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3.2 Il modello di sviluppo urbano e l’Utopia

3.2.5 Panorami mobil

The exorbitant city is representable only as the cinematic city360

La digressione sui vari apparati teorici e sul trattamento dello spazio urbano (e filmico)

che questi presuppongono, porta alla valutazione di aspetti più specificamente filmici che hanno a che fare con la visione e la prospettiva. La considerazione di qualsiasi panorama – e la città lo è a pieno titolo – rimanda necessariamente al “problema” dello sguardo, e deve includere tutte le posizioni coinvolte.

A seconda della posizione e dell’ora del giorno la città può apparire caotica o ordinata, inquinata o incontaminata, ingiusta o equa; tanto più nella visione filmica, che in questo senso sfrutta appieno il potenziale metamorfico della città, quella prerogativa dello spazio urbano di

concern of fûkeiron … is neither the aesthetic production of picturesque scenery nor the metaphysical divide between subject and object, but rather the immanent relations of power that produce homogenized landscapes. In their view, the very uniformity of the landscape of rural and urban cities throughout Japan corresponds to the serial mass production and standardization of commodities…’ ‘… the homogenization of landscapes in rural and urban cities of Japan must be read as visible symptoms of the consolidation of postindustrial capitalism (…) When read critically, landscapes enabled them to see a visual “diagram” of social and economic relations, especially those of domination, at work’. Ivi, pp. 351-355.

359 Il film non a caso è stato battezzato il “Vertigo cinese”. Cfr. J. Sildeberg, Hitchcock with a Chinese face: cinematic doubles, Oedipal triangles, and China's moral voice, University of Washington Press, Seattle, 2004. 360 Akbar Abbas, “Cinema, the City, and the Cinematic”, in L. Krause, P. Petro (a cura di), op. cit., p. 143.

mutare e trasfigurarsi. La visione dall’alto presuppone un giudizio, e dunque una forma di controllo o autorità esercitati anche solo per qualche istante, ma è anche un modo per raggiungere una sintesi efficace e soddisfacente che rassicura, perché niente di male può succedere finchè si riesce a vedere tutto, e mentre lo si vede.361 La visione dal basso e dall’interno può sembrare più facile da realizzare, ma è nel complesso più problematica, e difficile da legittimare: la macchina da presa non può planare, né può pigramente indugiare su questo o quel dettaglio, ma deve giustificare ogni inquadratura, compresa la più insignificante.

Il punto di osservazione “interno” e mobile per eccellenza è l’automobile. Pur non essendo il mezzo di trasporto urbano per antonomasia, come lo sono la metropolitana, l’autobus o i taxi, l’automobile è un elemento centrale del “decoro” e della “funzione” urbana. Al tempo stesso questo mezzo di trasporto evoca e aggiorna il mito della frontiera, garantendo la possibilità di godere ancora del paesaggio fuori dal finestrino,362 la cui cornice rettangolare, come avviene per il finestrino dei treni, “genera panorami” e istruisce circa il loro uso. Con il vetro che funge da schermo e la sua cornice, che è bordo e parentesi del nostro sguardo verso l’esterno, il finestrino disciplina e orienta la visione, neutralizzando la potenziale minaccia rappresentata dall’imponderabilità degli elementi naturali o del caos urbano che minaccia il guidatore nel suo ovattato mondo meccanico.363

All’interno di una città la macchina attiva un interessante effetto matrioska, una myse en abîme che la fa diventare una città nella città. A livello filmico, l’automobile si sostituisce al carrello, e le riprese effettuate a bordo di essa restituiscono un dinamismo che è al tempo stesso vertiginoso ma anche familiare, perché lo spettatore riconoscerà immediatamente come soggettiva la visione frontale del cruscotto o laterale del finestrino. L’automobile come punto di osservazione della città, e strumento di esplorazione urbana, presenta interessanti contraddizioni: pur isolando, o forse proteggendo dall’ambiente circostante (come avviene sulle grandi route americane che costeggiano panorami maestosi), garantisce nel contempo una perfetta fusione col ritmo quasi completamente automatizzato della città: dalle insegne pubblicitarie alle saracinesce, dai maxischermi ai passaggi a livello, l’automobile annulla i limiti del corpo e la sua lentezza, e lo colloca in modo più coerente ma forse non meno rischioso al centro di questo vortice dinamico. L’automobile diventa estensione e sostituto

361 Cfr. M. Augè, Non-places: introduction to an anthropology of supermodernity, Verso, London New York, 1995, pp. 96-97.

362 Cfr. J. Baudrillard, op. cit.

363 Quello che disturba nella scena finale del film di David Cronenberg Crash è l’improvviso sbalzamento della

del suo corpo fisico, ma anche segnale rivelatore della posizione sociale e dello status economico (adattandosi così a un paradigma tipicamente capitalistico). La visione dalla macchina è quasi sempre soggettiva, e implica una condizione, se non di potere, di relativo controllo, soprattutto nel caso di una soggettiva di chi guida.

In altri casi la macchina è una prigione, una trappola, un luogo in cui l’osservatore sembra condannato a una passività che lo schiaccia e gli fa subire tutto quello che vede. La visione della città che “scorre” fuori non riesce a ricomporsi in un quadro coerente, e si dipana come una successione di elementi, una teoria di segni che hanno perso il contatto con il loro significante, o forse lo possono solo ritrovare nell’ottica di un contesto semantico più grande e inclusivo, come è appunto il film.

Due casi paradigmatici che vorrei citare, lontani l’uno dall’altro dal punto di vista geografico e filmico ma non da quello culturale, sono il film documentario San Yuan Li, girato in digitale nel 2003 dai cinesi Cao fei e Ou Ning in un grosso quartiere di Canton, una vera città nella città, e Kinatay (2009) del filippino Brillante Mendoza, ambientato nelle strade di Manila.

Il primo film è interamente girato in digitale, aspetto che rivela la vicinanza degli autori alle logiche del video e dell’arte concettuale più che a quelle del cinema in senso stretto, e dimostra la necessità di raggiungere la massima flessibilità e vicinanza alla scena; solo la scena nottura di Kinatay è invece girata in digitale, anche in questo caso per questioni stilistiche e soprattutto pratiche.

San Yuan Li sembra materializzare in modo esemplare il modello di esopoli descritto da Soja, una mastodontica e indifferenziata area metropolitana che trova nelle sue anonime propaggini la sua ragione d’essere (economica), ma il cui nucleo contiene sacche di perifericità, localismo e povertà che confluiscono, tra gli altri elementi, nelle sottoculture urbane di quartiere. Berry suggerisce che inconfondibili modelli di riferimento nello stile di ripresa sono Vertov e Ruttman,364 ma nel caso del film cinese l’accelerazione da gioiosa diventa semi-patologica, nella nevrotica ricerca di catturare nel minor tempo il maggior numero di immagini e “cose”. La strategia narrativa impiega l’analogia come commento all’infiltrazione dei principi di accumulazione e consumo nell’area dell’estuario del Fiume delle Perle, una delle più produttive nel mondo e economicamente attive, ma anche inquinata e tormentata da problemi sociali. Cao Fei e Ou Ning guidano lo spettatore in un tour frenetico

364 Chris Berry, “Imaging the Globalized City: Rem Koolhaas, U-thèque, and the Pearl River Delta”, in J.

lungo strade e autostrade del territorio in questione, mostrando qualcosa che nella sua banalità possiede una grande forza di impatto, e una dirompente immediatezza: il panorama umano che cambia, mentre il paesaggio naturale scorre davanti o a lato, e muta in funzione del primo. Tutto questo rimanda al passato e al presente di quei luoghi, e materializza il futuro attraverso i cantieri. Trovo questa teoria di panorami precostituiti e prevedibili, simili a scaffali e banconi trasparenti dei grandi magazzini che espongono la merce in modo infallibile, più efficace della seconda parte del documentario dal ritmo sincopato ma meno asciutto, dove predominano linee e prospettive diagonali che distraggono dall’“affermazione iniziale”, insieme alla musica che da elettronica diventa pop o melò – la stessa ascoltata dagli abitanti del quartiere. Il progetto visivo cambia radicalmente in virtù dell’irruzione della presenza umana: la popolazione di San Yuan Li e tutte le sue categorie sociali. Il problema non è tanto quello di mostrare le persone nella rappresentazione, descrizione, documentazione di un luogo o territorio, ma il doverne giustificare la presenza con una forma di commentario.

Più radicali gli esiti raggiunti da Kinatay, un film che unisce la finzione di una storia paradigmatica di delinquenza urbana a sequenze che documentano la realtà diurna e notturna di una città difficile come Manila, culturalmente tormentata (e linguisticamente) ibrida.

La lunga sequenza del viaggio in macchina dopo il rapimento di una prostituta, portata fuori città per essere torturata e uccisa, è la descrizione dell’inferno dalla posizione del condannato, resa ancora più agghiacciante dalla normalità dello scenario: le luci notturne delle strade, di altre macchine e dei quartieri periferici la cui densità abitativa si dirada progressivamente, evocano una più generale scomparsa dell’umanità, se non annullamento tout court. Tra città e periferia c’è sempre una relazione di proporzionalità, ma anche divergenza incolmabile: la periferia non può essere in netta contrapposizione con la città, perché difficilmente quest’ultima può essere pienamente identificabile come centro, o forse baricentro, punto stabile che definisce l’equilibrio delle varie parti e lo mantiene, prevenendone il collasso.

La città si articola e si espande seguendo il flusso continuo della popolazione che va e viene: come nel processo metabolico, l’ingresso di nuovi elementi determina l’espulsione di altri, ma questo meccanismo di ricambio non è sempre (piuttosto quasi mai) indolore. La città si irradia verso l’esterno anche grazie a questo meccanismo di integrazione e rigetto, ma come per un albero, a ogni fase si aggiunge un anello, in un ciclo che determina un surplus di materia e di popolazione la quale di solito si stabilisce lungo i bordi che delimitano il “centro” comunemente inteso. È così che lo spazio urbano si ingrandisce e finisce per assumere dimensioni mastodontiche, che ne rendono la gestione sempre più difficile. L’automobile è

l’anello di congiunzione tra queste porzioni di spazio e tempo disconnesse e solo occasionalmente ricongiunte.