità si formano “in movimento” e, in quelle comunità diasporiche come quella palestinese, l’identità deve essere vista come variegata e multiforme (Lindhom-Schulz, 2003)181. Di seguito si illustreranno alcuni dei lavori svolti in Europa, sotto particolari prospettive. Lo studioso Hanafi182 (2001) ad esempio, si è soffermato in particolar modo sulle relazioni

      

179

La moschea della spianata che si trova a Gerusalemme, all’interno vi è un’enorme pietra la quale si racconti sia stata la pietra dove si è adagiato Maometto.

180

Chambers I., Migrancy, Culture, Identity, Routlege, London and New York, 1994, pag.5

181

Lindholm Shulze H., The palestinian diaspora, Formation of identities and politics of homeland. Routlege, London and New York, 2003

182

Shilblak A., (editing) The palestinian diaspora in Europe. Challenges of dual identity and adaptation, “Refugee and diapora studies”, n°2 , 2005

economiche delle comunità in diaspora e la madrepatria, dimostrando come questa comunità transnazionale sia strettamente collegata con la terra natia, attraverso rimesse continue.

Un altro studio prezioso è quello dell’antropologo palestinese Shilblak

183

(1996), il quale ha approfondito le sue indagini sullo stato civile delle comunità palestinesi residenti come diasporiche in altri paesi arabi. Egli dimostra come molto spesso il popolo palestinese venga trattato come popolo “indesiderato”. Un esempio chiaro ed esplicativo è il Libano, in cui, ai palestinesi, non viene permesso di integrarsi nel tessuto sociale del paese di accoglienza. Una segregazione, che conduce alla marginalità e alla costante vessazione nei riguardi di migliaia di famiglie. Ad avvalorare quanto sopra scritto, mi è capitato spesso, durante le interviste, di ricevere testimonianza di tale discriminazione; così Arij una giovane ragazza palestinese, nata in Svezia, racconta della sua esperienza in Libano. Alle domande: Di solito vai in Libano?

• “si, si, una volta all’anno per due o tre mesi” In Libano abitate a Beirut? 

• “Non esattamente, direi che stiamo nella periferia di Beirut, e abbiamo casa nostra lì. Però la casa è di mia madre perchè lei è una libanese e può avere una casa, mentre mio padre, come palestinese che vive lì, non può averla, non ne ha il diritto come palestinese in Libano. I libanesi sono razzisti, mia madre è libanese ma io non posso avere la nazionalità di mia

      

madre”(Göteborg, audio G2)

Rahman palestinese rifugiato in Libano dichiara:

• “Sai, noi, il popolo palestinese viviamo nella shatat184, io sono

nato e cresciuto in Libano, ho studiato lì, ma come palestinese non posso lavorare nel Libano, quindi sono andato in Arabia Saudita per tre anni. Lì non c’era sicurezza per il lavoro, perciò ho deciso di trasferirmi in un paese europeo. Poi, il fatto che mio zio vivesse qui (in Svezia) sin dagli anni ’60, mi ha aiutato e mi sono trasferito da lui. Nel ‘86 quando sono arrivato, ho chiesto asilo politico a causa dalla guerra civile che c'era in Libano e me l’hanno dato subito” (Göteborg, audio G16)

Muhammad anche lui, palestinese rifugiato, afferma:

“La vita dei palestinesi che vivono in Libano è molto difficile, ad

esempio, se compri un appartamento non puoi intestarlo a tuo nome, nulla è permesso, addirittura non ti è permesso MORIRE. Davvero difficile. C’è un sistema di discriminazione. Ad esempio, a SAIDA - dove c’è uno dei campi profughi, il più grande del Libano,‘Ain al Helwua - da 4 anni la popolazione sta lottando solo per avere un cimitero; di solito usano aprire le tombe vecchie per metterci i nuovi cadaveri. Hanno i soldi per costruire un nuovo cimitero, ma non hanno il permesso per farlo” (Uppsala, audio U3)

      

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Termine arabo che significa diaspora ma dal punto di vista dell’effetto di dolore della dispersione. 

Muhawi185 (1997) si è concentrato sullo studio della diaspora palestinese dal punto di vista socio-politico, partendo dal presupposto che la politica per un palestinese è parte della sua quotidianità, inscindibile con il suo essere sociale. L’arrivo sostanziale di palestinesi in Europa è un fenomeno alquanto recente, soprattutto se paragonato alla comunità palestinese residente in America. Nonostante ciò, le statistiche più accreditate ne rilevano la crescita anche dal punto di vista quantitativo. Tra le comunità più numerose in Europa, troviamo quelle residenti in Germania, nei Paesi Scandinavi, in Inghilterra, Spagna e una piccola comunità, in aumento costante, presente anche in Italia.

Per la mia ricerca di dottorato ricostruire ed approfondire le cause della migrazione palestinese è stato fondamentale per delineare dei modelli di famiglia presenti in entrambe le comunità scelte come luogo della mia indagine, l’Italia e la Svezia. La scelta di due Paesi, diversi per cultura e storia, è stata valutata in ragione della complessità e varietà dei due contesti sociali e politici, così da rendere più originale l'indagine, proposta per avvalorare o smentire quelle che erano state le mie prime ipotesi riguardo ai modelli idealtipici della famiglia palestinese in diaspora, individuati in Italia da un’indagine pilota svolta nel 2009, nella città di Roma. Essere riuscita a individuare gli stessi idealtipi con delle sfumature è stato molto importante per lo svolgimento della mia ricerca e per poter avvalorare le ipotesi da cui ero partita.

      

Capitolo quarto

La famiglia palestinese in Svezia

Nell’aprile 2012, ho condotto delle interviste semi-strutturate aperte ad un panel selezionato, di famiglie palestinesi residenti in Svezia, realizzate durante la mia esperienza di osservazione privilegiata all’interno della comunità palestinese residente soprattutto in tre città: Uppsala, Stoccolma e Göteborg. I dettagli relativi alla metodologia e alla selezione del campione a cui ho somministrato le interviste verranno affrontati in maniera più articolata e dettagliata nel capitolo successivo. Prima di entrare nel core della ricerca è importante fornire alcuni dati di dettaglio circa la comunità palestinese residente in Svezia.