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4.1 Dati e conformazione della comunità palestinese.

4.1.3 Il rapporto con i Paesi di origine

L’analisi empirica condotta ha come obiettivo quello di dimostrare come le varie comunità palestinesi riescano a mantenere vive specifiche caratteristiche tipiche della cultura di origine pur legandole al contesto sociale e politico del paese di destinazione. Per questa ragione, affinché possa avvenire l’inclusione del migrante e della sua comunità nel tessuto sociale del paese di destinazione, risultano di fondamentale importanza

le politiche sociali adottate nei Paesi di destinazione. Ad avvalorare quanto affermato, si ricorda che per la comunità

palestinese, il legame con la terra natia, come è emerso dalla ricerca sul campo, è predominante. La singola famiglia, o spesso una rete amicale più ampia, tende ad organizzare soggiorni nel Paese di origine, affinché i propri figli all’estero possano instaurare, sviluppare e creare rapporti solidi con la cultura di origine. Guardare con i propri occhi la realtà del luogo, e riscoprire le origini dei propri genitori, dare consistenza e voce a ciò che hanno fino ad allora immaginato attraverso i racconti dei parenti, risulta quanto mai necessario per favorire la nascita di legami transnazionali che, nel corso degli anni restano solidi, pur se in continua evoluzione,. Questo elemento avvalora la tesi del radicato rapporto di natura specificatamente transnazionale insito nel campione intervistato. Durante il mio soggiorno a Göteborg ho avuto modo di svolgere un focus group con dei ragazzi rientrati da poco dal loro primo viaggio in Israele e in Palestina.

Ricordo con nitidezza, l’euforia e la nostalgia delle giovani ragazze, che avevano un’età compresa tra i sedici ai venti anni.

La risposta alla mia domanda circa la loro recente visita nella terra natia è emblematica:

• Miriam: “I wanna go back!” davvero, voglio tanto tornare. Un’altra ragazza inizia a piangere e dice:

• Mariam: scusate, ma sono commossa. Non ci potevo credere, era incredibile per me. Ci ho messo due giorni per capire che stavo veramente in Palestina, ero sotto shock

• Miriam: Io ho cominciato a baciare le case, i palazzi, la terra e tutto quello che potevo.

• Petra: A me, appena sono uscita dall’aeroporto, mi cadevano le lacrime da sole! E’ veramente difficile descriverti quello che abbiamo sentito mentre eravamo lì.

• Fatima: Io, tante volte, invece di parlare, piangevo perché non sapevo come esprimere la mia felicità, quindi piangevo. (Göteborg, audio G1)

Nel focus group è emersa una forte coesione del gruppo. Il viaggio era stato organizzato dal centro di cultura palestinese197. Questa esperienza ha dato la possibilità ai ragazzi di conoscere i villaggi di origine dei propri genitori e di sviluppare relazioni, consapevolezze nonché assumere elementi della loro cultura d'origine che hanno interiorizzato e che ha sedimentato il complesso identitario loro proprio. Hanno conosciuto fisicamente quei cugini, parenti e amici con i quali avevano fino a quel momento instaurato un rapporto prettamente virtuale, soprattutto grazie ai mezzi informatici di comunicazione. Secondo le

      

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L’intervista si è svolta in un centro di cultura, dove i ragazzi e le ragazze insieme alle madri mi hanno preparato un pranzo. L’accoglienza, per i palestinesi, soprattutto quelli di religione musulmana, è un precetto di enorme importanza. Dopo avere pranzato insieme ha avuto luogo il focus group.  

testimonianze dei ragazzi, è stata l’esperienza formativa più importante della loro vita. Ripercorrere quei luoghi ha dato modo ai giovani di fissare ed incamerare nuove informazioni sulla causa palestinese e di rafforzare un legame che, come vedremo in altre famiglie, si sta intrecciando con la cultura del luogo.

A tale proposito, cito le parole di Hanan giovane studentessa diciasettenne, nata in Svezia, con il sogno di fare la stilista; alla mia domanda circa la prospettiva di una risoluzione del conflitto e alla possibilità di scelta tra rimanere in Svezia e andare in Palestina, afferma:

• “Hanan.: non credo che in una situazione come quella che c'è oggi in Palestina, potrei andare a vivere lì. Il tipo di vita è molto diverso da quello che ho qui in Svezia. Qui sono più libera e posso vestirmi come voglio, lì dovrei mettere l’“hijab” o la “abaia” e dovrei sottostare ad altre costrizioni, mentre qui no. D’estate, ad esempio, nonostante faccia caldo, dovrei indossare abiti lunghi e pesanti e io qui non lo faccio” (Gottsunda, audio U10)

Interessante constatare come la sorella maggiore, Samia, di ventisette anni nata negli Emirati Arabi e trasferitasi in Svezia insieme alla madre quando era ancora piccola, affermi:

• “Certo che vorrei tornare in Palestina. Sono sposata con un palestinese, ho un figlio. Vado in Siria ogni due anni ” (Gottsunda, audio U10)

Un’altra giovane Daliat, nata a Gaza, figlia di un matrimonio misto, che dopo il trasferimento a Uppsala, con la madre e alla sorella, ha avuto problemi di natura psicologica, afferma:

• “Andrei per visite lunghe, ma non credo che potrei vivere lì. L'importante sarebbe poterci andare quando voglio” (Gottsunda, audio U4)

 

Durante l’intervista, il padre Amin è intervenuto per spiegare il perché sua figlia avesse risposto in quel modo:  

• “…due mesi fa, tutti noi siamo andati in Egitto; quando Daliat, ha visto il disordine, ha deciso di non voler più tornare lì. Siamo andati a vedere mio padre che è venuto da Gaza per incontrarci al Cairo. Prima Daliat diceva sempre che voleva tornare a Gaza e in Palestina, dopo il Cairo ha cambiato idea. Mi dispiace molto, ma capisco la sua decisione. Quando ci siamo trasferiti qui, le mie figlie per un anno, sono andate da uno psicologo perché erano terrorizzate dai rumori degli aeroplani militari e dei tank israeliani, perciò capisco bene quello che dicono. Ma sono sicuro che quando cresceranno cambieranno idea” (Gottsunda, audio U4)

4.1.4 Il rapporto della comunità d’origine con i “nuovi”