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Case study 2: The City of Violence, MTV e l’iperurbano incongruo.

4.2 Walter Benjamin e la città post-coloniale

4.2.1 Fantasmi di Hong Kong

L’identità di Hong Kong come città, colonia e megalopoli, è stata nuovamente messa in discussione con la transizione postcoloniale iniziata nel 1984, quando la Joint Declaration ha sancito il suo ritorno alla madrepatria, avvenuto ufficialmente nel 1997.

Akbar Abbas avverte che Hong Kong è stata etichettata come deserto culturale, per la preminenza del fattore economico e la forte spinta commerciale che porta a forme di edonismo consumistico, derivanti anche dalla mancanza di partecipazione politica dei cittadini, la cui fondamentale mancanza di libertà nel decidere da chi essere governati è stata compensata dalla libertà di spendere (si può dire che qualcosa del genere stia succedendo in Cina?).429 Per Abbas l’ex-colonia esprime una cultura della “sparizione”, in cui tutti i prodotti e le manifestazioni culturali propriamente autoctone, o che riflettono uno spirito critico “locale” consapevolmente tale, attestano una condizione ontologica precaria e sfuggente, un imminente abbandono, un dissolvimento cronicizzato o una sparizione già avvenuta, da esorcizzare o esaltare con una consapevole myse en abîme culturale. Questo spiega la ricorrenza dei fantasmi e delle presenze spettrali nella cosiddetta new wave filmica di Hong Kong, una forma di cinema metacritico, che pone al centro del racconto la colonia e le sue caratteristiche territoriali e storiche. Se la condizione che Hong Kong vive è quella inversa all’allucinazione, la sindrome che Freud chiama “allucinazione negativa” (per cui non si riescono a vedere le cose presenti), il cinema per compensare ricorre all’abbondanza di allucinazioni, attraverso presenze invisibili e segreti evocati.430

428 Abe C., “A Sonatina Thrice Repeated, Ending in Death”, in Beath Takeshi vs Takeshi Kitano, New York,

Kaya Press, 2004, pp. 105-147

429 A. Abbas, op. cit., p. 25. 430 Ivi, p. 4.

Per descrivere la condizione distintiva di Hong Kong, Abbas ricorre all’espressione “déjà disparu” – situazione in cui la novità di un evento non è neutralizzata dalla sensazione che questo sia già stato vissuto come nel déjà vu, ma piuttosto dal fatto che questo sia già sparito o stia per farlo: nel momento in cui lo si vive si è dunque consapevoli che non esiste(rà) più. Circostanza paradossale che lo studioso spiega attraverso la minaccia incombente del ritorno alla madrepatria, e che prende forma, ancora una volta, nel cinema e nel suo ricorso a figure di sparizione eternata: spiriti e fantasmi.

Il film di Stanley Kwan Rouge (1988), per Abbas uno dei più rappresentativi del “nuovo” cinema di Hong Kong, è un’elegia della sparizione, del progressivo dissolvimento delle strutture e della stessa cultura urbana nel tempo. Il fantasma di una prostituta vissuta a Hong Kong negli anni Trenta e morta lì per un amore infelice, torna nel presente di una città irriconoscibile, per lei – che è a sua volta un’inquietante epifania – fonte di un grave spaesamento. La ricerca spasmodica di tracce che le permettano di orientarsi nel nuovo spazio, fa di lei l’unica figura in grado di mettere insieme istanze radicalmente diverse, e riallacciare il filo interrotto con il passato. Il fantasma è perturbante perché evoca la morte, anche quella intesa come progressiva sparizione di un’intera civiltà, della quale non restano tracce perché nessuno è interessato a preservarle.

Il problema del ricordo è comune a molte culture asiatiche, dove a un’idea radicale e incontestata di progresso si unisce la scarsa considerazione per le manifestazioni materiali del passato, retaggio dell’approccio buddista al tempo e alla materia (transeunte e corruttibile), contrapposto all’ossessione occidentale per il passato sottoforma di storia, memoria e il ricordo: ossessioni che hanno trovato la loro consacrazione nella pervasiva cultura museale. Con la fotografia, e il cinema in particolare, nasce in Cina e in altri paesi la possibilità di ricordare: una possibilità per sua natura sovversiva e rivoluzionaria, quando non incanalata nella celebrazione del culto della personalità (politica).

L’allegoria nazionale attraverso l’evocazione di un’assenza, di un segreto o il ricorso all’orrido e ai “mostri umani”, torna in modo più articolato in alcuni film della new wave di Hong Kong, come il celebrato In the Mood for Love (2000) di Wong Kar-wai, e i film di Fruit Chan Hollywood Hong Kong (2001) e Dumplings (2004). In tutti questi film la città è sospesa in una dimensione spettrale, un limbo che porta a scontrarsi con istanze quali la nostalgia del passato, la paura del futuro e l’incertezza del presente, sotto la continua minaccia di una fatale perdita d’identità: tutte manipolazioni, suggerirei, funzionali al personale discorso sulla città. In contraddizione con la vulgata che la vuole ipermoderna, ipertecnologica e iperilluminata, Hong Kong è spesso spettrale perché pervasa dalla minaccia di incombente sparizione.

Abbiamo già parlato dell’ansia che ha investito la città alla vigilia del suo ritorno alla Cina nel 1997: una forma d’inquietudine la cui radici affondano nelle dinamiche di gestione collettiva della paura, e che scaturisce in diversi effetti compresenti. Uno di questi è la nostalgia, una risposta razionale che Wong Kar-wai ha saputo magistralmente mediare e rappresentare.

In the Mood for Love richiama in particolare la paura per l’imminente ritorno di Hong Kong alla madrepatria attraverso la rievocazione del passato, di quel particolare momento negli anni Sessanta in cui molti abitanti lasciarono la colonia per paura di una possibile invasione da parte della Cina Popolare, appena entrata nella fase di mobilitazione militare della Rivoluzione Culturale (1966-1976). I personaggi del film si muovono in questo scenario storico: il racconto riattiva la paura per il futuro incombente, l’ignoto e le minacce che esso porta con sé, gravandoli di un segreto inconfessabile il cui senso sta nella “forma” e non nel contenuto. Una “fenomenologia del segreto”, come proprietà inviolabile e mistero inaccessibile, che innesca la struggente sensazione di nostalgia, quella speciale tristezza diluita e resa gestibile nel quotidiano.

La scomparsa, imminente o già avvenuta, non determina solo nostalgia ma vero e proprio orrore, vissuto, ancora una volta allegoricamente, come brusco strappo e mutilazione. È questa la risposta alla scomparsa articolata da Fruit Chan, nei cui film, come nell’universo pittorico di Hieronymus Bosch, la paura produce figure grottesche e si incarna in presenze perturbanti che arrivano (significativamente) dalla Cina per minacciare e stravolgere la vita della popolazione. Una seconda più problematica invasione, dopo la prima mancata, perché operata da un “altro” molto più vicino a sé, in ultimo coincidente col sé. Nei due film considerati, l’incontro tra Hong Kong e il continente diventa uno scontro di stili di vita e aspirazioni. In Hollywood Hong Kong (2001), il ritorno di Hong Kong alla Cina diventa il tema che sottende una costruzione allegorica complessa ed esplicita, in cui ogni elemento trova una perfetta collocazione all’interno della tesi proposta dal regista. Nel film la minaccia cinese, rappresentata da pratiche commerciali aggressive al limite della legalità, viene da Shanghai e assume l’aspetto di un’angelica ragazza di nome Tong Tong,431 che si concede a tutti i personaggi maschili, per poi ricattarli con minacce di ritorsioni, fingendo di essere minorenne. La minaccia ignorata si traduce per il Wong Chi-keung nell’orribile punizione rituale dell’amputazione dell’avambraccio sinistro. L’epopea di questo braccio diventa una storia nella storia (fig. 128), e può alludere al termine con cui in inglese viene definita la restituzione della colonia al paese di origine – handover. Lo stesso trattamento è riservato a

un omonimo del ragazzo, che ha un tatuaggio simile ma sul braccio destro. Il braccio di quest’ultimo viene per errore attribuito a Wong: la circostanza grottesca, esasperata dall’intervento una dottoressa cinese con un’etica professionale e metodi quantomeno discutibili, fanno sì che il ragazzo si ritrovi con due mani destre, e lo sconosciuto con due sinistre. Come si dice alla fine del film, ‘si può vivere con due mani destre’, un’affermazione sibillina che sembrerebbe alludere alla reintegrazione di Hong Kong nella Repubblica Popolare: Cina e Hong Kong sono in fondo la stessa cosa, ma per questo motivo non possono essere complementari. I personaggi del film sono tutti cinesi di prima o seconda generazione: il fantasma che torna nel presente per minacciare la degradata Kowloon è il passato individuale, che non viene mai evocato esplicitamente ma riattualizzato nelle vicende dell’ambiziosa ragazza che sogna l’America (e ha un’ossessione per il motivo a stelle e strisce). Quest’aspirazione riflette anche desiderio di raggiungere i quartieri “alti” della città, rappresentati dal complesso residenziale di grattacieli che si chiama Hollywood e troneggia sui bassifondi labirintici.432 Se la Cina si muove verso il modello americano e cerca di raggiungerlo fisicamente, Hong Kong sembra essere immobilizzata in una scomoda posizione di copia (della Cina e dell’Occidente) e di avamposto: un “simulacro” di oriente, o forse di occidente nell’oriente.

Nel successivo Dumplings, “ravioli” (in cinese Jiaozi), la mostruosità è quella di una donna – anche lei originaria del continente – che gestisce un macabro commercio sommerso, con una rete di facoltosi clienti, attori famosi e personaggi pubblici in cerca di una radicale cura di giovinezza. Nel film ritorna il tema del cibo, che Jameson collega all’ossessione della cultura cinese per la fase orale proiettata nell’immaginario collettivo,433 e come nel Diario di un pazzo viene evocato il tabù assoluto del cannibalismo: quello che la donna vende sono infatti ravioli il cui ripieno contiene feti abortiti di giovani donne. La donna, prima consumatrice dell’orrida pietanza, appare giovane ma è in realtà una vecchia: in questo si può forse scorgere un’evocazione allegorica della Cina continentale. Come nel mito faustiano e nelle sue riattualizzazioni, la “cura” non è priva di conseguenze, e gli effetti collaterali sono orribili quanto la causa che li scatena. L’orrore di pratiche ancestrali applicate all’attuale aspetto del capitalismo diventa una perfetta allegoria dell’incontro con la madrepatria: anche in questo caso le radici comuni producono un’evidente dissonanza, perché la vera aberrazione è il ricongiungimento – attraverso l’introiezione – con ciò che è più simile a sé.

432 Cfr. p. 50.

L’evocazione dell’impianto allegorico delineato da Jameson è utile per spiegare la ricorrenza di determinati temi e motivi, e la loro articolazione all’interno dei film presi in considerazione. Questi, sebbene in modi diversi, manifestano tutti l’angoscia latente dietro il presunto allontanamento da una norma, nonché la sensazione di vertigine che le potenze dell’Asia Orientale – sia quelle emergenti che quelle emerse da tempo – hanno provato nel dover gestire le proprie risorse economiche e militari in una situazione di transizione da un potere all’altro, con il “complesso di abbandono” che ne è seguito. Ma l’allegoria come struttura alla base della concezione e dell’articolazione narrativa, non deve allontanare dalla considerazione di elementi singoli e figure che diventano dominanti e rilevanti dal punto di vista semantico. Queste figure, avendo la possibilità di muoversi all’interno dello spazio urbano, diventano collante e punto d’intersezione di diverse istanze: il reale e l’immaginario, il pubblico (o collettivo) e privato, il passato e il presente.