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“L’essenza delle migrazioni transnazionali è che l’assenza fisica sia compatibile con una presenza sociale e con la partecipazione. Ciò accade anche nel caso dei genitori migranti” (Carling, Menjivar & Schmalzbauer 2012, p. 192).

In questo paragrafo verranno introdotti i tratti distintivi della genitorialità transnazionale, poi ripresi nel secondo capitolo (par 2.3) dove, dopo aver presentato le protagoniste dei flussi migratori di nostro interesse, si entrerà nel merito delle modalità con le quali le “madri- lavoratrici” si prendono cura dei propri figli da lontano.

Prima di trattare il tema della genitorialità a distanza, tuttavia, risulta necessario fornire alcune coordinate rispetto all’approccio transnazionale. Il transnazionalismo è un approccio relativamente recente che nasce nell’ambito degli studi antropologici all’inizio degli anni Novanta36, dove al centro di tale approccio troviamo un nuovo modo di guardare al fenomeno migratorio. Quest’ultimo cessa di essere considerato un processo definitivo in cui una persona lascia per sempre il suo Paese, per assumere contorni più sfumati e meno definiti. Viene superata la rigida classificazione dicotomica emigrato/immigrato, in auge fino a quel momento, per riconoscere piuttosto l’investimento e la circolarità di scambi, movimenti e comunicazioni messi in atto dal migrante (o transmigrante) grazie alle quali «si costruiscono campi sociali che legano insieme il Paese di origine e quello di insediamento (Ambrosini, 2007, p. 43). I cosiddetti “transmigranti”, quindi, si caratterizzano per una partecipazione simultanea ad entrambi i poli del processo migratorio e per un forte pendolarismo tra Paese di origine e di approdo. Questi processi vengono generalmente letti come conseguenza di una più ampia trasformazione economico-sociale, sarebbero frutto anch’essi della globalizzazione, dei voli low-cost e della comunicazione digitale. Allo stesso tempo, il transnazionalismo e il mantenimento delle reti viene interpretato da Glick-Schiller, Basch & Szanton Blanc (1995) come una strategia di resistenza nei confronti dell’insicurezza economica, lavorativa e sociale (taglio del sistema di welfare) che ha caratterizzato di recente anche i contesti d’approdo, generata da un’economia dai tratti sempre più neoliberisti. Per le donne migranti, protagoniste della presente ricerca, come verrà approfondito nel prossimo capitolo, il transnazionalismo si presenta in primis come una strategia temporanea di massimizzazione dei risparmi.

36 Le prime studiose ad occuparsi di questo tema sono le antropologhe Glick Schiller et. al, 1992; Basch et. al., 1994.

All’interno di questa prospettiva una discreta attenzione è stata rivolta anche a quei nuclei familiari che vivono separati in due paesi diversi. «Alla base di qualsiasi tipo di istituzione transnazionale vi sarebbe la famiglia – ricorda Banfi (2009, p. 195-196) – le relazioni e gli obblighi che legano i membri della famiglia ai due poli della migrazione sono considerati il primo tassello delle pratiche transnazionali quotidiane». La famiglia transnazionale, concetto introdotto dal lavoro pioneristico di Bryceson e Vuerela (2002) viene descritta dalle due antropologhe come un nucleo familiare dove centrale nonostante la distanza vi è un sentimento di unità e reciprocità descritto dal termine “familyhood”:

«that lives some or most of the time separated from each other, yet hold together and create something that can be see as a feeling of collective welfare and unity, namely “familyhood”, even across natural borders» (Ibidem, p. 3).

Guarnizo, Portes e Haller (2003, p. 1213) descrivono i componenti di tali nuclei come coloro che, vivendo separati in due paesi diversi, «maintain steady relations with each other (i.e providing economic, social, and emotional support and keeping family relations, loyalties, and co-obligations alive) across borders».

L’esperienza della vita a distanza generalmente rappresenta per le famiglie transnazionali solo una fase, anche se talvolta può protrarsi per anni. Ambrosini, Boccagni e Caneva (2010) individuano, infatti, tre diverse fasi: la famiglia originale, la famiglia a distanza e infine la famiglia ricongiunta. Nel caso dei ricongiungimenti questi possono avvenire tanto presso il Paese d’origine, quanto presso i contesti d’approdo. La terza fase lungi dall’essere un “lieto fine” quasi sempre rappresenta una tappa altrettanto delicata e problematica (Tognetti Bordogna, 2004). I ricongiungimenti familiari dei figli, come vedremo, rappresentano, infatti, un fronte importante per il sostegno alla genitorialità.

All’interno della concettualizzazione fornita sulle famiglie transnazionali, i genitori, ma poi vedremo che sono soprattutto le madri, che vivono lontani dalla propria famiglia, fungono da sostegno economico ai propri familiari rimasti nel Paese d’origine, senza però rinunciare a ricoprire anche le funzioni di cura e di sostegno emotivo a distanza; in questo senso si può parlare di genitorialità a distanza. Padri e madri transnazionali non sono i soli, tuttavia, a vivere l’esperienza della genitorialità a distanza, che riguarda invece molte altre categorie di genitori37,

37 Digitando “long distance parenting” sul motore di ricerca “Google” compaiono 140.000 risultati. Il primo risultato è una comunità di genitori a distanza (http://distanceparent.org/) che mette a disposizione un blog dove condividere la propria esperienza, così come kit e risorse di vario tipo (letture, ecc) per affrontare la genitorialità a distanza.

si pensi ad esempio a chi è costretto a lavorare lontano da casa, un fenomeno che appare molto diffuso in Australia (Dittman, Henriquez & Roxburgh, 2016), ai molti genitori che vivono in carcere (DeBoard, Head & Sherill, 2004), ancora ai genitori a cui sono stati allontanati momentaneamente i figli, affidati ad altre famiglie o a comunità educative (Emiliani & Palareti, 2007), infine alle coppie separate e divorziate. Come sottolineano Baldassar e colleghe (2007) la genitorialità transnazionale, tuttavia, si differenzia per alcune peculiarità dalla genitorialità a distanza esercitata all’interno dello stesso Paese. Si può infatti distinguere il caregiving di tipo transnazionale e uno di tipo “dislocato” (“translocal”), esercitato cioè a distanza ma entro i confini nazionali, questo perché, secondo le autrici, il risiedere al di là dei confini nazionali comporta per chi emigra una serie di barriere ulteriori che possono ostacolare notevolmente l’esercizio della cura. Le barriere sono prevalentemente di tipo normativo ed istituzionale e fanno riferimento ad esempio alle politiche migratorie, al possesso o meno di documenti per muoversi attraverso i confini, ai costi per i mezzi di trasporto.

A livello mondiale, tanto la genitorialità a distanza quanto quella transnazionale, non sono fenomeni nuovi né tantomeno recenti; nel primo caso Lutz (2016a) suggerisce di pensare alle molte balie e serve a cui non era consentito il doppio ruolo di madri e lavoratrici. Nel secondo caso invece si può fare riferimento alle isole dei Caraibi (Olwig, 1998) o ai paesi dell’Africa Subsahariana (Izzard, 1985) dove le storie migratorie circolari, caratterizzate cioè da frequenti rientri a casa, sono antiche così come risultano consolidate le pratiche di affido dei propri figli alla famiglia allargata. La crescente attenzione rivolta dagli studiosi al transnazionalismo deriva allora in gran parte dalle dimensioni assunte in tempi recenti dal fenomeno, dalla pervasività che lo caratterizza e dal genere di chi migra (Kofman e Raghuram; 2012), dal coinvolgimento cioè di un numero massiccio di madri migranti. Da un rapido sguardo alla letteratura, risulta evidente come si tratti di un fenomeno fortemente diffuso a livello mondiale. Tra i flussi migratori studiati in letteratura troviamo, infatti, paesi appartenenti a tutti i continenti, quali ad esempio: le Filippine (Parreñas, 2001, 2005), la Cina, il Messico (Hondagneu-Sotelo & Avila, 1998; Dreby, 2005); l’Ecuador (Lagomarsino, 2009; Boccagni, 2009) il Senegal (Gasparotti & Hannaford, 2009); l’Europa postsocialista (Polonia, Ucraina, Romania, Moldova ecc). (Castagnone et.al, 2007; Vianello, 2009; Torre, Boccagni, Banfi et.al., 2009). L’esistenza di differenziali salariali ha fatto sì che la maggioranza degli spostamenti sia diretta verso i paesi cosiddetti occidentali, ma non sono da trascurare anche i flussi migratori interni alle aree regionali d’emigrazione, o lungo le direttrici migratorie “Sud-Sud” (Kofman & Raghuram, 2012); ad esempio nel caso dell’Europa postsocialista è considerevole la migrazione femminile da Ucraina a Polonia.

La genitorialità transnazionale, come già in parte introdotto, assume un significato particolare quando è la madre ad emigrare. Se la migrazione verso l’estero per le figure maschili e padri di famiglia risulta in buona parte in continuità con la funzione sociale che vedrebbe gli uomini votati a provvedere economicamente alla propria famiglia, per le donne non è così. Le madri migranti che lasciano i propri figli nei paesi d’origine violano un modello di maternità egemone nel “mondo occidentale” dove è la madre biologica a doversi prendere cura personalmente dei propri figli. La separazione fisica sembra, quindi, stravolge le tradizionali concezioni di maternità, mettendo in discussione un modello legittimato e largamente condiviso che fa delle madri le figure di cura principali (Hondagneu-Sotelo e Avila 1997; Ambrosini, Boccagni, 2007; Lutz, 2010, 2016a; Formenti, 2000).

Nel caso delle famiglie transnazionali, invece, viene attivato un complesso sistema di delega nell’accudimento, cui sono protagoniste in genere le figure femminili della famiglia allargata e ‒ anche se in misura minore ‒ i mariti. L’affidamento dei figli a caregiver sostitutivi della madre biologica è un evento che rompe con forza con la centralità della figura materna presente nel suddetto modello culturale “occidentale” che risulta profondamente radicato. Le madri migranti di conseguenza vengono generalmente stigmatizzate per questa scelta migratoria anche se allo stesso tempo - a differenza delle figure paterne – tendenzialmente continuano a ricoprire un ruolo affettivo ed educativo anche a distanza (Hondagneu-Sotelo e Avila 1997, Parreñas, 2001; Bonizzoni, 2009; Bezzi, 2013), adempiendo al difficile compito della genitorialità a distanza. Come sottolinea Vinciguerra (2013, pp. 31-32), tuttavia, le pratiche di caring a distanza possono solo integrare una delega nell’affidamento dei propri figli:

«nelle dinamiche di scambio di queste famiglie la dimensione geografica diventa quindi un elemento di estrema rilevanza; evidentemente tale dimensione va problematizzata perché non tutte le forme di aiuto e di supporto (l’assistenza, l’accudimento, l’cura) possono essere esercitate a distanza, al contrario diventano impraticabili e comportano inevitabilmente richieste di delega».

Le partenze femminili, infine, hanno permesso di riconoscere più facilmente la dimensione familiare implicita nei progetti migratori, prospettiva assunta dal presente lavoro di ricerca, che per decenni è stata trascurata dagli studi che hanno affrontato le migrazioni economiche maschili.