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Net Generation, Nativi digitali: definizioni problematiche

1.4. Gruppi generazionali: Maturi, Boomers, Generazione X

1.4.2. Net Generation, Nativi digitali: definizioni problematiche

L’idea di una “Net Generation” prende corpo, da un lato, nell’ambito del marketing e delle discipline manageriali, spinta dall’esigenza di trovare nuove basi su cui modulare le strategie di posizionamento adottate dalle imprese. Tapscott (1998; 2009) in particolare sottolinea come i giovani dell’ultima generazione siano i primi ad essere cresciuti completamente immersi in un ambiente digitale: una situazione che li mette in condizione di esprimere nuove competenze, creare nuovi stili di comunicazione, definire nuovi percorsi di apprendimento, elaborare nuove forme di azione politica, fino a trasformare il web, da semplice deposito di informazioni, in ambiente collaborativo, ove si pratica «una nuova etica, basata sull’apertura, sulla partecipazione e sull’interattività» (Tapscott e Williams, 2006), palcoscenico ideale per lo sviluppo di una nuova economia, basata sull’open source e sulla peer production.

Dall’altro lato, l’idea di una generazione di “Nativi digitali” (Prensky, 2001a; Id., 2001b; Palfray e Grasser, 2008) trova fertile terreno nell’ambito del discorso educativo, con una concettualizzazione che pone l’accento sulle trasformazioni indotte nei modelli di apprendimento dallo sviluppo delle nuove tecnologie: i giovani di oggi - parlanti “nativi” dei linguaggi digitali - sono abituati a ricevere informazioni alla massima velocità, capaci di gestire più processi in parallelo, orientati a muoversi secondo un’ottica multitasking. Amano tenersi sempre in contatto tramite la rete, alla quale accedono in maniera casuale, andando alla ricerca di gratificazioni istantanee e di ricompense frequenti. Le etichette coniate da Prensky vengono successivamente adottate anche nell’ambito del marketing, per interpretare su nuove basi i vecchi target generazionali: così i Boomers vengono identificati come “immigrati digitali”, gli

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appartenenti alla Generazione X come “adattivi”, gli appartenenti alle Generazione Y come “nativi”.

Queste formulazioni rischiano tuttavia di sfociare in una «retorica dell’innovazione tecnologica» (Aroldi, 2011), che sottende una visione meccanicistica del processo di formazione dell’identità generazionale, nel quale sembrano avere un ruolo quasi esclusivo le spinte e le sollecitazioni provenienti dall’esterno: in particolare, un ruolo di primo piano viene riconosciuto alla radicale discontinuità introdotta nei modelli cognitivi con il passaggio dall’analogico al digitale e con la disseminazione delle nuove tecnologie in tutti gli ambiti della vita quotidiana. In questa prospettiva, la tecnologia sembra essere un elemento neutrale, in grado di determinare autonomamente il cambiamento, a prescindere da ogni considerazione per le forze sociali, politiche ed economiche che entrano in gioco e da ogni attenzione per le concrete esperienze di consumo (Buckingham e Willet, 2006; Aroldi, 2011).

In definitiva, questi approcci trascurano la dimensione soggettiva e le forze endogene che operano all’interno di una medesima generazione (Aroldi, 2011). In una parola, non prendono in considerazione l’aspetto dell’autoconsapevolezza: come nota Corsten (1999), una generazione riconosce se stessa come tale, quando è in grado di produrre un insieme di significati (una “semantica generazionale”), ossia una collezione di temi, di modelli interpretativi, di principi di valutazione e di dispositivi linguistici, attraverso i quali l’esperienza condivisa viene trasformata in discorso nelle forme dell’interazione quotidiana. Non è dunque sufficiente la presenza di un background di esperienze condivise, per parlare di “generazione”: è indispensabile che si introduca un elemento di auto-riflessività, un comune we sense, riconducibile alla consapevolezza che anche gli altri membri della stessa generazione condividono il medesimo background. Insomma, quanti si riconoscono nella medesima generazione «non hanno soltanto qualcosa in comune, hanno un “senso comune”, nel duplice significato di condiviso e di dato per scontato» (Corsten, 1999). Per quanto l’identità sia sempre negoziata attraverso il confronto tra le rappresentazioni che le diverse generazioni danno di se stesse, i criteri di appartenenza ad una generazione – in definitiva – vengono stabiliti dai suoi stessi membri (Corsten, 1999). La generazione identifica dunque una coorte di età «che giunge ad avere rilevanza sociale, grazie al fatto che costituisce se stessa come identità culturale» (Edmunds e Turner, 2002).

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In base a questa definizione, le generazioni costituiscono «forme non rigide di appartenenza collettiva» (Aroldi, 2012, p. 49), dotate di un carattere elastico e multidimensionale: non solo è possibile che le medesime esperienze vengano elaborate in maniera diversa da gruppi differenti di consumatori, dando vita nello stesso momento a una pluralità di “unità generazionali” dissimili tra loro, ma sono anche ipotizzabili configurazioni fluide del tipo centro-periferia, con un nucleo a forte identità e aree esterne a identità debole ovvero situazioni in cui l’appartenenza generazionale include una componente elettiva, legata a una scelta personale, che travalica i limiti biografici e cronologici, come avviene per i soggetti che si sintonizzano con una generazione diversa dalla propria (ibidem).

In ogni caso, se non si tiene presente questa componente di autoconsapevolezza, si corre il rischio di ridurre il concetto di “generazione digitale” a una semplice etichetta (Hartmann, 2003), a una lente utilizzata dagli adulti per interpretare le norme di un gruppo culturale diverso dal proprio: un fenomeno nel quale è implicita una forma di “miopia generazionale” (Smith e Clurman, 1997).

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Cap. 2. Nuovi media e processo di “domesticazione”

Media è il plurale della parola latina medium, termine a cui viene solitamente attribuito il significato di “mezzo”, di “strumento”. La forma plurale latina media è stata assorbita all’interno della lingua inglese, preceduta in genere dal termine mass. L’espressione mass media è successivamente entrata anche nel vocabolario della lingua italiana, ad indicare i mezzi di comunicazione di massa. Più in generale, si può parlare di una comunicazione mediata, in tutti i casi in cui questa sia condotta con l’ausilio di artefatti tecnologici più o meno sofisticati (Paccagnella, 20102, pp. 79-80).

Questa prima definizione rende tuttavia necessarie alcune precisazioni, data l’ambiguità che connota nel linguaggio quotidiano i termini che designano i diversi media. Ad esempio, “televisione” viene utilizzato di volta in volta per indicare un apparecchio di ricezione (es.: la televisione inserita nel salotto di casa), l’ente che produce e trasmette uno o più canali televisivi, le persone che compongono la redazione di un programma televisivo, un insieme di tecnologie di trasmissione e di ricezione, il contenuto editoriale effettivamente trasmesso. È dunque opportuno distinguere tra «media intesi come tecnologie e media intesi come forme di comunicazione, cioè come insiemi di regole, convenzioni e forme organizzative – culturalmente, socialmente e storicamente determinate – che le persone seguono quando comunicano utilizzando le tecnologie» (Cosenza, 2009). In base a questa distinzione, non ha senso parlare del web come di un medium unico e generale, in quanto è possibile distinguere diversi generi di siti (siti aziendali, blog, testate giornalistiche, ecc.) e diversi tipi di azioni che si possono effettuare all’interno di questo ambiente: chattare, consultare un’enciclopedia, fare acquisti, ecc. Sono dunque molteplici gli usi del web e ciascuno di questi rappresenta una forma di comunicazione particolare, riferita a specifici contesti sociali, culturali, economici, in cui si producono testi basati su codici diversi (ibidem). Possiamo dunque definire i media come

strutture di comunicazione socialmente condizionate, dove il termine “struttura” include sia le forme tecnologiche, sia i protocolli a queste associate, e dove la comunicazione è intesa come una pratica culturale, una collocazione rituale di persone diverse sulla medesima mappa mentale (Gitelman, 2006, p. 7).

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Lisa Gitelman intende per “protocolli” una varietà di relazioni materiali, economiche e sociali, che trasformano in fenomeno culturale un semplice sistema tecnologico: in questo senso, una telefonata include certamente i fili che consentono la connessione, ma anche la bolletta mensile, le formule di saluto e altri segni che attestano il possesso di una competenza comunicativa. Per essere ancora più precisi, vale la pena richiamare la distinzione proposta da Jenkins (2006; trad.it. 2007, p. XXXVII) tra medium e sistema di delivery: quest’ultimo è una tecnologia che permette di comunicare, mentre il primo è un insieme di protocolli e di pratiche sociali e culturali che sono cresciute attorno a quella tecnologia. Ne consegue che il suono registrato è un medium, mentre dischi in vinile, nastri magnetici, cassette, CD, file mp3 sono tecnologie. Mentre le tecnologie diventano obsolete e vengono continuamente rimpiazzate, i media non sono necessariamente condannati all’estinzione: come nota Jenkins,

una volta che il medium soddisfa una domanda fondamentale per qualche essere umano, continua ad assolvere la sua funzione all’interno di un sistema di opzioni più ampio […] La parola stampata non ha soppiantato quella orale, il cinema non ha ucciso il teatro, la tv non ha ucciso la radio (ibidem). Piuttosto, ogni nuovo medium ha bisogno, per essere compreso e utilizzato, di appoggiarsi alle regole dei media che l’hanno preceduto, trasformandole e ricombinandole in maniera originale. È il fenomeno della “rimediazione” (Bolter e Grusin, 1999): come il cinema ha mediato la fotografia, così la televisione ha ri-mediato sia il cinema che la radio. Oggi internet ri-media la televisione, il telefono, il servizio postale, la radio e altri media ancora.

Queste considerazioni inducono ad utilizzare maggiori cautele rispetto all’entusiasmo unilaterale di chi saluta come “nuovo” tutto ciò che si presenta avvolto nelle vesti dorate del cambiamento tecnologico. Fenachistoscopio, dinamofono, fonografo a cera di Edison, stereopticon, ma anche – in tempi più recenti – 8-tracce, Beta-tape e VHS: la lista delle tecnologie che hanno calpestato il ventesimo secolo, prima di incagliarsi come relitti di fronte all’onda avanzante di una soluzione più evoluta è davvero stupefacente1. Altrettanto insensato appare però anche l’atteggiamento opposto, segnato dalla chiusura aprioristica nei confronti di tutto ciò

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Informazioni tratte dal sito del Dead Media Project, avviato dallo scrittore di fantascienza Bruce Sterling e dedicato ai media, omai “estinti”, che hanno calcato lo scenario del ventesimo secolo, senza riuscire ad adattarsi all’evoluzione dell’ambiente tecnologico: http://www.deadmedia.org

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che non è immediatamente riconducibile a schemi rassicuranti e già consolidati. Anche l’introduzione del telefono fisso nella vita quotidiana, più di un secolo fa, venne accompagnata da critiche e sospetti di ogni genere, in quanto si presumeva che, attraverso la cornetta, chiunque avrebbe potuto impunemente dichiarare qualsiasi cosa al proprio interlocutore: non a caso, il termine “phoney”, utilizzato nella lingua inglese nel significato di finto e di fasullo, deriva proprio da “phone”, telefono (Fischer, 1992).

È dunque opportuno considerare anche i processi di socializzazione e di incorporazione dei media e delle tecnologie, per evitare di separarli dalla vita quotidiana delle persone: il rischio di molta retorica attorno a questi temi è infatti quello di proporre una visione assoluta, monodimensionale e radicalmente intenzionale della soggettività, totalmente astratta e decontestualizzata (Pasquali, 2003, pp. 115-16).