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Fondamenti teorici

Apprendimento cooperativo e didattica inclusiva

4.2. Fondamenti teorici

Il Cooperative Learning, pur essendo una metodologia di tipo specificatamente didattico, si inserisce all’interno di un panorama culturale caratterizzato dal ripensamento di un paradigma di matrice individualistica, che ha costituito oggetto di riflessione di settori disciplinari di diverso tipo. Possiamo individuare sostanzialmente quattro ambiti, afferenti alle teorie dell’apprendimento (nello specifico quelle socio-costruttivisite), alla psicologia, alla pedagogia e alla filosofia193.

Per quanto riguarda il primo nucleo tematico, le teorie dell’apprendimento, l’idea che nell’apprendimento la dimensione relazionale assuma un ruolo significativo comincia a essere presa in considerazione in modo sistematico a partire dagli anni sessanta. Piaget (1964), ad esempio, pur non approfondendo direttamente tale questione, con la teoria del conflitto cognitivo sostiene che i bambini, nel momento in cui si confrontano con aspetti della realtà che non riescono a spiegare con gli schemi interpretativi dei quali dispongono e che quindi, in un certo senso, confliggono con quanto finora hanno appreso (processi di assimilazione/accomodamento), riescono a risolvere le discrepanze percepite attraverso il confronto e l’ascolto reciproco. Il contributo maggiormente significativo nell’elaborazione del Cooperative Learning, come espresso dagli stessi Johnson (1987), è tuttavia riconducibile a Vygotskij (1978):

questi, con la teoria della Zona di Sviluppo Prossimo, sostiene che il bambino riesce a superare il gap che esiste tra lo sviluppo attuale e potenziale grazie alla presenza di un altro significativo, che funge da stimolo e supporto e che in molti casi può essere dato proprio da un coetaneo più esperto. Secondo lo studioso russo, infatti, le competenze prima sono socializzate, cioè acquisite in seguito all’interazione con gli altri, per essere

193 Nella modalità della Complex Instruction ritroviamo in realtà anche l’influenza dalle teorie sociologiche, quali quelle relative alla stratificazione sociale e all’influenza dello status nelle relazioni tra gli studenti (Rosenthal & Jacobson, 1972).

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poi, solo in un secondo momento, interiorizzate e consolidate in modo definitivo. Una delle espressioni che meglio riassume questo pensiero è la sua affermazione «Ciò che l’alunno riesce a fare in cooperazione oggi, potrà farlo da solo domani. Pertanto, l’unica buona forma di istruzione è quella che anticipa lo sviluppo e lo conduce; essa non dovrebbe essere indirizzata tanto alle forme mature, quanto a quelle che stanno maturando»194.

Un contributo fondamentale è offerto inoltre da Bruner (1971, 1982, 1993), che pone al centro delle sue riflessioni il concetto di struttura: le strutture rappresentano dei modelli organizzativi attraverso i quali gli individui leggono e interpretano la realtà circostante e che si modificano e si arricchiscono attraverso il confronto e l’interazione reciproca. Così, ad esempio, ci sono persone che utilizzano prevalentemente una modalità di codifica che predilige l’azione (modalità prassico-manipolativa), mentre altre si servono invece soprattutto dei canali visivi (modalità iconica) o degli apparati simbolici (tra i quali il ruolo predominante è svolto dal linguaggio). Bruner (1997) introduce inoltre il concetto di Io narrativo: è attraverso il narrarsi che gli individui, nel tentativo di ricostruire la realtà, scoprono e ridefiniscono la propria soggettività, giungendo a negoziare con gli altri i significati fondamentali. Lo studioso, a tal fine, ribadisce che «L’apprendimento è, tra l’altro, un processo interattivo in cui le persone imparano una dall’altra, e non solo attraverso il narrare e il mostrare; è nella natura delle culture umane formare comunità in cui l’apprendimento è frutto di uno scambio reciproco»195.

Il richiamo allo strutturalismo di Bruner consente di ripercorrere, seppur brevemente, il contributo offerto dagli studi che hanno messo in discussione il concetto monolitico dell’intelligenza, parametro che ha condotto, soprattutto negli Stati Uniti, a pratiche di classificazione e, conseguentemente, di ghettizzazione degli allievi: ci riferiamo, in particolare, alla teoria delle intelligenze multiple di Gardner (1994, 2005, 2007), a quella dell’intelligenza tripartitica di Stenberg (1988) e, infine, alla teoria delle disposizioni della mente di Costa e Kallick (2007). La prima, maggiormente nota nel panorama scientifico e non solo, si basa sul principio secondo il quale esistono nove specifiche modalità, definite intelligenze, attraverso le quali ciascun individuo legge e interpreta la

194 Vygotskij, L. (1962). Pensiero e linguaggio. Firenze: Giunti. p. 104.

195 Bruner, J. (1997). La cultura dell’educazione. Milano: Feltrinelli. p.37.

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realtà circostante. Oltre a quelle considerate maggiormente nei curricoli scolastici (intelligenza linguistica e logico-matematica) esistono anche altri tipi di abilità delle quali le persone dispongono e che generalmente ricevono un’attenzione marginale da parte degli insegnanti. Pensiamo, ad esempio, all’intelligenza musicale, spaziale, corporeo cinestetica, che sono indice, in chi le possiede, di creatività e sensibilità. A queste si affiancano poi le intelligenze che riguardano la sfera relazionale, quali quella intrapersonale, che interviene nella comprensione di noi stessi e dei nostri bisogni e aspettative, e interpersonale, che consente a un individuo di instaurare relazioni significative con gli altri e di comprenderne il comportamento, le emozioni e le motivazioni. Ricordiamo infine l’intelligenza esistenziale, che riguarda «la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali concernenti l’esistenza e più in generale nell’attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali»196.

La seconda teoria menzionata è quella di Stenberg (1988), per il quale l’intelligenza si esprime attraverso tre modalità fondamentali: analitica (capacità di valutare ed esprimere confronti tra elementi tra loro diversi), creativa (capacità di affrontare con successo situazioni nuove per le quali le conoscenze e le abilità esistenti si mostrano inadeguate), e pratica, che riguarda invece la capacità di utilizzare strumenti, applicare procedure e porre in atto progetti.

Infine, un ultimo riferimento in questo ambito è dovuto a Costa e Kallick (2007), che nel dibattito riguardante la teoria delle disposizioni della mente (Perkins, Jay &

Tishman, 1993; Perkins, Thishman, Ritchart, Donis & Andrade, 2000), riconoscono la differenza esistente tra possedere una determinata abilità ed essere in grado di tradurla effettivamente in azioni concrete. L’ambiente assume allora un ruolo fondamentale nel consentire tale passaggio in quanto «Ci sono ragazzi e ragazze che possono essere intelligenti ma senza alcuna disposizione (come perseverare nella difficoltà o nella sconfitta) risultando superdotati demotivati e apatici o non precisi e accurati. Ci possono poi essere studenti poco intelligenti ma curati nella curiosità, nel controllo dell’impulsività, o nella ricerca dell’accuratezza che possono quindi sviluppare grandi capacità»197.

196 Bocci, F. (2015). Didattica speciale per l’inclusione. Brescia: La scuola. p. 109.

197 Comoglio, M. (2008). Il Cooperative Learning: le disposizioni della mente. In M. Bay. Cooperative Learning e scuola del XXI secolo: atti del convegno. Roma: LAS. p. 27.

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Ne consegue che, proprio perché esistono una pluralità di modi di comprendere il mondo, un contesto di apprendimento che consente agli individui di partecipare pienamente ai processi di apprendimento, confrontando i diversi modi di leggere e interpretare la realtà circostante, in un’ottica di co-costruzione della conoscenza, riesce ad attivare dei processi che risultano significativi per tutti coloro che vi sono coinvolti.

Questo raramente avviene nei percorsi formativi: sappiamo infatti dai dati di ricerca lo scarso riconoscimento attribuito alle capacità creative dell’individuo (Bocci, 2007, 2012) o a quelle sociali, che rappresentano il più delle volte delle finalità auspicabili ma difficilmente perseguibili attraverso prassi didattiche coerenti e strutturate (Portera, Albertini & Lamberti, 2015). In riferimento alla creatività, Ken Robinson (2010, 2015) sottolinea invece come l’istruzione formale abbia avuto come risultato il depotenziamento delle abilità creative dell’individuo.

In psicologia, oltre al contributo di Bandura e dei teorici dell’apprendimento sociale, approfonditi nel precedente capitolo, ricordiamo in particolare le prospettive di analisi formulate da Lewin (1961, 1967, 2011), riconosciuto il padre della psicologia sociale.

Attraverso la teoria del campo, quest’ultimo evidenzia l’esistenza di un’interconnessione profonda tra individuo e ambiente, che fa sì che il comportamento dell’individuo rappresenti la risultante di dinamiche inter-individuali. Da ciò ne consegue che il modo in cui è strutturato il contesto in cui ci muoviamo influenza noi stessi, dal punto di vista cognitivo, emotivo e comportamentale. Nell’ambito della psicologia sociale, una interpretazione analoga è quella offerta dall’approccio ecologico di Brofenbrenner (2002), che interpreta il comportamento dell’individuo come la risultante di più sistemi (definiti macro, eso, meso e micro) che interagiscono tra di loro descrivendo un sistema di cerchi concentrici. Colui che tuttavia influenzò in modo più diretto lo sviluppo dell’apprendimento cooperativo fu Deutsch, allievo di Lewin, che applicò i principi del maestro all’osservazione di gruppi di lavoro. Egli, partendo dall’osservazione che i gruppi cooperativi riuscivano con maggiori facilità ed efficienza a raggiungere i propri obiettivi, elaborò nel 1949 la teoria dell’interdipendenza, che individuava nella cooperazione e nell’interdipendenza positiva tra i membri di un gruppo i fattori predittivi del successo del gruppo stesso. L’elaborazione del concetto di interdipendenza costituì, come vedremo successivamente, il fulcro dell’apprendimento cooperativo, ponendosi come l’elemento discriminante rispetto al più generico lavoro di

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gruppo. Ulteriori contributi sono riconducibili inoltre a Rogers (1974; 1978), il quale ha evidenziato i tre elementi fondamentali che devono essere presenti all’interno di una relazione di aiuto: l’autenticità, l’accettazione incondizionata e, soprattutto, la comprensione empatica, che si riferisce alla «capacità del terapeuta di percepire con precisione i sentimenti e i significati personali sperimentati dal cliente e alla possibilità di comunicare questa comprensione»198. Secondo Rogers, tra insegnanti e studenti esiste una notevole differenza di status, che all’interno di una scuola tradizionale si traduce nella tendenza all’autoritarismo, nel disinteresse per la persona, considerata esclusivamente dal punto di vista intellettuale, e nello scarso rilievo assegnato alla pratica della democrazia. Al contrario, in una scuola centrata sulla persona, il concetto di disciplina è sostituito da quello di autodisciplina, la valutazione si trasforma essenzialmente in autovalutazione (che tuttavia richiede e si arricchisce anche di feedback esterni), mentre il programma acquisisce un ruolo subalterno rispetto all’apprendimento che, in questo modo, diviene «più profondo, procede più rapidamente e si estende nella vita e nel comportamento dello studente più di quanto faccia l’istruzione acquisita nella classe tradizionale»199.

Nell’ambito della pedagogia, i contributi maggiori sono pervenuti dalle teorie dall’attivismo pedagogico di Dewey e dalle Scuole Nuove, i cui temi fondamentali possono essere sintetizzati con il puerocentrismo, la valorizzazione del fare, la motivazione, la centralità dello studio di ambiente, la socializzazione, l’antiautoritarsimo e l’antintellettualismo, aspetti questi che hanno condotto alla svalutazione di programmi formativi oggettivamente determinati (Cambi, 2003).

L’opera di Dewey, in particolare, è significativa essenzialmente per due aspetti: il rilevo assegnato, in opere come Scuola e società (1949) o Democrazia e educazione (1949) della funzione sociale dell’apprendimento, e l’elaborazione di un metodo di insegnamento fondato sull’esperienza diretta degli allievi che, riuniti in piccoli gruppi, compiono delle vere e proprie attività di indagine e scoperta, seguendo fasi di lavoro precise: individuazione una situazione problematica, formulazione delle ipotesi di

198 Rogers, C. (1978). Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario. Roma:

Astrolabio. p. 2.

199 Rogers, C. (1978). Op. cit., p.72.

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risoluzione, attuazione delle operazioni finalizzate alla loro verifica, e infine, valutazione della validità delle ipotesi iniziali che conduce, in caso negativo, alla riformulazione di nuove alternative possibili. Come ulteriore fondamento del Cooperative Learning, possiamo inoltre ricordare, oltre agli autori citati precedentemente (Pestalozzi, Montessori), l’opera degli studiosi appartenenti alla pedagogia speciale che, nel ribadire la funzione positiva svolta dall’eterogeneità nei processi di insegnamento/apprendimento, hanno messo in atto pratiche e modelli che hanno evidenziato come la coeducazione di allievi con differenti livelli di abilità e competenze conduca al raggiungimento di risultati significativi per tutti, superando quindi la dicotomia tra speciale e normale (si veda, a tal fine, l’opera collettanea Storia della pedagogia speciale, a cura di Crispiani, 2016).

In relazione all’ultimo ambito da noi richiamato, la filosofia, è possibile ricordare alcuni autori che hanno messo in discussione una visione individualistica dell’uomo, prendendo nette distanze dal modello dell’homo homini lupus di Hobbes (1651) o dalla prospettiva nichilistica nietzschiana (1878;1885): ci riferiamo, in particolare, ai filosofi del dialogo (Martini, 1995) quali, ad esempio Buber (1993), secondo il quale l’essenza dell’io si configura come incontro e dialogo tra un io e un tu, in un rapporto dialettico tra identità e alterità, e Lévinas, che riconosce nel principio di responsabilità la

«struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività»200. Ricordiamo, infine, il personalismo comunitario di Mounier (1964) o la prospettiva fenomenologica/ermeneutica di Ricoeur (2011), che ha ripensato radicalmente le modalità, di stampo cartesiano, di considerare l’identità dell’individuo, concepita «non più in termini di autoposizione, ma di eterodeterminazione»201.

A questi contributi si aggiungono poi le prospettive del Capability Approach richiamate nel corso del primo capitolo.

200 Lévinas, E. (1982). Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo. Roma: Castelvecchi. p. 93.

201 Castiglioni, C. (2008). Il sé e l’altro. Il tema del riconoscimento in Paul Ricoeur, Esercizi Filosofici, 3.

p. 10.

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L’attenzione alle dinamiche che si originano all’interno di un gruppo ha trovato inoltre uno spazio anche nell’ambito della sociologia: ricordiamo a tal fine l’opera di De Masi sui gruppi creativi (2015), che ha analizzato le potenzialità innovative insite in gruppi di diverso tipo (la Casa Thonet al Bauhaus, l'Istituto Pasteur di Parigi, il gruppo di fisici di via Panisperna a Roma, ecc…).

La seguente tabella sintetizza i nessi tra la visione di fondo veicolata dal Cooperative Learning e i contributi teorici richiamati: Tab. 3: Framework teorico del Cooperative Learning

Il richiamo alla relazionalità e al senso di comunità effettuato dagli studiosi citati trova un corrispettivo, a livello concreto, nella diffusione di fenomeni sociali, come l’associazionismo giovanile e il volontariato (in aumento secondo il Rapporto Giovani 2014), che sembrerebbero discostarsi da una lettura della società considerata essenzialmente come liquida, ossia priva di valori (Bauman, 2002, 2006). Ne consegue che anche la scuola, in quanto agenzia educativa primaria, dovrebbe concorrere alla diffusione di queste nuove istanze, per evitare di porsi, attraverso la diffusione di modalità di lavoro di tipo individualistiche, in contraddizione con quanto emergente nella e dalla realtà sociale, rischio questo evidenziato anche da Kagan attraverso la seguente affermazione: «Se una cultura dà un valore notevole al lavoro cooperativo e la

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scuola sceglie di usare strutture competitive e individuali escludendo strutture cooperative, ci sarà un pasticcio tra valori familiari-culturali da un lato e valori della scuola-classe dall’altro. La scuola, senza volerlo, svaluta la cultura familiare e indebolisce l’identità dell’allievo»202.