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Il segno e la scrittura: neon e cartellon

1.3 Appropriazioni spazial

1.3.1 Il segno e la scrittura: neon e cartellon

Insegne e neon, mentre sembrano dare forma e colore alla città, non fanno che riaffermare la sua fragilità, non solo perché scenografici, transeunti (destinati a essere smantellati o sostituti come succede periodicamente nelle enormi “vetrine” di Piccadilly Circus e Times Square) e immateriali come le sostanze di cui sono composti – elettricità e gas, ma anche perché significanti impersonali il cui messaggio rimanda a un futuro più o meno prossimo (quello che faremo, quello che compreremo, quello che vedremo). Le insegne al neon, unione di luce e linguaggio, sono quanto di più vicino al cinema la città possa contenere. Per Tweedie ‘the neon sign is where the city begins to assume the form of cinema’, vessillo di una città che vive sull’apparenza ed è definita dal suo linguaggio, come la scrittura delle infinite insegne che denotano la città e arrivano in un secondo momento a connotarla.92

Il panorama di molte città dell’Asia, carico di caratteri e alfabeti non occidentali, restituisce al visitatore/spettatore occidentale una doppia estraneità, che è in primo luogo ambiguità linguistica. Nelle scene iniziali di Sans Soleil e Tokyo-Ga la città si presenta proprio attraverso la scrittura che la ricopre, ancora un volta, come un libro “vivente” il cui contenuto cambia di volta. In film che alludono a forme e fasi diverse dell’imperialismo culturale (prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale), le insegne in caratteri latini e i cartelloni con “facce occidentali” sono usate come segnale di una problematica sovrapposizione di culture e stili di vita, che sfociano in un rapporto conflittuale con la sfera culturale di appartenenza, “solcata” da segni di una presenza straniera reale e virtuale, rassicurante ma anche minacciosa.

Nel cinema di Shanghai le luci delle insegne al neon danno vita a una mitologia trasversale. In The Goddess il ricorso alle “luci della città” è ancora allegorico (fig. 28), simbolicamente connesso alla minaccia proveniente dalle strade corrotte che incombe sulla protagonista. In Scenes of City Nights (1935) di Yuan Muzhi, l’immagine di Shanghai è invece evocata come spettacolo e come sogno di un gruppo di contadini che stanno per

92 Y. Braester, J. Tweedie (a cura di), Cinema at the City’s Edge: Films and Urban Networks in East Asia, Hong

trasferirvisi. In quanto ideale, la città diventa sintesi e puzzle di insegne luminose di nightclub e hotel in cinese e inglese (ricorrenti sono quelle che recano la parola whiskey), che si susseguono con un ritmo incalzante e pubblicizzano nuove forme d’intrattenimento, tra cui il cinema e la novità assoluta dei talkies.

L’eccezionale sequenza montata del “sogno della città” parte dall’immagine bidimensionale del panorama urbano, costruito con cartone e lampadine e spiato attraverso il foro di una lanterna magica da un occhio in primissimo piano – il grande occhio dello spettatore – e diventa reale, ma non meno sintetica ed esemplare nell’immaginazione dello stesso spettatore. Man mano che il sogno prosegue trasformandosi in narrativa (e incubo), le strade della città confermano e insieme smentiscono questa visione: se infatti vi si ritrova parte dello splendore e della ricchezza di stimoli visivi (le insegne dei negozi di Nanjing Road, le vetrine elaborate dove un automa con le fattezze di Charlot invita all’acquisto, ma anche le luci del cinematografo, cartoon e fumetti), altrettanto presenti ma meno allettanti sono i segnali della povertà che incombe sulle classi meno abbienti, come le insegne più modeste dei banchi dei pegni, dove si immagina lavori con scarsi risultati il padre della famiglia di “emigranti” dalla provincia. La stessa sequenza (o meglio insieme di sequenze) verrà “riciclata” da Yuan Muzhi in Street Angel, film già precedentemente considerato: una circostanza interessante questa, dovuta forse allo scarso successo ottenuto dal film precedente, il cui uso diffuso e stilizzato dell’elemento musicale – che in Street Angel si avvicina di più al musical hollywoodiano – non fu apprezzato dal pubblico.93 La scena, che riecheggia lo stile di montaggio del cinema sovietico,94 è usata come un’unità semantica autonoma che assume valenze diverse nei due film, rappresentando la materializzazione di un desiderio (come contenuto di un sogno) nel primo, e la descrizione di un vorticoso incubo nel secondo. Un atto d’accusa e allo stesso tempo una dichiarazione d’amore.

Staccati gli occhi dalla lanterna magica (ritorna “l’occhio gigante”) e risvegliati dal sogno, i migranti carichi di bagagli si ritrovano storditi e dubbiosi: Shanghai non è più così allettante e il treno in partenza per la metropoli non esercita più un’attrazione irresistibile. Nel riuscito slapstick finale, i quattro salgono su un treno che va in una direzione (Shanghai), ma lo attraversano per salire su un altro che va nella direzione opposta; nell’indecisione rimangono tra i due binari e girano intorno a un semaforo: una scena amaramente comica, che

93 L. Pang, op. cit., p. 219.

può anche rimandare all’ambiguità della posizione del regista nei confronti di Shanghai – paradiso o inferno.

Il film giapponese Crazed Fruit (1956), articola in segni visivi e sonori il disagio di una generazione di giovani cresciuta nel vuoto morale del periodo di transizione successivo alla resa del Giappone e al conseguente periodo di occupazione americana. Particolarmente significativa nel film di Ko Nakahira è l’interazione dei personaggi con un ambiente urbano pieno di segni dell’implacabile penetrazione della cultura americana: Frank, figlio di un soldato americano e di una donna giapponese, per sentirsi più giapponese beve shochu (un distillato tradizionale in Giappone), mentre tutti gli altri amici ordinano whiskey. Anche il più recente film coreano Chilsu and Mansu, come vedremo a breve è costellato di segni di una presenza straniera che pur restando apparentemente “chiusa” nei cartelloni dei film americani in uscita, sembra essere complice silenziosa del regime militare in vigore nel paese.

E ancora Hong Kong, un “testo” a se stante. In Chungking Express (Wong Kar-wai, 1994) l’ibridità e il sovraffollamento di segni, come quello di persone, non è visto come un problema ma come una caratteristica costitutiva dello spazio fisico e mentale della città. Hollywood Hong Kong di Fruit Chan (2001) mostra la penisola di Kowloon, la parte più povera e degradata di Hong Kong: qui le insegne sono modeste come lo status degli abitanti, i quali usano la scrittura in modo creativo, per lasciare annunci e comunicare tra di loro nel fitto reticolo di strade. Nel film c’è una significativa allusione a Tsang Tsou-choi, anziano calligrafo e artista di strada che ricopre edifici e altri elementi del paesaggio urbano con la sua fitta scrittura: segni che parlano dell’appartenenza allo stesso spazio e della sua (spesso difficoltosa) condivisione.

Che si tratti di una lingua familiare o straniera, i cittadini rimangono il pubblico di questo ripetuto spettacolo linguistico. Nelle metropoli, l’elemento grafico e linguistico dei cartelloni pubblicitari rimanda alle modalità economiche su cui il libero mercato si mantiene e si rinnova. Si può brevemente notare che in alcuni film cinesi degli anni Novanta, come la trilogia di Jia Zhangke,95 la società semi-urbana e semi-rurale delle piccole città dello Shanxi lontane dai maggiori centri urbani, seppure avviata verso l’apertura al mercato e all’economia di consumo, mantiene tracce molto forti della modalità “socialista” di articolazione dello spazio: la città, piena di danwei (unità lavorative e abitative) e conseguentemente di mura di recinzione, si presta a diventare una lavagna, un unico grande spazio per l’affissione di messaggi di propaganda delle diverse campagne politiche e sociali di volta in volta lanciate.

Nei film di Jia è frequente la presenza dei caratteristici slogan diffusi da un megafono per le vie cittadine: elemento che contribuisce a definire e contestualizzare la scena, arricchendola di strati sonori, ma che crea anche un ulteriore livello semantico, come se gli slogan recitati si materializzassero automaticamente (e visivamente) nelle menti degli “ascoltatori”.

In Due o tre cose che so di lei (1966), Godard descrive Parigi come un quaderno su cui non si smette di scrivere e il cui senso non è dato dalle parole o dai testi, ma dall’atto stesso della scrittura. Nello stesso periodo, che coincide con il boom economico in molti paesi occidentali, anche il Giappone si fa sedurre dalle lusinghe dell’economia di mercato, che non cambia solo le abitudini e i consumi della gente, ma anche, drammaticamente, l’aspetto delle città, soprattutto della capitale Tokyo.

Suzuki Seijun gira Tokyo Drifter nel 1966, lo stesso anno del film di Godard. Col pretesto di narrare le vicende di un giovane yakuza che si ritrova senza guida, e al tempo stesso parodiando il genere dei yakuza gangster, Suzuki fa un film sull’incoerenza del nuovo panorama della Tokyo post-olimpica (fig. 29, 29 bis). Mentre il paese sembrava aver abbracciato acriticamente uno stile di vita consumistico, intellettuali e registi – sulla scia del movimento globale di protesta che sarebbe scoppiato di lì a breve – lanciavano i loro strali contro lo stravolto assetto visivo degli spazi urbani e della periferia (industriale o semi- industriale) (fig. 30).96

Come anticipato, Tokyo Drifter appartiene al cosiddetto genere yakuza ma si configura soprattutto come una riflessione metacritica sul genere, operazione intellettuale messa in evidenza dalla marcata stilizzazione di alcuni elementi, fra cui l’uso del colore e la caratterizzazione dei personaggi al limite dello stereotipo. Le ambientazioni, anch’esse nettamente definite dalla contrapposizione di contesti spaziali, sono l’elemento più interessante e distintivo del film. Il (nuovo) caratteristico panorama di Tokyo, con palazzi, sopraelevate, cantieri, e le immagini ampiamente sfruttate delle insegne nel quartiere di Akasaka (fig. 31, 32), sono strumentalmente contrapposti agli asettici interni di uffici e night club – in stile ibrido da pastiche modernista (fig. 33, 34) – e alle ambientazioni in luoghi remoti, come il molo del porto o il paesaggio perennemente innevato dell’Hokkaido (fig. 35). C’è poi una stretta corrispondenza tra gli scenari visti e la vita da fuggitivo del protagonista,

96 ‘Neon lights beckon us towards a future seen from another era. In films like Tokyo Drifter … the neon sign,

multilingual and cosmopolitan, uprooted and floating above the banalities of the street, present a vision of the city to come, a spectacular space where light is dedicated to the cause of commerce. Littered with brand names [the neon] speaks a commercial lingua franca founded on a handful of keywords like “shopping” and “new”. Glimpsed in close-up, these neon signs are more than the backdrop for the tale of a vagabond gansgster; they are worthy of attention in their own right, as portents bearing as much significance as the close-up of a face or a gun’. J. Tweedie, op. cit., p. 89.

costretto da vero drifter (come ricorda l’omonima canzone che torna in modo quasi ossessivo) a rifugiarsi in diversi luoghi del paese, evocati nella forma di scenari statici da cartolina (fig. 36), la cui sequenza sembra imitare – forse non senza ironia – le diapositive di foto scattate in vacanza (fig. 37). Il treno è un tema ricorrente, mezzo di fuga ma anche parte dello scenario (compare sin dall’inizio e ricorre in tutto il film) (fig. 38). Il modo in cui il paesaggio viene trattato e l’evidente preoccupazione per lo spazio urbano, stabiliscono un collegamento con altri film coevi impegnati nella rappresentazione e ridefinizione critica di un spazio sempre più manipolato. Come nel film AKA Serial Killer (1969) di Masao Adachi, l’inseguimento del fuggitivo o del criminale di turno sembra essere un pretesto per mostrare come la vera violenza sia quella esercitata dalle multinazionali sul paesaggio.97

In Chilsu e Mansu (1988) di Park Kwang-su, i cartelloni e simili forme di “decoro” urbano non sono solo semplici segni e coperture che camuffano un vuoto, ma diventano oggetto stesso del testo filmico. Il film è articolato intorno alle vicende di due uomini di età diversa, accomunati dallo stesso lavoro di cartellonisti e da una simile sensibilità. Per la loro posizione sociale Chilsu e Mansu sono degli emarginati. La Corea che fa da sfondo alle loro disavventure è quella della legge marziale e del defense drill, l’addestramento civile alla difesa che di fatto ostacola la popolazione limitandone la mobilità e le attività quotidiane (fig. 39, 40). Nella Seul di Chilsu e Mansu tutti sono potenzialmente emarginati, tutti sono outsider nel nome di un bene collettivo il cui vero senso stenta a rivelarsi. L’unica libertà concessa ai due lavoratori precari (in tutti i sensi, perché ripetutamente appesi a funi sospese nel vuoto), e unico loro privilegio consiste nel sovrastare visivamente la città dall’alto, dominarla con lo sguardo: privilegio che rivela però tragicamente tutte le incongruenze dello spazio e della società (fig. 41). Se i poster e i cartelloni da loro dipinti – che più che un prodotto sembrano pubblicizzare uno stile di vita – rappresentano l’unico modo a loro disposizione per conoscere il mondo esterno, le locandine di film di successo del periodo (tra cui si riconoscono Top Gun, Arma Letale, A Chorus Line e Il Padrino) sono anche la finestra che permette alla Corea del Sud di affacciarsi al mondo occidentale (fig. 42). La stessa America, lontana ma dominante dall’alto e vistosa come le pubblicità, è ridotta a un’immagine normativa il cui accostamento con la realtà storica è problematico, se non critico (fig. 43). Il finale rappresenta il culmine di questo dramma dell’ironia, intesa come continuo differimento del significato: i protagonisti in cima a un cartellone vengono scambiati da sotto, dalla città che tutto mistifica, per attentatori (quelle che sembrano bombe molotov sono solo innocue bottiglie) e aspiranti

suicidi. Il malinteso è soverchiante, aggravato dalla distanza che non permette alle parti contrapposte – i due amici in alto, e le forze dell’ordine in basso – di comunicare (fig 44).

La divisione della città in zone nettamente separate che ricorre dall’inizio alla fine del film riflette la polarizzazione della società: il centro blindato e brillante di vetrine, grandi magazzini, fast food, locali notturni (fig. 45), e dall’altra parte i sobborghi semi-rurali con baracche, abitazioni fatiscenti e chioschi (fig. 46, 47). A questa polarizzazione corrisponde un’umanità contrapposta: formalmente impeccabile ma ipocrita e forse anche corrotta l’una (i vari capi dei cantieri, datori di lavoro di Chilsu e Mansu, le autorità e Jina, la ragazza borghese che Chilsu frequenta per un po’), approssimativa, impulsiva, ma anche genuina e generosa l’altra.

Anche Tsai Ming-liang ha imparato la lezione di Godard, e sull’ambiguità dello status precario di Taipei costruisce il suo universo filmico. Nel suo primo lungometraggio Rebels of the Neon God (1993), le parole, come le insegne, sono introiettate e diventano parte del subconscio, lavorando in modo sotterraneo sulla psiche, affaticandola come fanno con la vista.98 Poche salienti inquadrature del paesaggio urbano sopraggiungono in momenti di transizione e alla fine del film: sembrano prese da una passerella pedonale o un cavalcavia, elementi che dagli anni Settanta in poi hanno caratterizzato la città (molto frequenti in altre città asiatiche, compresa Pechino), ma che negli ultimi anni sono andate incontro a un progressivo smantellamento.99 In questi momenti l’occhio del regista coincide con il nostro, diventa dominante e pronuncia il suo implicito giudizio su una città disordinata, governata da leggi misteriose, di cui la superstizione e i culti ancestrali praticati dalla popolazione sono parte integrante. Il titolo originale del film contiene un riferimento a Norcha o Nezha, una divinità taoista che si ribella contro il padre, proprio come Hsiao-kang.

È una Taipei quasi sempre sotto la pioggia quella di Tsai, oppure sotto una strana pallida canicola. Situazioni ricorrenti nei suoi film, come allagamenti o altri improbabili incidenti, nella loro reiterata casualità diventano normalità e consuetudine: l’eccezionalità che diventa norma è quanto di più vicino alla condizione esistenziale il cinema possa creare.

98 La madre del giovane protagonista, preoccupata per il figlio, mette a sua insaputa le ceneri di una preghiera

bruciata nella pietanza che sta preparando per lui.