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Lo Stato Pontificio era, tra gli stati preunitari, quello che maggiormente aveva prestato attenzione alla salvaguardia dei beni storico-artistici. Essendo il cuore dello Stato della Chiesa immerso fisicamente nei resti materiali della civiltà romana aveva sviluppato con la pratica una naturale inclinazione alla gestione dei beni artistici e archeologici. Nel 1471 Sisto IV creò nel palazzo dei Conservatori la prima collezione museale a carattere pubblico donando al popolo romano una collezione di marmi e bronzi antichi. Già nel 1534 a Roma operava un

Commissario per le Antichità, figura istituita per volere di Paolo III con lo scopo

di sovrintendere a tutto ciò che di antico si trovava a Roma, a questi dal 1750,

70 Sullo Scrittoio delle Regie Fabbriche voluto da Pietro Leopoldo vedi L. Zangheri, Prima nota

sull'architettura in Toscana durante la Reggenza, (1737-1765), in “Storia Architettura”, 1979,

nn. 2 e 3, p. 76.

71 Bettino Ricasoli (1809-1880) fu il secondo Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d'Italia dal 1861 al 1862.

secondo l'editto del cardinale camerlengo Valenti72 furono affiancati tre funzionari

aventi ognuno uno specifico campo di specializzazione: “Pittura ad uno, all'altro

della Scoltura, ed al terzo degli Camei, Medaglie, Incisioni, ed ogni altra sorte di Antichità”. Gli assessori del commissario avevano il compito di esaminare tutto il

materiale relativo ai rispettivi campi presente a Roma con priorità per quello che era in procinto di essere esportato, stilando delle relazioni valutative a riguardo. Per prevenire la corruzione degli Assessori questi ricevevano una paga di venti scudi al mese ed era loro fatto divieto di accettare qualsiasi altra forma di pagamento per il loro operato, i trasgressori erano puniti con la perdita dell'impiego e pene pecuniarie, era infatti usanza diffusa fino all'epoca che si pretendesse una percentuale su ogni licenza rilasciata.

Nell'ambito dell'amministrazione delle antichità romane è da individuarsi la vera pietra miliare nella storia della legislazione dei beni archeologici nell'Editto Doria-Pamphilj sulle Antichità e sugli scavi73 del 1802 più noto con il

nome di Chirografo Fea, dal nome dell'archeologo Carlo Fea, che ne aveva curato il testo.

L'Abate Carlo Domenico Francesco Ignazio Fea giunse a Roma per studiare alla Sapienza dove conseguì la laurea in utroque jure, ma volse ben presto i suoi interessi verso l'antichità, specialmente una volta che, nominato assistente di Ennio Quirino Visconti, all'epoca bibliotecario del principe Sigismondo Chigi, poté accedere alle enormi risorse bibliografiche del principe.

I suoi lavori intellettuali, come il Progetto per una nuova edizione

dell'Architettura di Vitruvio o la traduzione dell'opera di Joachim Winckelmann Storia delle arti e del disegno presso gli antichi, insieme ad altre pubblicazioni a

carattere storico-enciclopedico gli garantirono una posizione di assoluto rispetto tra gli studiosi di antichità romani. Accresceva ulteriormente la sua fama la

72 Per il testo integrale dell'editto Valenti vedi A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la

tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Bologna 1978, pp. 96-

108.

73 La storia e gli aspetti complessivi dell'editto Doria-Pamphili dei primi dell'Ottocento sono ben esposti nel saggio di O. Rossi Pinelli, Carlo Fea e il Chirografo del 1802: cronaca giudiziaria

e non, delle prime battaglie per la tutela delle Belle Arti, in “Ricerche di Storia dell'Arte”,

scoperta effettuata nel 1781 di una copia del Discobolo di Mirone in uno scavo sull'Esquilino, identificata da egli stesso come tale. Nominato Commissario delle Antichità Fea cercò di arginare l'emorragia di opere d'arte che continuamente venivano esportate dall'Urbe, scontrandosi con l'inadeguatezza delle leggi, che arrivavano a tutelare al massimo pezzi unici, “evenemenziali”, dell'arte antica, tralasciando la salvaguardia di tutti gli oggetti d'arte minore o applicata formanti il tessuto connettivo tra le opere d'arte le quali venivano così artificialmente isolate nell'ambito della cultura della produzione artistica e più in generale materiale, rendendo una percezione inorganica e decontestualizzata della produzione antica.

L'editto, che tra le altre cose nominava ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio lo scultore Antonio Canova, deve molto alla concezione delle “belle opere d'Antichità” del nuovo commissario. Al pari di molti editti romani precedenti, il Chirografo Fea vietava qualsiasi esportazione senza licenza di reperti antichi dagli Stati pontifici, e proibiva qualsiasi atto che potesse danneggiarli. In più tutti gli oggetti antichi appartenenti a privati dovevano essere denunciati cosi come ogni nuova scoperta; venivano inoltre stanziati annualmente 10.000 scudi per gli acquisti da parte dei musei, pianificando una politica di accrescimento delle collezioni pubbliche, cosa che precedentemente avveniva in maniera casuale. L'editto inoltre conteneva una procedura dettagliata da seguire per gli scavi autorizzati, in modo che tutta l'opera venisse sorvegliata dal Commissario delle Antichità, dai suoi assessori o da loro sostituti.

Ma l'innovazione principale dell'editto è la distinzione in classi e sottoclassi dei reperti antichi dei quali si programmava la tutela, specificando come fosse proibita l'esportazione da Roma di sculture in marmo, avorio e qualunque altra materia, ritraenti figure umane o animali, così come pitture, mosaici, vasi antichi, gemme, cammei medaglie e per non correre il rischio di lasciare fuori qualcosa dalle categorie tutelate “tutti quei lavori, o di grande o di

piccolo Modello, che sono conosciuti sotto il nome di Antichità, pubbliche o private, sacre o profane, niuna eccettuata,ancorché si trattasse di semplici frammenti”. Per evitare che l'esportazione di opere si effettuasse sotto il controllo

di figure eminenti della politica e della nobiltà romana tali da ritenersi al di sopra dei vincoli legali, come il più delle volte avveniva nella Roma dell'epoca, nell'editto si specificava come le direttive fossero da ritenersi estese a persone “di

qualunque privilegio fornite, e di qualunque dignità decorate”.

Nel chirografo Fea appare chiara la consapevolezza che l'abbondanza di esempi relativi alle arti antiche fosse una delle qualità distintive della città, e che la loro conservazione non solo avrebbe dato lustro alla Roma dei papi e ispirazione agli artisti, ma avrebbe anche avuto un immediato ritorno economico, vista l'inesauribile affluenza di forestieri attratti nella capitale del mondo antico per osservare i resti di un mondo che era modello estetico e morale delle fasce colte di tutta la società europea. Tuttavia vista la vastità dei territori della Chiesa. Le disposizioni del Chirografo erano difficilmente applicabili all'infuori di Roma, con l'editto Pacca del 182074 le linee generali del Chirografo Fea furono

sostanzialmente confermate con espliciti richiami e si esplicitò la volontà del governo dello Stato Pontificio di organizzare il sistema di tutela del patrimonio storico e artistico in maniera più stabile e ramificata nel territorio. Nell'editto Pacca il territorio dello stato veniva diviso in diciassette provincie più Roma, ognuna veniva affidata a un cardinale o a un delegato apostolico che aveva il compito di fornire commissioni ausiliare a quella di Roma, stabilendo che per le provincie di Bologna e di Perugia i componenti della commissione dovessero essere scelti tra i professori dell'Accademia di Belle Arti.

L'autorità suprema deputata alla giurisdizione su antichità e belle arti rimaneva il cardinale Camerlengo il quale poteva avvalersi delle consulenze di una “Commissione di Belle Arti”, alla quale appartenevano il commissario delle Antichità, l'ispettore delle Pitture pubbliche in Roma, il direttore del Museo Vaticano, del primo professore di scultura e un professore di architettura dell'Accademia di San Luca75, che era la voce ufficiale della Chiesa nel campo

74 Testo integrale dell'editto in A. Emiliani Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni

artistici e culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Bologna 1978, pp. 130-146.

75 L'accademia di San Luca, fondata nel 1593 come associazione di artisti presieduta dal pittore Federico Zuccari ben presto entrò nella sfera di controllo del papato, diventandone di fatto la voce in campo artistico, con l'obiettivo di formare nuovi artisti ma anche di mantenere il controllo artistico sotto il controllo dell'autorità pontificia.

delle arti.

Un secondo editto Pacca del 6 agosto 1821 disponeva la catalogazione di tutte le statue, le pitture e gli altri oggetti d'arte di Roma. Inoltre, cosa da cui si evince la formazione di una cultura del restauro e della conservazione non volta esclusivamente alla ricerca del bello, sanciva l'inalterabilità delle fasi più antiche dei monumenti, anche qualora queste fossero semi sepolte o inutilizzabili, stabilendo pesanti pene pecuniarie e anche detentive per chiunque avesse alterato la struttura di edifici antichi.

È di notevole importanza per lo spirito di ricerca del vero nella conservazione il passaggio dell'editto che specifica il divieto di restauro senza autorizzazione da parte della commissione poiché “questi ritocchi, o inopportuni

restauri, non accrescono giammai alle cose il minimo pregio, anzi alterandone l'antichità ne diminuiscono il prezzo reale non poco.” Era inoltre stabilito un forte

controllo da parte delle commissioni sugli scavi che si svolgevano sul territorio dello Stato della Chiesa, con l'esortazione alla documentazione più accurata possibile anche con la realizzazione di piante e disegni, nei quali “sarà sufficiente

che sia ben marcato, e disegnato ciò che esiste,senza prendersi la briga di supplire alla mancanza, mentre alle volte colle supposizioni si danno disegni più belli, ma non più veri”, emerge la consapevolezza della distruzione irreversibile

come effetto collaterale di qualsiasi scavo archeologico.

Lo Stato Vaticano aveva dunque un sistema di tutela dei beni artistici e archeologici molto avanzato per la media dell'Italia preunitaria e certamente tra i più avanzati del XIX secolo, e grazie al suo sistema di controllo decentralizzato e ramificato nel territorio fu applicato anche nelle provincie dello stato lontane da Roma, come negli scavi villanoviani, all'epoca interpretati come etruschi, intrapresi dal conte Gozzadini76 nei suoi possedimenti presso Bologna nel 1853, il

76 Giovanni Gozzadini (1810-1887) ultimo discendente della nobile casata Bolognese fu storico e archeologo, i suoi principali scavi con i quali scoprì la civiltà villanoviana ebbero luogo nei terreni di sua proprietà nella necropoli di Castenaso presso Bologna. Scavò anche nella necropoli etrusca di marzabotto ed effettuò accurati studi sulle torri medievali di Bologna. Nel 1846 organizzò nella sua casa un circolo politico letterario di ispirazione cattolico-liberale. Fu presidente della Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna. D. Vitali, La

quale si prodigò anche per la creazione di un Gabinetto archeologico bolognese.