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4.1 Dati e conformazione della comunità palestinese.

4.1.2 Il transnazionalismo della comunità palestinese in Svezia

Come afferma anche Bruno Riccio, i migranti diasporici hanno la “capacità di essere qui” e “lì contemporaneamente”; essi riescono ad entrare in contatto con le persone del paese di accoglienza e a mantenere uno stretto legame con il paese di origine190. La stessa Carla Pasquinelli dichiara che i migranti diasporici sono di fatto “protagonisti transnazionali di un mondo globalizzato di cui attraversano i confini nazionali, geografici e politici, creando campi sociali e nuove opportunità di fare comunità. I migranti diasporici del nuovo millennio riconfermano antiche fedeltà e appartenenze recenti ma altrettanto stabili che si rafforzano a vicenda. La loro può essere definita una “doppia

      

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Riccio B., Transnazionalismo, un punto di vista dall’Africa occidentale, in “ Confronto riflessioni sui modelli di sviluppo” a IV n°8, 1998. 

presenza”191 che li vede impegnati quotidianamente tanto nel paese in cui li ha portati l’emigrazione, quanto nel paese di origine con cui non staccano mai la spina, ma anche con gli altri avamposti della loro comunità dislocati nei più diversi angoli del mondo”192.

Nelle interviste condotte in Svezia, tutte le famiglie, secondo diverse modalità, hanno confermato di essere in continuo e costante contatto con la famiglia di entrambi i coniugi, attraverso l’utilizzo di vari mezzi di comunicazione, come internet, telefono o quanto la tecnologia mette loro a disposizione. Come sostiene Stefano Ceschi, “attraverso l’aumento della “connettività” riscontrabile nel presente globale (Tomlinson 2001)193. Ciò significa che, ad un’intensificazione delle comunicazioni e degli scambi che facilita il dispiegarsi di attività attraverso i confini nazionali, tali dimensioni possono darsi contemporaneamente e in maniera molto più integrata, dialettica e complementare, e perciò rimandare ad una nuova modalità di vivere e gestire vicende e identità migratorie e di riorganizzare, a livello pratico come a livello simbolico, appartenenze e pratiche di vita connesse alla propria mobilità”194.

Cito, a titolo esplicativo, le risposte di alcune famiglie residenti ad Uppsala, alla mia domanda se e come sono in contatto con le famiglie in patria, Wasir palestinese di Jenin (West Bank), arrivato in Svezia per

      

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Questo concetto lo avevo già anticipato nel primo capitolo, rilevando che sarebbe stata una chiave di lettura da me riutilizzata per spiegare una delle strategie adottate dalla comunità palestinese per la propria sopravvivenza. 

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Pasquinelli C., I migranti “diasporici” protagonisti del mondo globalizzato in “ Libertà Civili”, Franco Angeli, Roma, 2012, n.4, pag. 134 

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Tomlinson J., Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, Feltrinelli Editore, 2001

194

Ceschi S., Migrazioni, legami transnazionali e cooperazione tra territori. Una Ricerca sulla diaspora senegalese in Italia. Introduzione alla ricerca, CeSPI, Roma, 2006

lavorare, dopo aver collaborato con un’azienda svedese in Palestina, afferma:

• “Parliamo con le nostre famiglie e con i nostri amici ed amiche tramite cellulari, Facebook e Skype. Lui: Io uso di più il cellulare per chiamare mia madre perché lei è anziana e non sa usare internet, mentre con gli amici e con i miei fratelli usiamo MSN, ed e-mail…” (Uppsala, audio U1)

La voglia di essere presenti in entrambi i luoghi, si manifesta dal continuo contatto, non solo per un reciproco scambio sulle condizioni familiari, ma anche per un confronto sulla sfera politica e sociale del luogo di origine, come ci racconta Aladin:

• “Si, siamo in contatto attraverso il cellulare, due volte alla settimana, e al computer tutti i giorni”(Uppsala, audio U4)

La medesima domanda è stata posta a numerose famiglie che vivono in un quartiere di Uppsala, a forte tasso di presenza di migranti. La zona è considerata una colonia in cui vivono migranti di diversa provenienza, anche se, dai dati rilevati, la maggioranza di essi sono rifugiati palestinesi. Il quartiere in questione è Gottsunda195, e vi ho condotto tre interviste con palestinesi che provenivano principalmente dalla Siria e dal Libano. Anche loro hanno confermato di essere in contatto con la famiglia di origine, anche se con cadenze diverse rispetto ai primi

      

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Si trova in un’area periferica della città di Uppsala, e i rifugiati palestinesi che vi vivono provengono principalmente da diverse realtà come: Libano, Iraq e Siria. Mentre stavo andando a fare un’intervista, il palestinese che mi stava accompagnando in macchina, mi ha racconto che l’aria era stata rinominata Gott-Palestina. 

periodi, a causa del cambiamento dei ritmi di vita e delle condizioni economiche nel corso degli anni. Se all’inizio della loro permanenza in Svezia erano soliti effettuare molte telefonate o andare in visita almeno una volta durante l’arco l’anno, ora le condizioni economiche più instabili rendono il tutto molto complicato.

Le telefonate avevano non solo lo scopo, di attutire la nostalgia e appianare le difficoltà conseguenti alla migrazione, soprattutto quando la stessa è avvenuta verso paesi geograficamente e culturalmente lontani: ma, nel caso specifico, anche per avere notizie sull’evoluzione della situazione economico-politica del Paese di origine, da decenni impegnato in un conflitto che ha conosciuto e conosce ancora eventi drammatici. Si tratta di una forma di transnazionalismo emotivo, che coinvolge in maniera duplice sia il migrante, nella sua classica condizione di residente in un contesto socio-culturale nuovo, sia la famiglia di origine, esposta da decenni a condizioni sociali, politiche ed economiche estreme, agli attacchi militari del Paese occupante e a lutti continui.

Il rapporto tra il migrante profugo palestinese e la sua famiglia d’origine è per questa ragione particolarmente intenso, condividendo entrambi, seppure in forme necessariamente diverse, un paradigma comune composto di drammi vissuti insieme, tensioni continue, stress e psicosi, che hanno rilievo sia sul piano psichico individuale che sociale.

Ahmed, giovane palestinese della West Bank, venuto da solo in Svezia, per motivi di studio, sua moglie, insieme ai quattro bambini, sono giunti successivamente, afferma:

• “Siamo in perenne contatto con le nostre famiglie, inizialmente chiamavamo tutti i giorni ma adesso due o tre volte alla

settimana” (Uppsala, audio U5)

Amin, palestinese nato in Siria, trasferitosi con la famiglia nella Striscia di Gaza, e successivamente in Russia per motivi di studio, si è visto rifiutare il permesso per rientrate a Gaza a causa dell’ attività politica svolta a supporto dell’Autorità nazionale palestinese. E’ per questa ragione ha deciso di migrare in Svezia. Egli afferma che:

• “ci sentiamo (con la famiglia) due volte alla settimana, tramite internet e i vari altri mezzi possibili. Pure loro mi chiamano se hanno qualche problema serio, o per chiedermi un consiglio su qualcosa che gli interessa” (Uppsala, intervista U4)

Come afferma F. Berti: “la famiglia immigrata, con il suo bagaglio culturale, con le regole ascritte, con un sistema di valori difficilmente compatibile con quello occidentale, nelle società di accoglienza si trova in una situazione non affatto paradossale: da una parte è certamente “un operatore di esclusione” proprio perché tende a ricostruirsi su un modello che funziona da altre parti e che l’occidente non è in grado di capire, ma dall’altra “può esserlo anche di integrazione reciproca, cioè di integrazione civile”, quando riesce ad essere il centro della mediazione

simbolica tra cultura di origine e quella del paese di approdo”196. In tale contesto, esplicativa è l’intervista svolta a Göteborg ad una

giovane donna, da cui emerge l’impegno profuso dalle donne palestinesi nell’educazione della prole, al fine di consentire la loro integrazione nel luogo natio, conservando allo stesso tempo la consapevolezza delle

      

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proprie origini e delle ragioni della migrazione. A questo proposito, durante un’intervista, svolta successivamente al focus group a Göteborg, Hamza donna palestinese che si è trasferita in diversi paesi arabi per poi stabilirsi in Svezia afferma:

• “Viaggiare è il sogno di tutti. Quando andiamo a trovare i nostri, ci dicono: quanto siete fortunati che vivete in Svezia, però loro non sanno quanto è difficile vivere lontano da casa. E che fatica far nascere i bambini in diaspora, insegnare loro lingua dei padri, e abituarli nello stesso tempo alle tradizioni della Svezia” (Göteborg, intervista G2)

La medesima considerazione è stata espressa anche da un rifugiato palestinese proveniente da un campo profughi del Libano, che manifesta un forte senso di estraniamento per un contesto che tratta in maniera differente i nati fuori dal campo.

Muhammad, palestinese rifugiato in Libano, e trasferirsi in Svezia grazie ai consigli di alcuni medici e infermieri svedesi con cui aveva lavorato in un campo profugo (in Libano), afferma:

• “Noi siamo stranieri in Libano! Per farti capire, una volta erano le due di notte e volevamo entrare nel campo profughi di Rashidia, io con le mie figlie; alla più grande non volevano farla entrare perché aveva la cittadinanza svedese e secondo loro sarebbe dovuta andare a dormire in albergo” (Uppsala, intervista U3)