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Spazi metaforici e strategie di resistenza

1.3 Appropriazioni spazial

1.3.2 Spazi metaforici e strategie di resistenza

Come vedremo nei capitoli successivi, la nozione di spazio sembra essere ancora oggi problematica, perché il suo presunto primato sul tempo rimanda a un conseguente oblio della storia.

Lo spazio pone il problema della sua articolazione, del suo “riempimento”, ma soprattutto della sua occupazione (e dunque possesso) materiale e virtuale. Come il linguaggio, lo spazio è costellato di segni che costituiscono una mappa concettuale e spiegano le ragioni per cui la terminologia a esso collegata si presti così efficacemente all’applicazione metaforica.100 Questo avviene perché dello spazio ci si può appropriare, soprattutto se si è dalla parte di coloro che “articolano il discorso” e stabiliscono il codice metaforico di riferimento, applicato in contesti istituzionali della politica e in tutte le funzioni di governo. A questo monopolio, pensatori come Foucault e Bhabha hanno cercato di opporre una resistenza attraverso l’attenta analisi e la reinterpretazione/revisione dell’applicazione metaforica dello spazio come confine aperto a incursioni, e non più solo come recinto.

Homi Bhabha ricorre alla nozione di “oltre” come metafora spaziale e culturale:

It is the trope of our times to locate the question of culture in the realm of the beyond … The “beyond” is neither a new horizon, nor a leaving behind of the past … it is in the emergence of the interstices – the overlap and displacement of domains of difference – that the intersubjective and collective experience of nationness, community interest, or cultural value are negotiated. How are subjects formed “inbetween”, or in excess of, the sum of the “parts” of difference (usually intoned as race/class/gender, etc)? How do strategies of representation or empowerment come to be formulated in the competing claims of communities where, despite shared histories of deprivation and discrimination, the exchange of values, meanings and priorities may not always be collaborative and dialogical, but may be profoundly antagonistic, conflictual and even incommensurable?101

La “scoperta” dello spazio e il riconquistato primato sul tempo che caratterizza il pensiero e la società post-strutturalisti, è stato largamente commentato da studiosi come Soja,

100 ‘Language is (or, perhaps, became) a thing of space … And if space is, in today’s language, the most

obsessive of metaphors, it is not that it henceforth offers the only recourse; but it is in space that, from the outset, language unfurls, slips on itself, determine its choices, draws its figures and translations. It is in space that it transports itself, that its very being “metaphorizes” itself (…) Such is the power of language: that which is woven of space elicits space, gives itself space through an originary opening and removes space to take it back into language. But again it is devoted to space: where else could it float and posit itself, if not on this place that is the page, with its lines and its surfaces, if not in this volume that is the book?’ M. Foucault, in J. W. Crampton, S. Elden (a cura di), Space, knowledge and power: Foucault and geography, Aldershot, Ashgate, 2007, pp. 163- 164.

Harvey, Giddens, nonché analizzato nelle sue implicazioni da Foucault, il quale evidenzia anche l’ubiquità della terminologia legata allo spazio nell’uso metaforico. La metafora, che si fonda sul somiglianza tra due o più cose diverse, è per Richards ‘il principio onnipresente del linguaggio’102: similmente lo spazio è ovunque, perché tutto è virtualmente spazio. Ma lo spazio è nel pensiero contemporaneo anche un vuoto bianco che si può riempire a piacimento, la cui genericità entra inevitabilmente in conflitto con la specificità del tempo e della Storia.

Barnes e Duncan fanno notare che la parola geografia ha in sé il riferimento alla Terra – lo spazio per eccellenza – e quello alla scrittura. La terra diventa disciplina, e in un secondo momento ideologia, quando la si scrive, inscrive e riproduce. Il segno scritto riproduce la topografia di un luogo per analogia, ma l’operazione nel suo complesso diventa metaforica, perché il pensiero deve elaborare razionalmente lo scarto tra la realtà effettiva (quello che si abita e si percorre) e quella riprodotta che si guarda o si studia. Non è certo un caso che la geografia e la cartografia siano state parte integrante di tutte le campagne di conquista e delle guerre, forse perché hanno creato l’illusione di poter circoscrivere e dominare lo spazio aldilà di qualsiasi ostacolo fisico o “umano”. Ovviamente ‘siamo noi umani che decidiamo come rappresentare le cose, non le cose stesse,’ ma per lo stesso processo di trasfigurazione metaforica l’azione di scrivere il mondo ‘rivela noi stessi (che scriviamo) tanto quanto il mondo rappresentato’.103

In “Questions on Geography”, Foucault parla di “metafore geografiche”, come “territorio”, termine geografico ma prima di tutto giuridico-politico che indica l’area controllata da un certo potere; “campo”, termine economico-giuridico; “regione”, che si riferisce al sistema fiscale, amministrativo e militare; “orizzonte”, usato in pittura ma anche per indicare una strategia. L’unico termine strettamente geografico è “arcipelago” cui Foucault ricorre, citando il lavoro di Solzhenitsyn, per designare “l’arcipelago carcerario” e il modo in cui il sistema punitivo è fisicamente disperso, coprendo al tempo stesso la società nella sua interezza.104

Il punto fondamentale dell’analisi di Foucault è la constatazione che il ricorso allo spazio come metafora discorsiva mette in evidenza i rapporti di potere tra le varie parti che questo spazio “occupano”. In Marx i rapporti di potere e la lotta di classe sono inscritti all’interno della storia in termini teleologici e lo spazio è solo il teatro di questo “epico”

102 Ivi, p. 10.

103 T. J. Barnes , J. S. Duncan , op. cit., pp. 2-3.

104 M. Foucault, Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings, 1972–1977, C. Gordon (a cura di),

conflitto storico; in Foucault lo spazio è la dimensione materiale dove il conflitto prende corpo e senso. La guerra si combatte sul campo, non nel tempo: anzi il tempo bellico è dilatato e assume una valenza diversa in funzione degli spazi (la trincea, l’accampamento eccetera): ‘The spatializing description of discursive realities gives on to the analysis of related effects of power’.105 Nella pervasiva applicazione metafora dello spazio risalta l’importanza degli interstizi, delle sovrapposizioni e della differenza come spostamento o differimento “oltre” (concetto centrale in Bhabha mutuato da Derrida):

Beyond signifies spatial distance, marks progress, promises the future; but our intimations of exceeding the barries of boundary – the very act of going beyond – are unknowable, unrepresentable, without a return to the “present” which, in the process of repetition, becomes disjunct and displaced. The imaginary of spacial distance – to live somehow beyond the border of our times – throws into relief the temporal, social differences that interrupt our collusive sense of cultural contemporaneity.106

In questo quadro concettuale, la nozione di confine acquista la doppia valenza di limite e soglia, ma anche di ponte:

The wider significance of the postmodern condition lies in the awareness that the epistemological “limits” of those ethnocentric ideas are also the enunciative boundaries of a range of other dissonant, even dissident histories and voices – women, the colonized, minority groups, the bearers of policed sexualities. For the demography of the new internationalism is the history of postcolonial migration, the narratives of cultural and political diaspora, the major social displacement of peasant and aboriginal communities, the poetics of exile, the grim prose of political and economic refugees. It is in this sense that the boundary becomes the place from which

something begins its presencing in a movement not dissimilar to the ambulant, ambivalent

articulation of the beyond that I have drawn out: “Always and ever differently the bridge escorts the lingering and hastening ways of men to and fro, so that they may get to other banks … the bridge gathers as a passage that crosses”.107

Nella condizione di mobilità cronicizzata, quella che Bhabha chiama “nuovo internazionalismo”, le culture nazionali non sono più espressione di quelle “comunità immaginate” di Benedict Anderson, radicate in un “vuoto tempo omogeneo” di modernità e

105 ‘Metaphorizing the transformation of discourse in a vocabulary of time necessarily leads to the utilization of

the model of individual consciousness with its intrinsic temporality. Endeavouring on the other hand to decipher discourse through the use of spatial, strategic metaphor enables one to grasp precisely the points at which discourses are transformed in, through and on the basis of relations of power’. Ivi, pp. 177-178.

106 H. K. Bhabha, op. cit., p. 6. 107 Ivi, pp. 6-7.

progresso, ma sono prodotte dalla prospettiva di minoranze affrancate. E se le grandi narrative connettive del capitalismo e della divisione in classi guidano ancora la macchina della riproduzione sociale, non forniscono in se stesse la cornice che determina le modalità di identificazione culturale e interessi politici che si formano intorno a temi riguardanti la sessualità, la razza, il femminismo e la sfera esistenziale dei rifugiati e degli immigranti.108 La situazione postcoloniale, o “post-colonialità”, è in questo quadro più che altro un modo per tenere a mente le relazioni “neo-coloniali” all’interno del nuovo ordine mondiale e la divisione multinazionale del lavoro. Bhabha parla appunto di “otherwise than modernity”: culture nel Nord e nel Sud, ma anche nell’Ovest e nell’Est, di contro-modernità postcoloniale contingente alla modernità, discontinua o in conflitto, resistente alle tecnologie oppressive e di assimilazione; culture che usano l’ibridità della loro condizione “borderline” per tradurre, e quindi reinscrivere l’immaginario sociale della metropoli e della modernità.109 Similmente, la città è una danza di tempi e spazi: la mancata coincidenza di questi tempi mette ulteriormente in crisi lo status della metropoli in quanto tale.

La differenza di cui parla Bhaha è un processo, mentre la diversità culturale è invece oggetto, o meglio intenzionalmente “oggettivizzata” dal discorso istituzionale per essere disciplinata e ridotta a narrativa:

The enunciation of cultural difference problematizes the binary division of past and present, tradition and modernity, at the level of cultural representation and its authoritative address. It is the problem of how, in signifying the present, something comes to be repeated, relocated and translated in the name of tradition, in the guise of a pastness that is not necessarily a faithful sign of historical memory but a strategy of representing authority in terms of the artifice of the archaic.110

Oltre alla (fittizia) divisione binaria passato-presente, la nozione di “Terzo Spazio” (quello della differenza) proposta da Bhabha spezza il binomio soggetto-oggetto – una disgiuntura semiotica che drammatizza la differenza linguistica (di ogni performance culturale). La produzione di significato richiede invece che questi due “luoghi” siano

108 Ivi, p. 8.

109 Ivi, p. 9.

110 ‘In order to be institutionally effective as a discipline, the knowledge of cultural difference must be made to

foreclose on the Other; difference and otherness thus become the fantasy of a certain cultural space or, indeed, the certainty of a form of theoretical knowledge that deconstructs the epistemological “edge” of the West … The Other is cited, quoted, framed, illuminated, encased in the shot/reverse-shot strategy of a serial enlightenment. Narrative and the cultural politics of difference become the closed circle of interpretation. The Other loses its power to signify, to negate, to initiate its historic desire, to establish its own institutional and oppositional discourse’. Ivi, pp. 46-52.

mobilitati nel passaggio a un terzo spazio, che rappresenta sia le condizioni generali del linguaggio che le implicazioni specifiche del momento espressivo di enunciazione: una relazione inconscia che introduce anche un’ambivalenza nell’atto interpretativo. L’intervento del “terzo spazio di enunciazione” distrugge lo specchio di rappresentazione nel quale la conoscenza culturale è abitualmente rivelata come un codice integrato, aperto e in espansione. Un simile intervento sfida il nostro senso d’identità storica e della cultura come un forza unificatrice e omogeneizzante, autenticata dall’idea di un passato originario e tenuta viva dalla tradizione nazionale.111

L’annunciato superamento della logica binaria ci aiuta a porre le basi per una considerazione più articolata e completa del cinema urbano in Asia. Questo è anche il presupposto per aprire il terreno all’interazione di fattori che illustrino l’impossibilità di una radicale contrapposizione di sfere geopolitche e delle rispettive manifestazioni materiali e culturali, solo accostabili e a volte sovrapponibili. Allo stesso modo, vedremo a breve che le ideologie apparentemente antitetiche che si nascondono dietro i progetti filmici, sono espressione di un’unica temperie politico-culturale, sebbene riflettano modi diversi di appartenere all’arte e all’industria del cinema.

111 ‘It is that Third Space, though unrepresentable in itself, which constitutes the discursive conditions of

enunciation that ensure that the meaning and symbols of culture have no primordial unity or fixity; that even the same signs can be appropriated, translated rehistoricized and read anew’. Ivi, pp. 54-55.

CAPITOLO2

L

A CITTÀ

-

PENSIERO

I am arguing that cities are dense nodes in wider webs of bodies, information, goods, money, and ideas.112 …the gaze is never neutral; it gives the impression of leaving things there where they are; in fact, it ‘removes’ them, virtually detaching them from their depths and layers, in order to enter them into the composition of a film that is yet to exist and whose screenplay has not been determined. These are “views” that are not decided upon, but “under option”, and which, between the things that are no longer and the film that is yet to be, form with language the weaving plot of the book.113

Il segno filmico finora considerato è di cruciale importanza per costruire un’analisi della presenza urbana nel cinema in esame, ma la sua individuazione così come la sua funzione appartengono a un retaggio strutturalista ancorato alla ricerca di senso.

In questo capitolo cercherò di dimostrare come il senso più compiuto e controverso del segno filmico “urbano” sia collegato a quella che chiamerò ideologia urbana e alla costruzione di un apparato ideologico.

La città filmica è attraversata da segni che la rendono una forma compiuta di ideologia fondata sulla loro condivisione. Per stabilire le implicazioni socio-culturali di un simile processo bisogna aggiungere la considerazione dei meccanismi che legano la rappresentazione dello spazio urbano al potere come causa ed effetto dell’esercizio quotidiano dell’autorità.114

Nel precedente capitolo si è visto come la città e il cinema siano articolazioni di linguaggi – in questo senso discorsi – che agiscono sull’immaginario attraverso i segni che si ritrovano nello spazio e lo definiscono. Un’azione di questo tipo è alla base

112 S. Pile, “Perpetual Returns: Vampires and the Ever-Colonized Cities”, in R. Bishop Ryan, J. Phillips, W. Yeo,

(a cura di), Postcolonial Urbanism: Southeast Asian Cities and Global Processes. Routledge, London 2003, p. 282.

113 J. W. Crampton, S. Elden (a cura di), Space, knowledge and power: Foucault and geography, Aldershot,

Ashgate, 2007, p. 166.

114 ‘…there is no knowledge – political or otherwise – outside representation … the dynamics of writing and

textuality require us to rethink the logics of casuality and determinacy through which we recognize the “political” as a form of calculation and strategic action dedicated to social transformation.’. H. K. Bhabha, op. cit., p. 34.

dell’appropriazione ideologica dello spazio. Il trattamento dello spazio fisico come discorso determina una sua trasfigurazione attraverso la costruzione metaforica e una transizione dello spazio da “contenitore” a “contenuto”. In virtù dello stesso processo lo spazio diventa segno e a volte mito, nell’accezione barthiana già considerata.

Analizzeremo qui i modi in cui lo spazio della città viene filmicamente ricostruito e caricato di una valenza ideologica, che può assecondare il potere istituzionale o contraddire la sua linea “narrativa”, perché di narrazione si tratta.

2.1 Modelli di rappresentazione ideologica dello spazio urbano