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1.2 Verso la fine dei ruoli tradizionali? Uno sguardo d’insieme alla situazione italiana

1.2.2 Specifiche funzioni educative materne?

Nel seguente paragrafo si proveranno a individuare e delineare le specifiche funzioni educative materne, laddove esistenti. Un siffatto esercizio risulta infatti di grande interesse per l’analisi dell’oggetto di indagine del presente lavoro, vale a dire la genitorialità esercitata a distanza e messa in atto in modo particolare dalle madri migranti.

La letteratura presa in esame mostra una certa tendenza all’indifferenziazione tra funzioni materne e paterne, in altri termini quello che viene rilevato dai dati empirici è la constatazione del permanere di una certa disparità nella suddivisione dei compiti di cura (in calo) e domestici (costante), che ricade tuttora gran parte sulle figure femminili. Non emerge quindi una specificità di ruolo e di funzioni educative che a priori spetterebbero alle madri, mentre a posteriori - come già messo in luce ampiamente dai paragrafi precedenti - viene messo in

19 L’asimmetria di genere migliora al Nord e al Centro, mentre rimane invariata nel Mezzogiorno con un valore del 74%, afferma l’Istat che al Sud: «gli stereotipi sono ancora forti anche nelle nuove generazioni» (2016, p. 11).

evidenza un maggior coinvolgimento e partecipazione materna alla cura e educazione dei figli che porta con sé un conseguente sviluppo di capacità e acquisizione di competenze da parte delle figure materne. Prima di entrare nel merito dei risultati empirici appare importante operare una distinzione concettuale tra le sfere o gli ambiti del “paterno” e del “materno” - intesi come panorami di riferimento generale cui sono legati le dimensioni, i valori e gli atteggiamenti che tradizionalmente venivano incarnate dai padri e dalle madri, oggi invece slegati dal genere delle figure genitoriali - e i ruoli genitoriali ricoperti dai padri e dalle madri. Attualmente le sfere del materno (dimensione affettiva) e del paterno (dimensione normativa e socializzazione esterna20) non appaiono più legate in modo indissolubile ai ruoli sessuali - si pensi ad esempio all’esercizio delle funzioni genitoriali all’interno delle famiglie mono o omoparentali - vengono bensì modulate e negoziate in modo variabile all’interno della coppia genitoriale (o anche esercitate dal singolo genitore quando solo). Si tratta di una distinzione necessaria per provare a comprendere il punto di vista degli studi pedagogici sulla suddivisione delle funzioni di cura a livello genitoriale e sul rischio, da alcuni paventato, di indifferenziazione educativa che ne può derivare.

Gli studi odierni mettono in luce come, in termini generali, la visione che prevedeva una completa sovrapposizione tra funzioni educative e genere dei genitori - che quindi incaricava le madri della totalità delle cure nei confronti dei figli - è pressoché superata, anche se, come già osservato, permangono grandi differenze all’interno del Paese, specialmente tra il Nord e il Sud ma anche tra fasce di reddito (Istat, 2016). Nella ricerca condotta da Gigli (2010), ad esempio, al quesito relativo all’esistenza o meno di una specificità di compiti e funzioni legati al genere21,

la quasi totalità dei genitori (madri e padri) intervistati risponde in modo negativo, dimostrando così di aver superato - perlomeno a livello teorico - quella rigida suddivisione di ruoli che ha contraddistinto le famiglie per decenni. La reale condivisione tra generi delle mansioni di cura e domestiche, tuttavia, lungi dall’essere un traguardo compiuto, è ancora in corso d’opera. È riscontrabile un cambiamento in atto che, rompendo i rigidi schemi tradizionali, produce una

20 «Nella concezione tradizionale la paternità aveva una funzione normativa e affettivamente neutrale: il padre doveva aiutare i figli a diventare adulti socialmente responsabili, assicurandone l’inclusione sociale esterna. La funzione paterna si delineava come un ruolo di “confine” tra famiglia e società. La madre aveva invece il compito di curare l’area dell’affettività familiare, non intervenendo tanto nella socializzazione esterna dei figli, ma piuttosto occupandosi di sostenerli “dall’interno” nel superare le difficoltà derivanti dalla conquista dell’inclusione nel mondo sociale» (Gigli 2007a, p.75).

21 «Secondo te nella cura/educazione dei figli, esistono compiti di cui dovrebbe occuparsi esclusivamente la madre? Secondo te nella cura/educazione dei figli, esistono compiti di cui dovrebbe occuparsi esclusivamente il padre?» (Gigli 2010, p. 13).

certa confusione e indefinitezza; Gigli (2016, p. 69) a questo proposito parla ironicamente di un “frullato di ruoli genitoriali” e di nuovi conseguenti scenari di maternità e paternità.

Da un punto di vista pedagogico, dunque, come possiamo leggere questi nuovi processi familiari che vanno nella direzione dell’interscambiabilità di ruoli - dove entrambi i genitori sanno fare tutto - e dell’indifferenziazione del “paterno” e del “materno”? A livello familiare quali conseguenze possono esserci per l’educazione dei figli?

Si tratta senz’altro di un tema complesso, tuttora poco affrontato dagli studi pedagogici, sul quale si è riposta più attenzione recentemente soprattutto indagando il tema delle famiglie omogenitoriali22, che hanno, come è facile intuire, interrogato le discipline educative rispetto al possibile esercizio delle funzioni genitoriali slegato dai ruoli e dai generi tradizionali. Le pedagogiste Contini e Gigli che, all’interno degli studi educativi sulla famiglia, si distinguono per il loro approccio dichiaratamente laico e problematicista si sono più volte soffermate sul tema. In particolare Gigli (2007a) prende atto del rischio di un’eccessiva “maternizzazione” della figura paterna (Argentieri, 2000) ma allo stesso tempo riconosce la graduale realizzazione del tanto auspicato superamento di una rigida suddivisione dei ruoli familiari, quindi sostiene l’interscambiabilità di ruoli, seppur entro certi limiti e coordinate:

«Le funzioni ritenute storicamente materne (cura, nutrimento, empatia ecc) possono essere adottate dagli uomini a patto che questo si accompagni ad altrettanta duttilità e disponibilità delle madri a condividere funzioni tipicamente paterne, senza ricadere, ovviamente in nuove forme di rigidità e fissazione dei ruoli. [..] La ridefinizione della mascolinità con una nuova dimensione della paternità, che integri solidità e sensibilità, risulta essere un processo indispensabile per la conquista di un equilibrio familiare» (Gigli 2007a, p. 76-77).

Possiamo dunque ipotizzare nuovi ruoli e funzioni gestite in condivisione, ma secondo la pedagogista alcune importanti condizioni vanno rispettate:

«[..] a patto che non si giunga né a negazioni dell’identità di genere (la maternità, almeno nelle sue prime fasi, resta un evento biologico che vede la donna in prima linea), né a sovrapposizioni, né a usurpazioni di potere, né a fughe di responsabilità» (Ibidem, 77).

Si tratta di un tema senz’altro controverso che vede contrapporsi i sostenitori dell’interscambiabilità a coloro che sottolineano invece la pericolosità insita

22 Alessandra Gigli in modo particolare si è occupata da un punto di vista pedagogico delle famiglie omogenitoriali in Italia. Cfr. Gigli (2010; 2011;2013; 2013b). Per quanto riguarda l’omogenitorialità affrontata da un punto di vista psicologico vedasi in particolare Taurino (2007).

nell’indifferenziazione dei ruoli familiari, soprattutto da un punto di vista educativo. Tra i secondi sembra collocarsi Truffelli (2011, p. 17) che osserva come un’interscambiabilità che tende all’indifferenziazione non sia la migliore strada da percorrere, ma che risulti invece più auspicabile «una distinzione per genere dei compiti [capace di] cercare spazi di rinegoziazione rispetto al passato» (Ibidem). Gigli (2007a, p. 77) riconosce tanto i rischi quanto le opportunità di queste trasformazioni in atto e, vista la carenza di dati empirici sulle reali conseguenze a lungo termine, richiama alcune condizioni di base che dovrebbero caratterizzare una genitorialità consapevole che, se esercitata, dovrebbe ridurre l’impatto dei possibili fattori di rischio connessi in particolare al nuovo assetto familiare:

▪ maggiore intenzionalità educativa e presa di coscienza dei singoli genitori in merito alle azioni educative intraprese (non importa se tipicamente femminili o maschili)

▪ disponibilità ed impegno assunto dalla coppia genitoriale a metacomunicare, negoziare, riflettere, condividere, anche gli aspetti problematici

▪ evitare forme di prevaricazione, strumentalizzazione, delega, fuga dalla responsabilità.

All’inizio del paragrafo abbiamo osservato come le donne e le madri continuino oggigiorno, anche se meno che in passato, a svolgere la maggior parte dei compiti di cura e domestici in famiglia. Sarebbe tuttavia un errore leggere tale “doppia presenza” femminile che vede le donne protagoniste sia del “lavoro di mercato” (Bimbi & Castellano, 1990) che del lavoro di cura e domestico, come specificità del ruolo femminile materno; queste ultime infatti si mostrano più per essere eredità di un modello familiare e di welfare tradizionale centrato sulle figure femminili come “naturali” dispensatrici di cure. La sociologa Chiara Saraceno (1996) osserva che anche la centralità del ruolo materno è in quest'ottica un prodotto di tale modello familiare e educativo. La sociologa dieci anni dopo (2006) nota che l'Italia sembra aver adottato più di altri Paesi il valore della centralità e indispensabilità materna nella cura dei figli. Infatti alla domanda standard delle indagini nazionali ed internazionali: «Pensa che un bambino piccolo soffra se la sua mamma lavora»? L'Italia, nell'European Value Survey del 2000, è tra i paesi con il più alto tasso di accordo (80%), in modo simile nella rilevazione del World Value Survey del 2009 il 71% degli uomini e il 62% delle donne condividono la seguente affermazione: “un lavoro va bene, ma quello che la maggior parte delle donne vuole è una casa e dei figli” (Del Boca, Mencarini & Pasqua 2012, p. 77). Si tratta, in particolare per quanto riguarda il secondo quesito, di risultati anomali e in netto contrasto con la tendenza europea; negli altri Paesi europei (Germania, Svezia, Spagna, Regno Unito), infatti, prevale il disaccordo (Ibidem). I dati delle ricerche inoltre

dimostrano che è proprio l'occupazione di entrambi i coniugi a favorire molteplici fattori di benessere familiare. In primo luogo, infatti, si verifica un maggior coinvolgimento nell'accudimento anche da parte dei padri23, con l'acquisizione, quindi, di relazioni significative diversificate per i figli; in secondo luogo è proprio l'occupazione materna, se unita anche ad un buon livello di istruzione, ad avere un’influenza positiva sulle abilità cognitive dei figli e un effetto protettivo dalla povertà (Saraceno, 2006). Si tratta di una tesi - le donne che lavorano non sono madri peggiori - sostenuta in modo specifico anche dall'interessante lavoro di analisi di Del Boca, Mencarini e Pasqua (2012), le quali tuttavia sono più caute nell’associare il lavoro retribuito materno al benessere dei figli, mostrando come il panorama della ricerca sinora abbia dato esiti variegati e talvolta in contrasto tra loro24. La pedagogista Laura Formenti, come Saraceno, intravede una recente prevalenza e una centralità materne, in modo speciale in Italia; tale nuova dominanza si origina dagli anni Ottanta in poi, in quella che viene chiamata famiglia post-moderna o contemporanea (Roudinesco, 2006), successiva alle battaglie contro l’autoritarismo e il patriarcato:

«Le battaglie per i diritti negli anni ‘70 sfociano nella famiglia affettiva co-parentale, dove i genitori sono alla pari nel decidere, gestire, nell’educare i figli. Una parità che si ribalterà in una nuova dominanza, più ambigua però, del materno sul paterno» (Formenti, 2008, p. 80).

Un elemento che può essere letto in continuità con una siffatta dominanza e centralità materna all’interno dell’ambito familiare appare nel rafforzarsi e nell’arricchirsi di compiti e funzioni dei ruoli familiari di volta in volta assunti dalle madri; a questo proposito in letteratura si fa riferimento, non senza una certa ironia, alle “mamme acrobate”, alle “mamme generali” ecc. (Gigli, 2007a).

Da più parti (cfr. ad esempio Roudinesco, 2006; Saraceno, 2006; Formenti, 2008, 2012; Lutz, 2016a) viene richiamata l’influenza e l’indiscusso ruolo giocato soprattutto dagli studi sull’attaccamento e sul legame madre-bambino durante la prima infanzia - si fa riferimento in

primis alla teoria dell’attaccamento elaborata da Bowlby (1988) e agli studi sul bambino

winnicottiano (Winnicot, 1987) - nell’aver riposto la maternità al centro della famiglia e nell’aver

23Si tratta di un dato confermato anche dalle recenti rilevazioni dell’Istat (2016) che mostrano come l’asimmetria del lavoro familiare tenda a diminuire quando all’interno della coppia entrambi i genitori hanno un lavoro retribuito; si tratta di un fenomeno particolarmente vero per la generazione (specialmente femminile) dei cosiddetti “Millenial”, in altri termini per i nati tra il 1981 e il 1989.

24 Le autrici (2012, p. 74) fanno riferimento a tre diversi studi di tipo psicologico che hanno analizzato l’impatto del lavoro materno sullo sviluppo del bambino e citano studi che hanno dato esito rispettivamente negativo (Baydar & Brooks-Gunn, 1991), nullo (Blau & Grossberg, 1992) e positivo (Vandell & Ramanem, 1992).

istituito un saldo e indissolubile legame biologico tra madre e figlio, in particolare durante i primi anni di vita:

«La concezione maternalista della famiglia trova due grandi epigoni in Winnicott e Bowlby: Her Majesty

the Baby, il bambino winnicottiano, occupa il posto centrale un tempo attribuito a Dio Padre e la madre ne

diventa la custode, la vestale, la responsabile» (Formenti 2008, p. 80).

Le diverse e successive teorizzazioni, in particolare quelle che hanno indagato gli attaccamenti multipli (Cassibba, 2003; Van Ijzendoorn, Sagi & Lambermon, 1992; Howes & Oldam, 2003) e gli studi di matrice cross-culturale (Shaffer & Emerson, 1964), hanno successivamente contribuito a ridimensionare, perlomeno in ambito accademico, l’unicità del legame madre-figlio e a mettere in evidenza la contestualità e la culturalità di tale legame:

«nella cultura italiana è probabile che il bambino scelga come figura di attaccamento primaria la madre, specie quando è piccolo e come figure d’attaccamento secondarie il padre, i fratelli maggiori, i nonni» (Cassibba 2003, p. 45).

La teoria biologistica della cura, in altri termini la tendenza a naturalizzarla e a legarla biologicamente alla donna, è stata messa in discussione dalla priorità assunta dal principio della situazionalità culturale (Mortari, 2006a) secondo cui sono le donne ad impegnarsi in attività di cura più degli uomini perché sarebbe il costume sociale che le porta a occuparsi dei figli e di chi ha bisogno di cure. La femminilità della cura, quindi, avrebbe la sua matrice generativa proprio nel fatto che sono le donne ad occuparsi di essa; è dunque evidente la contrapposizione presente tra una spiegazione di tipo culturale e un approccio di tipo naturale. Kagan nel suo testo, “Three

Seductive Ideas” (2000), rivolge una forte critica alla società americana, ai suoi valori, alle

politiche sociali adottate e argomenta in modo convincente mettendo in discussione idee quali il determinismo nella prima infanzia o la teoria dell’attaccamento. Lo psicologo americano esprime con chiarezza che la sacralità del legame madre-bambino appartiene a quell’insieme di credenze etiche che la società americana attuale, bisognosa di ideali, si è posta sostituendola ad altre credenze e fedi appartenenti al passato, come l’esistenza di dio, la bellezza della conoscenza o la santità dell’amore fedele e romantico (Ibidem). Si tratta, come vedremo meglio nel secondo capitolo, di un tema di centrale importanza per l’oggetto di ricerca in esame. Infatti quello che possiamo con molte precauzioni chiamare “modello di maternità occidentale” non ha un peso determinante nell’orientare solo le concettualizzazioni rispetto alla maternità di uomini, donne, professionisti, politici del nostro Paese, bensì, secondo alcune letture, sta avendo una forte

influenza anche sull’idea di madre anche nei paesi di provenienza delle donne migranti, in modo particolare nei paesi dell’Europa Orientale (Lutz, 2016a).

Come appena messo in evidenza, dunque, siamo di fronte ad un fenomeno di particolare rilievo per il nostro Paese, nel quale la figura materna ha tradizionalmente giocato un ruolo centrale e dominante, questo è reso evidente anche dalla nascita di alcune nuove espressioni linguistiche, che in questo senso appaiono emblematiche, basti pensare al termine “mammo”, tristemente utilizzato per descrivere i padri che scelgono di svolgere più o meno a tempo pieno funzioni e attività tipicamente e tradizionalmente materne, o ai cosiddetti “mammoni” vale a dire i figli adulti che stentano ad uscire dal nucleo familiare. Tra i fattori di contesto e culturali da tenere in considerazione, c’è senz’altro l’ambito giuridico. Il quadro normativo e legislativo nel nostro Paese, infatti, sembra alquanto differente da quello presente in altri paesi europei che hanno introdotto politiche tese ad incentivare la condivisione del lavoro di cura tra genitori nei primi anni di vita e capaci di favorire la presenza continuativa delle donne nel mercato del lavoro. Come esprimono in maniera efficace Del Boca, Mencarini e Pasqua (2012, p. 95), la legislazione nel nostro Paese, unita, o forse proprio a causa, di resistenze di tipo culturale, contribuiscono: «a produrre, fin dai primi mesi di vita del bambino, una specializzazione delle madri nelle attività di cura che tende poi a protrarsi negli anni». Questa “specializzazione materna” come evidente è ben lungi dall’essere innata, ma va legata innanzitutto alla legislazione rispetto alla maternità, al congedo parentale e a quello di paternità che, sommata a un clima culturale che osserva con sorpresa, quando non con ostilità, la scelta dei padri a tempo pieno, contribuisce a mantenere le figure femminili come principali caregiver, in special modo durante i primi anni di vita del bambino/a. I dati relativi all’utilizzo del congedo di paternità nel nostro Paese appaiono significativi. Nonostante una direttiva europea del 2010 abbia sollecitato tutti gli Stati membri ad introdurre due settimane obbligatorie di congedo di paternità, esso è stato inaugurato in Italia solo di recente nel 2013 - con la cosiddetta legge Fornero - e prevedeva un solo giorno di congedo di paternità. Attualmente, a partire dalla legge di stabilità del 2016, il congedo obbligatorio in fase sperimentale era raddoppiato, passando da uno a due giorni retribuiti al 100% dall’Inps e veniva inoltre garantita la possibilità di fare richiesta di due ulteriori giorni facoltativi non pagati. A partire dal 2017, tuttavia, la fase di sperimentazione è terminata e, sebbene ci sia la promessa di rendere obbligatori a partire dal 2019 tutti e quattro i giorni di congedo, per il momento è stata sospesa la possibilità di richiedere i due giorni facoltativi25. Il congedo parentale invece, introdotto in Italia nel 1977 ma esteso al padre solo nel 2000, prevede per le figure paterne la

possibilità di godere, alternativamente alla madre, di sei mesi di congedo continuativi o frazionati. Un mese in più di congedo viene assegnato a quei padri che ne abbiano goduto per un periodo di almeno tre mesi. Nonostante il tentativo legislativo di incentivare questo tipo di pratica, la problematicità maggiore di questa legge è rintracciabile nell’indennità corrisposta al lavoratore, pari solo al 30% della retribuzione media giornaliera. Il congedo parentale viene goduto per questo motivo, ma anche per ragioni culturali o di disinformazione, soprattutto dalle madri26, forse anche perché risulta più conveniente per le famiglie la scelta di far prendere il congedo parentale a chi ha il salario più basso, vale a dire tipicamente la donna (Del Boca, Mencarini & Pasqua, 2012).

Da un punto di vista pedagogico è importante notare come tale asimmetria nella divisione dei compiti di cura e domestici possa comportare rischi anche a livello educativo in quanto, da una parte, tali disuguaglianze di genere corrono il rischio di dare vita ad un meccanismo di riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze di genere, ma dall'altra anche perché potrebbero comportare una minaccia per la qualità del rapporto madre-figli (Gigli, 2007a; Truffelli, 2011).

Alla luce di questo sintetico quadro, risulta opportuno chiedersi in quali termini si possa parlare di specifiche funzioni educative materne e con quali pratiche si concretizzi questa dominanza materna rilevata da gran parte della letteratura analizzata. Le ricerche empiriche27, come già annunciato, non approfondiscono in modo specifico tale aspetto, ma dai dati emergono tuttavia delle peculiarità che vale la pena mettere in evidenza. La ricerca di Truffelli (2011) mostra come le madri siano più presenti rispetto ai padri nelle attività routinarie (pasti, educazione scolastica, ecc.) garantendo in questo modo una forte continuità nella relazione educativa con i figli. Una peculiarità significativa della relazione tra figli e madri emersa da tale ricerca è l'assunzione da parte di queste ultime di un ruolo più autorevole e normativo rispetto ai padri. Nella fattispecie, nonostante il dialogo aperto con i figli sia lo strumento più utilizzato da entrambi i genitori, sono le figure materne al bisogno a ricorrere più spesso al rimprovero, risultando più severe rispetto al proprio corrispettivo maschile. Sono dati simili a quelli emersi dallo studio di Gigli (2010) dove la maggior presenza materna con i figli, nonostante permetta alle madri di esercitare il loro ruolo normativo più dei padri, non è garanzia di efficacia sui figli, dove invece lo sporadico

26 Ad esempio nel 2009 hanno goduto del congedo 24.000 padri contro 253.000 madri (Del Boca, Mencarini & Pasqua, 2012).

27 Un forte limite delle ricerche empiriche rintracciate, fatta eccezione per le indagini campionarie di Save the Children ed Istat, è il loro limitarsi ad aree geografiche del Nord-Italia.

intervento normativo paterno lo è in misura maggiore. Gigli (ivi, p. 9) parla a questo proposito di “mamme generali” che - definite “troppo presenti” dai loro mariti - non riescono ad avere presa sulle “loro truppe”, i figli. L’ipotesi avanzata dalla pedagogista è che alla presenza paterna