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La famiglia palestinese porta dentro di sé un costrutto molto complesso. Essa, oltre a farsi carico di tutte le caratteristiche tipiche di una famiglia in una società moderna, è stigmatizzata da un bagaglio storico che, come accennato nel capitolo precedente, non può essere scomposto, ossia l’evento diasporico. Esso rappresenta una sorta di spartiacque, profonda

      

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Farguès P.,Traditions matrimoniales dans le sociétés arabes, in “Population et sociétés”, n°198, 1986

e radicale, che ha mutato il patrimonio mnemonico, identitario e quindi culturale della famiglia, divenendone un tratto identificativo specifico, dal quale far discendere azioni, comportamenti, fatti sociali, che si presentano anche nel contesto proprio del Paese di destinazione, seppure in forme varie. In ogni ambiente di accoglienza, le tradizioni della cultura palestinese, tra cui anche quelle religiose, aiutano a far sentire unita la comunità attraverso la commemorazione di alcuni degli eventi traumatici che hanno caratterizzato la loro storia. La famiglia palestinese, in Palestina, è tradizionalmente una famiglia allargata. Nella stessa casa, soprattutto nei quartieri più poveri, convivono genitori e figli con le proprie famiglie. Bisogna precisare che prima della dichiarazione dello Stato di Israele, ogni nucleo familiare abitava nei pressi della propria famiglia ma non insieme. Va inoltre ricordato che, rispetto ad altre realtà islamiche la società palestinese e conseguentemente le famiglie, hanno sempre portato con sé caratteristiche di forte laicità. Inoltre i palestinesi, anche per la loro posizione geografica e per gli avvenimenti storici che li hanno riguardati, sono sempre stati culturalmente e socialmente molto aperti. Si pensi al fatto che la donna non usava portare l’hijab (velo), se non in determinati luoghi e occasioni, come del resto usavano fare le donne cattoliche ad esempio quando entravano in chiesa. L’organizzazione della famiglia palestinese era basata sulla struttura sociopolitica del sistema hamayel (clan) e la famiglia, ‘ailah, era vista come la fonte primaria della propria identità. Il matrimonio ha l’importante scopo di legare tra loro gruppi familiari, diversi, e per questa ragione veniva combinato dai genitori, attraverso le reti parentali o amicali. Ad avvalorare quanto detto sopra, può risultare utile la

testimonianza di Ikhlas171 donna palestinese rifugiata in Libano e trasferitasi in Svezia una volta sposata:

• “Ci siamo conosciuti mentre lui era in Libano in vacanza; mi ha visto a casa di mia sorella, che è la moglie di suo fratello, ci siamo conosciuti e poi ci siamo sposati e sono venuta qui” (Uppsala, audio U4)

Zadie palestinese che vive a Roma dal 1995 racconta invece come ha conosciuto sua moglie:

• “ Ci siamo conosciuti (con mia moglie) nel 1999, ad Amman in Giordania, lei è una mia lontana parente, ci hanno presentato e ci siamo spostati. Mi ha raggiunto in Italia pochi mesi dopo il matrimonio, non appena abbiamo concluso di preparare i documenti ” (Roma, intervista R1)

La testimonianza di Rahman palestinese in diaspora racconta come e perché ha svelto di sposarsi con una donna araba:

• “Mia moglie è libanese e sua madre è una palestinese di Akka di Ras Alahmar172, sua madre è mia zia. Siamo parenti. Io vivevo

qui e lei era in Libano. La vedevo quando andavo a trovare i miei. Cosi ho deciso di sposarmi con lei perché preferivo sposarmi con una donna araba soprattutto per miei figli. Sai, ho sentito tante storie di matrimoni misti che sono andati male dopo

      

171 Ikhas, ome femminile, che in arabo significa “Sincerità” 

n

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Questo villaggio si trova in Israele, era ed è tutt’ora uno dei porti più importanti porti dell’area.  

un po’” (Göteborg, audio G16)

Il matrimonio è un momento di grande festa per tutta la comunità. È un rito sociale che inizialmente, aveva una durata di una settimana, durante la quale venivano organizzate serate di ballo, musica e spettacoli. Le donne si occupavano della preparazione del cibo e dell’accoglienza degli ospiti. Con il passare del tempo, per questioni economiche (costi legati all’organizzazione di tutta la festa), il matrimonio, in alcuni ambienti sociali e luoghi, è stato ridotto a soli tre giorni in cui si festeggiava rigorosamente di notte. La prima serata è dedicata allo sposo, che insieme ai suoi ospiti maschi, organizza intrattenimenti musicali, col ballo della dabka173, e si mangiando i tipici piatti dell’occasione come la Makluba174

ed altre pietanze rigorosamente preparate dalle donne di casa. Il secondo giorno i due sposi si scambiano dei doni difronte alle famiglie; l’uomo regala alla donna alcuni oggetti d’oro, solitamente un bracciale e degli orecchini, oltre all’anello nuziale. Il terzo giorno gli sposi, dopo aver firmato l’atto matrimoniale, festeggiano insieme e trascorrono la serata mangiando, ballando con agli invitati, e ascoltando, di tanto in tanto, le storie che raccontate dagli anziani del villaggio.

      

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Tipico ballo tradizionale presente in tutto il Medio e Vicino Oriente, anche se alcuni passi sono simili la musica e l’andamento cambia di paese in paese. I ballerini si prendono per mano ed iniziano a formare un semi cerchio e con l’andamento della musica iniziano a battere i piedi per terra, il ballerino che si trova all’inizio del semicerchio ha tra le mani una kefia che muove a ritmo di musica. Di tanto in tanto, qualche ballerino che si trova nel semi cerchio si stacca ed inizia a ballare davanti agli altri alternandosi di volta in volta.  

174 Piatto tipico della tradizione islamica, che può subire delle modifiche in base al paese. La traduzione del piatto significa capovolto perché viene svolto in una maniera particolare, in Palestina si usa mettere alla base della casseruola le melanzane, fritte in precedenza, subito dopo il pollo sbollentato, poi si fanno diversi strati di riso e cavolfiori ( fritti anche essi in precedenza), poi si riversa una parte dell’acqua dove si è fatto sbollentare il pollo ed infine si copre con un coperchio. Si lascia cuocere a fuoco basso e una volta pronto, la casseruola viene rivoltata in un grosso piatto di acciaio, anche esso tipico della cultura orientale, e per questo motivo che il piatto si chiama makluba.  

A questo proposito, cito le testuali parole di Ikhals, palestinese rifugiata in Libano, che ha conosciuto con il marito Aladin quando lui è tornato a far visita la famiglia in Libano:

• “Abbiamo fatto Ta’alila175 con dabka e cibo. C’erano due feste, una a casa mia e l’altra a casa di lui. In Tunisia ancora festeggiano 7 giorni, anche in Palestina una volta lo si faceva, ora non più perché costa troppo”(Uppsala, audio U4)

Con tempi e modalità quasi simili si è svolta la cerimonia di nozze tra il dottor Wasim, palestinese rifugiato in Giordania, che è arrivato in Italia, negli anni 1970 per poter studiare medicina e sua moglie Ghazel, palestinese in diaspora in Kuwait.

• “con Ghazel ci siamo conosciuti ad Amman, tramite dei parenti. Ci siamo frequentati per un po’ e poi dopo quattro mesi di fidanzamento ci siamo sposati (…) Ci siamo sposati nel 2006, ad Amman, in un salone per cerimonie. È stato un matrimonio religioso un po’ particolare perché abbiamo festeggiato tutti insieme. Subito dopo il matrimonio, lei è venuta a Roma con me” (Roma, intervista R4)