• Non ci sono risultati.

1.2. L’approccio sociologico al tema delle generazioni

1.2.2. Generazioni e cambiamento

Alla luce della prospettiva teorica che abbiamo delineato, l’avvicendarsi delle generazioni si configura come un processo, segnato dall’esigenza di rimettere ogni volta in discussione il patrimonio culturale: in assenza di un ricambio generazionale, esso resterebbe imprigionato nell’esperienza del passato e della memoria. Nell’approccio di Mannheim le generazioni sono dunque considerate, insieme, come effetto e come causa del cambiamento:

l’emergere di uomini nuovi comporta […] la necessità inconsapevole di una nuova selezione, di una revisione nel campo del presente, ci insegna a dimenticare ciò di cui non abbiamo più bisogno, a desiderare ciò che non è stato ancora ottenuto (Mannheim, 1928; trad.it. 2000, p. 261).

Mannheim parte dall’idea che il mutamento storico-sociale, per sua natura discontinuo, produca effetti differenziati a seconda della fase nel corso della vita in cui si trova l’individuo. Particolare rilevanza riveste la fase, corrispondente alla tarda adolescenza e alla giovinezza, grosso modo tra i 17 e i 25 anni, in cui i soggetti conquistano progressivamente la propria autonomia, affacciandosi alla scena pubblica e

27

svincolandosi dallo schermo protettivo della famiglia. È in tale contesto, caratterizzato da una forte ricettività, che si formano i valori, le opinioni e gli atteggiamenti relativi alla sfera politica e sociale: l’influenza esercitata dalle tradizionali agenzie di socializzazione viene attenuata e sostituita dall’esperienza diretta degli eventi chiave del momento. Attraverso l’elaborazione di questi eventi si forma quindi «una sorta di memoria collettiva generazionale, fatta di credenze, convinzioni, simboli, miti, attribuzioni di senso» (Cavalli, 1994), che mantiene i suoi tratti fondamentali anche con il progredire dell’età. Ogni nuova generazione si forma dunque negli anni della tarda adolescenza e della giovinezza,

dove esiste una vita nuova, le forze plasmanti sono appena in divenire e le intenzioni fondamentali possono ancora accogliere in sé la forza determinante delle nuove situazioni. Una stirpe umana che vivesse nell’eternità dovrebbe imparare a dimenticare, per compensare la mancanza di nuove generazioni (Mannheim, 1928; trad.it. 2000, p. 263).

Mannheim ritiene infatti che la coscienza individuale sia costituita da strati sovrapposti, nel più profondo dei quali sono impresse le prime esperienze vissute negli anni della giovinezza: queste prime impressioni «hanno la tendenza a fissarsi come concezione naturale del mondo» (Mannheim, 1928; trad.it. 2000, p. 265) e costituiscono il quadro di riferimento in base al quale “si articolano dialetticamente” tutte le esperienze successive, senza sommarsi o agglomerarsi l’una all’altra, ma piuttosto trovando la propria forma e collocazione determinata in base all’orientamento derivante dalle prime esperienze (ibidem). Ciò significa, per usare i termini della psicologia cognitiva, che nell’adulto e nell’anziano le strutture cognitive diventano sempre più consolidate, ma anche meno ricettive nei confronti di esperienze e informazioni che rischierebbero di metterne in discussione l’integrità. Ne consegue che tali soggetti tendono a recepire soltanto ciò che conferma e consolida credenze e convinzioni già acquisite (Cavalli, 1994). Il risultato è che giovani e adulti vivono in modo completamente diverso il rapporto con la contemporaneità e con il presente. Gli adulti lo affrontano a partire dalle esperienze che si sono precedentemente “stratificate” nella coscienza, dunque mettendolo in relazione con vissuti e modelli di riferimento le cui tracce si sono consolidate nel corso del tempo. Per i giovani, invece, quel presente costituisce «la base a partire dalla quale affronteranno il futuro, il riferimento entro cui si definirà la successiva configurazione dei contenuti di coscienza» (Merico, 2009, p. 13):

28

L’essere fino in fondo nel presente della gioventù significa pertanto essere più vicini ai problemi del presente […], vivere come antitesi primaria proprio ciò che non è più stabile, tradizionale, e legarsi gli uni agli altri proprio in questa lotta, mentre la vecchia generazione si irrigidisce in quello che nella sua gioventù era un nuovo orientamento (Mannheim, 1928; trad.it. 2000, p. 267).

In questo percorso assume un ruolo centrale la mancanza di esperienza che caratterizza il vissuto giovanile. Il fatto che i giovani non abbiano ancora assunto come dato l’ordine sociale assimila la loro condizione a quella dell’outsider (Merico, 2012, p. 120), con tutte le ambivalenze che caratterizzano questa figura: mobilità e stabilità, prossimità e distanza. Come lo straniero, aggiungerebbe Simmel (1908), l’outsider è in una posizione eccentrica rispetto al gruppo sociale in cui cerca di inserirsi, ma rappresenta al tempo stesso il punto di contatto tra culture differenti: egli è dunque in grado di innescare processi di cambiamento culturale all’interno di un contesto che altrimenti resterebbe immobile. Ne consegue che il ruolo di gatekeeper, di “portieri” o “secanti marginali” del cambiamento, può essere svolto da soggetti che operano in posizioni di cerniera, marginali e periferiche, al di fuori degli schemi consueti, ma che proprio per questo consentono l’accesso ad uno sguardo obliquo, laterale, e dunque una più chiara consapevolezza delle faglie capaci di tradurre in atto le potenzialità insite in una medesima collocazione generazionale. Come nota Mannheim,

Capita spesso che singoli individui appartenenti alla generazione precedente ed in essa ancora isolati (precursori) sviluppino in sé ed elaborino durante la loro vita il germe essenziale di nuovi aspetti della generazione successiva (Mannheim, 1928; trad.it. 2000, p. 275).

La consapevolezza di far parte di una generazione può dunque trascendere i limiti puramente biologici e anagrafici segnati dalla data di nascita: «determinati impulsi di una generazione sono in grado di comprendere, in situazioni favorevoli, individui appartenenti a generazioni precedenti o posteriori» (ibidem). Può anzi accadere che generazioni che non riescono a dare forma compiuta (entelechia) alle potenzialità insite nella propria collocazione si uniscano «ad una generazione precedente che abbia già realizzato una forma soddisfacente, o ad una generazione successiva che sia capace di anticiparla» (op.cit., p. 277).Non è dunque possibile definire a priori l’ampiezza di una generazione. Meglio ancora: al semplice dato biologico dell’avvicendarsi delle generazioni non corrisponde necessariamente «un ritmo parallelo di nuove tendenze e principi formativi» (Mannheim, 1928; trad.it. 2000, pp. 277-78), per cui non tutte le generazioni riescono a sviluppare un’identità propria, un nuovo stile, che rappresenti

29

una discontinuità netta rispetto al passato. La realizzazione delle potenzialità intrinseche alla collocazione generazionale «dipende da fattori extrabiologici, cioè innanzitutto dalla caratteristica di volta in volta particolare della dinamica sociale» (op.cit., p. 278): tale processo non si verifica ad esempio in comunità molto stabili e sottoposte a trasformazioni molto lente, ma va incontro a grosse difficoltà anche nei contesti caratterizzati da una velocità eccessiva, per cui le reazioni dei diversi gruppi di età si susseguono l’una all’altra, senza mai raggiungere una forma chiaramente delineata.

In ogni caso, non si tratta di un percorso scontato, teleologicamente orientato come il passaggio dalla potenza all’atto nel pensiero aristotelico. Il cambiamento non segue insomma una direzione predeterminata, individuabile a priori, tracciabile a tavolino, ma si definisce come risultato di una dinamica complessa, nella quale biologia e storia, biografie individuali e processi sociali, si confrontano e si intrecciano continuamente: ne consegue che «il mutamento storico-sociale produce il fenomeno delle generazioni» ma è poi, a sua volta, «reso possibile dal metabolismo generazionale» (Cavalli, 1994, p. 239).