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La nazione latita, il locale incalza

Senza il peso ingombrante dell’entità moderna chiamata “nazione”, la città si configura come modello autonomo, centro che attrae persone e attività da aree remote e culturalmente diverse.

La città mancante rappresenta solo l’ultimo, più rappresentativo anello di un’illustre catena di assenze. Una che anticipa l’assenza della città è quella della nazione, entità da collegare a nozioni e attributi altrettanto indefiniti quali cultura e identità. La narrazione è un elemento fondamentale che colma quest’assenza, e sul vuoto costruisce il racconto come significato e connotazione. Abbiamo visto che ci possono essere diversi tipi di narrazione, tutti legati al potere in modi più o meno stretti, in un’interdipendenza che spiega tanto i meccanismi di osservanza quanto quelli di resistenza, nella forma di antagonismo o nel tentativo di costituire un potere alternativo.

Che la nazione mancasse come realtà effettiva risultava chiaro, prima ancora che lo dicesse Benedict Anderson,365 dall’osservazione delle modalità in cui essa è nata: a tavolino, a seguito di lunghi accordi, patteggiamenti e contrattazioni, e sul corpo dei cadaveri morti nel nome di questa pesante assenza, molto spesso contro la volontà delle popolazioni interessate o persino a loro insaputa.366 Dopo essere stata creata, la nazione ha avuto bisogno di essere proiettata, per affermare la propria esistenza e stabilire l’aggregazione necessaria al suo consolidamento. I media hanno assolto a questa funzione in modo egregio, quasi esclusivo: la televisione sembra essere stata creata come arma a disposizione dell'apparato ideologico per costruire un immaginario nazionale, occasionalmente esportabile.367

365 ‘…I propose the following definition of the nation: it is an immagined political community – and immagine

as both inherently limited and sovereign. It is imagined because the members of even the smallest nation will never know most if their fellow-members, meet them, or even hear of them, yet in the minds of each lives the image of their communion (…) In fact, all communities larger than primordial villages of face-to-face contact (and perhaps even these) are imagined. Communities are to be distinguished, not by their falsity/genuineness, but by the style in which they are immagine … The nation is imagined as limited because even the largest of them , encompassing perhaps a billion living human beings, has finite, if elastic, boundaries, beyond which lie other nations. … It is imagined as sovereign because the concept was born in an age in which Enlightenment and Revolution were destroying the legitimacy of the divinely-ordained, hierarchical dynastic realm … Finally, it is imagined as a community, because, regardless of the actual inequality and exploitation that may prevail in each, the nation is always conceived as a deep, horizontal comradeship’. Benedict Anderson, Imagined Communities:

Reflection on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London New York, 1983, pp. 6-7.

366 ‘Ultimately it is this fraternity that makes it possible, over the past two centuries, for so many millions of

people, not so much to kill, as willingly to die for such limited imaginings’. Ibidem.

Il cinema ha un ruolo più ambiguo, in virtù dei meccanismi d’ideazione, produzione e finanziamento: può rinsaldare il senso di appartenenza nazionale, sancendo la sua legittimità presso il pubblico (agente ed elemento costituente, non solo recipiente passivo), ma può anche “confutare” la nazione, mettendone in discussione la legittimità.

Bhabha, autore di un testo dal titolo significativo come Nation and Narration,368 ponendosi nel solco tracciato da altri pensatori della scuola marxista come Henri Lefebvre e Fredric Jameson, ricorda che il discorso sulla nazione va collocato nel più ampio contesto transnazionale della finanza globalizzata, della cultura “disseminata” e di quella della disseminazione, ma diventa anche un concetto chiave per testare le fasi della modernità e il modo in cui questa viene percepita e diffusa. Nell’epoca contemporanea la nazione va ricollocata nel mutato quadro internazionale di movimenti migratori di massa e riconfigurazioni territoriali e di sovranità. Bhabha parla dell’esperienza della migrazione come di quel momento di “spargimento” in altri tempi e altri luoghi nella “nazione di altri”, che diventa un tempo di aggregazione spontanea, quasi un ritrovarsi sporadico di esiliati, emigrati e rifugiati, ai confini delle culture straniere, delle frontiere, nei ghetti, nei caffè e nei centri urbani.369 In questa prospettiva l’ultima fase della nazione moderna, dalla metà del Diciannovesimo secolo, è quella caratterizzata da migrazioni di massa verso l’occidente e dall’espansione coloniale ad Est.

In quanto entità materiale che si presta ad appropriazioni simboliche, la nazione è un’altra di quelle categorie che viene usata come metafora della moderna configurazione di rapporti geopolitici, e di modernità in senso più ampio, che riempie il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e legami.370 Tradizionalmente, la nazione, la sua gente, e la cultura nazionale sono viste come un’unica entità: la forza psicologica che la nazione come “strategia narrativa” carica sulla produzione culturale e sulla proiezione politica è proprio l’effetto della sua ambivalenza come entità politica e “racconto”.371 Per Bhabha, la metafora ricorrente del paesaggio come scenario interiore dell’identità nazionale mette in risalto la questione della visibilità sociale, il potere dell’occhio di naturalizzare la retorica dell’affiliazione nazionale e le sue forme di espressione collettiva. Ma ancora una volta lo studioso evidenzia la presenza di un’altra temporalità che disturba la contemporaneità del presente nazionale: il cronotipo del

368 H. K. Bhabha, Nation and Narration, Routledge, London New York, 1990. 369 H. K. Bhabha, op. cit., p. 199.

370 Ivi, p. 200.

371 Come apparato di un potere simbolico, nell’atto di scrivere la nazione si determina un continuo slittamento di

categorie (sessualità, affiliazione di classe, paranoia territoriale) o “differenza culturale”: questo spostamento e ripetizione di termini mostra come la nazione sia la misura della liminalità della modernità culturale. Ivi, pp. 202-203.

locale, del particolare, del grafico, in cui il tempo nazionale diventa concreto e visibile. Tutti i movimenti di iscrizione del nazionale (come discorso e metafora) sul territorio e sullo spazio devono essere iscritti graficamente e visualmente in esso. Inutile dire che il cinema coadiuva e pone in essere in modo paradigmatico questo processo di iscrizione narrativa.

Due delle categorie intorno a cui Bhabha organizza la sua analisi della nazione come spazio metaforico, sono l’arcaico come ritorno perturbante – in senso freudiano – dell’inconscio culturale (o più comunemente tradizione), e la modernità intesa come tempo lineare, illuminato, inconstestato: una simile preoccupazione per il tempio “doppio e scisso” della rappresentazione nazionale, mette in discussione la visione orizzontale e omogenea associata con la comunità immaginata della nazione.372 Dal punto di vista funzionale, questa diversa articolazione temporale della nazione corrisponde a due diverse strategie – quella pedagogica e quella performativa.373 Le contro-narrative della nazione che evocano e cancellano ripetutamente i suoi confini “totalizzanti”, tanto quelli reali che quelli concettuali, disturbano le manovre ideologiche tramite cui alle “comunità immaginate” sono attribuite identità essenzialiste: ciò significa che una strategia narrativa che consideri il locale, e al tempo stesso il transnazionale, come vera identità della nazione, la rende di fatto irrappresentabile e non riconducibile a nessuna narrazione chiusa.374

Nell’ottica di un cinema concepito nazionalmente ma destinato a una distribuzione e fruizione transnazionale, può essere utile guardare alla nazione come a uno spazio sociale, nell’accezione data da Henri Lefebvre:

We are confronted not by one social space but by many – indeed by an unlimited multiplicity or uncountable set of social spaces which we refer to generically as “social space”. No space disappears in the course of growth and development: the worldwide does not abolish the local.375

Il cinema, linguaggio versatile e sensibile alle sollecitazioni esercitate dall’esterno, è uno strumento ideale di misurazione delle modalità attraverso cui la retorica nazionale entra in gioco come strumento di creazione di un sentire comune e diffuso, e quindi di controllo nei confronti spinte disgregatrici. Al tempo stesso niente è più efficace del cinema, come mezzo di informazione e strumento di comunicazione, per diffondere la conoscenza o semplicemente

372 Ivi, p. 206.

373 ‘It is through this process of splitting that the conceptual ambivalence of modern society becomes the site of writing the nation’. Ivi, p. 209.

374 Ivi, p. 213.

portare l’attenzione sulle specificità locali che concorrono a formare il puzzle che viene chiamato di volta in volta stato, nazione o paese.376 Il cinema che si concentra sul locale tende a esplorare pieghe nascoste dello spazio concepito come vuoto temporaneo su cui investire, ma anche del tempo inteso come storia. L’esempio di Taiwan è calzante, perché il suo status di nazione sovrana è stato e continua ancora oggi a essere messo in discussione, dalla Repubblica Popolare Cinese, ma anche dai i suoi stessi abitanti, molti dei quali si identificano con il gruppo etnico e culturale di appartenenza. Di fatto Taiwan prima ancora che una nazione è un’isola, e dunque un’entità geografica.

Tsai Ming-liang, regista malese trapiantato a Taiwan, ha fatto del “localismo” apparentemente globalizzato di Taipei la bandiera e la cifra stilistica della sua attività, restando ancorato al modello autoriale senza mantenerne i limiti evidenti, quelli che ne hanno determinato la crisi perché collegati alla crisi dei valori tradizionali che questo modello sostenevano: la centralità dell’io narrante, la nozione di soggetto e un'identità incontestabile.

Una continuazione ideale della riflessione filmica sullo spazio assediato della nazione può essere rappresentata dal suo cortometraggio The Skywalk is Gone, seguito di What Time Is There?377 The Skywalk is Gone riguarda le articolazioni dello spazio, molto più invasive del tempo. Nel film Shiang-chyi torna dalla Francia e si mette alla ricerca del ragazzo che le aveva venduto l’orologio, ma scopre che il cavalcavia dove lui si appostava con la merce non

376 Il film di Clint Eastwood Gran Torino, riesce a ribaltare in modo efficace la prospettiva dello straniero in una

terra sconosciuta. Il personaggio interpretato dallo stesso Eastwood – americano di origine polacca che ha dovuto combattere la guerra di Corea per essere definitivamente accettato nel paese di adozione dei genitori – per le dinamiche e i processi legati all’urbanizzazione e le conseguenti variazioni del mercato immobiliare, si ritrova a vivere, ultimo bianco “caucasico”, in mezzo alla comunità Hmong in un sobborgo di Los Angeles. La costruzione narrativa è orientata all’imprevisto e all’imprevedibile, per questo meno esposta a errori formali. Il film attiva inoltre un meccanismo metacritico in virtù del suo interprete e regista, Clint Eastwood, la cui carriera di attore si è fondata sul personaggio del cowboy “buono” che combatteva stranieri “cattivi”, figure aberranti e difficilmente integrabili all’interno degli angusti confini concettuali del film di genere. A proposito di genere, quello che il film riscrive è il western stesso: attraverso la citazione esplicita di scene memorabili, le condizioni che rendevano possibile la sua esistenza vengono progressivamente e impietosamente corrose. Il western non può rimanere se non nella sua parodia, perché sono venute meno le condizioni della sua sopravvivenza, e con esse la visione del mondo che poggiava su basi materiali ancora contraddistinte dal monopolio del flusso di beni e dagli effetti della Seconda Guerra Mondiale. I nemici non più possono essere rappresentati perché non sono visibili: sono i fantasmi della storia che il corpo e la memoria portano con loro, ma anche gli esecutori senza volto di un potere apparentemente impersonale, lo Stato e i consigli direttivi che attraverso operazioni finanziarie decidono come cambiare la vita della persone. Questi cambiamenti creano attriti che trovano uno sfogo a livello locale, ma difficilmente arrivano a scalfire la dura corazza del potere politico-amministrativo ed economico.

377 In quest’ultimo film una ragazza comprava l’orologio di Hsiao-kang su un cavalcavia, e andava a Parigi

portando con sé il “tempo” di Taipei (che è memoria, attaccamento alla radici, ma anche difficoltà a sincronizzarsi con altri tempi), privando il ragazzo del suo tempo, cristallizzato ed espresso dalla sua ossessione per gli orologi, le cui lancette sono continuamente spostate sull’ora di Parigi. Tutta Taiwan è rappresentata entro queste parentesi spazio-temporali: anche la madre del ragazzo, rimasta vedova, vive come se il marito fosse ancora presente. Da un punto di vista metafilmico ed extratestuale, il personale tempo cristallizzato di Tsai è quello della Nouvelle Vague francese e dei suoi protagonisti (nel film l’attore Jean-Pierre Léaud viene filmato sul bordo di una fontana in un cimitero di Parigi).

esiste più: la sparizione di uno spazio, che in quanto transitorio e sospeso (in tutti i sensi) è luogo di incontro e comunicazione, sembra mettere in discussione l’esistenza stessa delle persone, e anche l’ex-ambulante Hsiao-kang si ritrova a vagare per Taipei senza più uno scopo. Nello spazio anonimo e irriconoscibile della città, la ragazza perde la sua identità, letteralmente e simbolicamente: il documento di riconoscimento le viene infatti sottratto da una guardia municipale, sorda alla sue richieste perchè incapace di ascoltare, inghiottita dal caos “generico”.

Un corto successivo di Tsai dal titolo Madame Butterfly, ispirato all’opera di Puccini, segue un’altra donna abbandonata, questa volta dal suo amante, che si smarrisce volontariamente nell’anonimo spazio urbano. Quello che colpisce del suo vagare dolente all’interno di un grande magazzino o di un parcheggio, è il suo isolamento ieratico, esaltato da inquadrature che la seguono con insistenza da dietro o da primissimi piani che nella staticità dell’inquadratura apparentemente impersonale, acquistano un potere ipnotico. Ogni gesto della donna, se collocato in uno sfondo di luoghi altrettanto impersonali, acquista una valenza emotiva che si rivela nel più piccolo gesto (la lenta masticazione di un boccone di cibo o l’osservazione di un raggio di luce che colpisce improvvisamente il cuscino).

Il cinema di Tsai ha dimostrato un’attenzione pressoché esclusiva a situazioni locali mai esplicitate fino in fondo, come quelle storiche (del tutto implicite), che rendono la visione dei film un’esperienza frustrante e al tempo stesso suggestiva, ricreando le condizioni di un mistero senza soluzione, l’enigma in cui non solo le cause ma anche l’esito sembrano abbandonati a una fumosa indeterminatezza. Il termine enigma ben si presta a essere associato al cinema di Tsai Mingliang. Come già ampiamente argomentato nel primo capitolo, la città come segno è un enigma. Il mistero che evoca è quello dell’esistenza di un’entità culturale che si possa associare alla nozione problematica di Asia intesa come “Oriente”, ma anche dell’esistenza stessa della città, come realtà concreta e stabile, al di fuori dei modelli che l’urbanismo come scienza e il cinema come letteratura per immagini hanno creato. L’evocazione dell’enigma è funzionale all’anticipazione di un tema centrale di questo studio: la città e i cittadini come (residuali) presenze spettrali.