«Non si nasce genitori, lo si diventa…La genitorialità si costruisce con ingredienti complessi. Alcuni sono collettivi, appartengono all’intera società, cambiano con il tempo; sono storici, giuridici, sociali e culturali. Altri sono più intimi, privati, consci o incosci, appartengono a ciascuno dei due genitori in quanto persona e in quanto futuro genitore, alla coppia, alla storia personale del padre e della madre [..] E poi c’è un’altra serie di fattori che appartengono al bambino stesso, che trasforma in genitori i suoi genitori» (Moro, Mestre & Réal, 2010, p. 1).
Obiettivo di questo paragrafo è quello di mettere brevemente in luce gli aspetti culturali (veicolati anche grazie ai processi di trasmissione educativa) che influenzano l’esperienza della genitorialità e dell’infanzia, per poi affrontare brevemente il nesso tra maternità e migrazione.
Sebbene l’essere umano possieda un insieme di conoscenze “intuitive” sulla genitorialità (Papoušek & Papoušek, 2002), così come alcune componenti dell’essere genitori sono rintracciabili nel nostro patrimonio genetico31 (Fleming & Liu, 2002), le persone sembrano imparare i propri ruolo genitoriali prevalentemente attraverso la trasmissione culturale. Da qui la profonda diversità presente nelle modalità di essere madre e padre in persone appartenenti a territori geo-culturali diversi, nelle diverse aspettative rispetto alle competenze da privilegiare nello sviluppo dei bambini o ancora dall’età in cui si attende da loro determinate tappe evolutive (Goodnew, 2002). Ne fornisce qualche esempio la studiosa Barbara Rogoff che ha dedicato un interessante lavoro proprio alla “Natura culturale dello sviluppo” (2003):
«Nelle famiglie middle class statunitensi, in genere si ritiene che i bambini non siano in grado di badare a se stessi o a un altro bambino più piccolo almeno fino a dieci anni (anche dopo in alcune aree del Paese). In Gran Bretagna, fino a quattordici anni, è reato lasciare un bambino da solo senza supervisione di un adulto. Tuttavia in molte comunità sparse per il mondo, i bambini iniziano ad assumersi la responsabilità di altri bambini a cinque-sette anni [..] Negli Stati Uniti, nelle famiglie di ceto medio, in genere non è consentito ai bambini sotto ai cinque anni di adoperare coltelli o altri oggetti affilati, mentre tra gli efe, nella Repubblica Democratica del Congo, bambini in tenera età maneggiano con dimestichezza machete e altri oggetti affilati» (Rogoff 2003, p. 3-4).
La variabilità delle aspettative riguardo ai bambini e al loro sviluppo, dunque, diventa più comprensibile solo se si prendono in considerazione la specificità delle pratiche culturali e delle tradizioni, la disponibilità o meno di forme di sostegno, la presenza o meno di pericoli nella vita dei minori, la distribuzione dei ruoli sociali, la tipologia di istituzioni e le tappe necessarie per essere considerati adulti dalla propria società di riferimento (Ibidem).
«La cultura influenza in maniera pervasiva il modo in cui i genitori percepiscono la genitorialità e la mettono in pratica» (Bornstein & Venuti, 2013 p. 100). Le credenze culturali inoltre sono così potenti che spesso i genitori le utilizzano nel rapporto con i figli più degli stessi sentimenti provati nella relazione con loro. Nel caso dell’attaccamento, ad esempio, le madri provenienti da culture diverse si differenziano per le diverse aspettative che ripongono nelle pratiche di accudimento ma anche per le finalità attribuite alla cura dei propri figli, inoltre esistono molteplici differenziazioni e preferenze circa i modelli prossimali (tenere in braccio e molto vicini) e distali delle pratiche di cura, così come per l’autonomia e la responsività sociale dei propri figli (Ibidem). Tuttavia - come ricordano gli stessi autori - la maggior parte delle ricerche
31 L’utilizzo ad esempio del linguaggio verbale e del cosiddetto “baby talk”, cioè di un registro speciale, viene utilizzato dalla maggior parte dei genitori nonostante si sappia che il bambino non è in grado di capire tale linguaggio (Bornstein & Venuti, 2013).
sulla genitorialità, anche quelle di tipo cross-culturale32, fanno riferimento alle tradizioni
psicologiche del mondo occidentale e questo, com’è evidente, porta con sé delle conseguenze importanti rispetto, non solo all’immaginario comune, ma anche al panorama offerto dalla ricerca. Il già richiamato lavoro di Rogoff (2003), di stampo vygotskijano, in questo senso si differenzia notevolmente dalla maggior parte dei suddetti studi psicologici, in quanto approfondisce la dimensione culturale presente nello sviluppo e il rapporto con l’educazione, attingendo a numerosi esempi facenti riferimento ai gruppi umani più diversi. Implicita nell’opera della psicologa statunitense è forte la critica rivolta a una concezione occidentale di sviluppo, proposta tuttora dalle teorie classiche della psicologia.
Anche all’interno del cosiddetto “mondo occidentale” tuttavia, si possono trovare differenze significative. Una ricerca condotta da Welles-Nystrom, New e Richman nel 1994 ha confrontato le pratiche di cura di 60 madri e i propri bambini durante il primo anno di vita che vivevano a Stoccolma, Roma e Boston. Lo studio ha messo in evidenza le diverse concettualizzazioni rispetto alla “buona madre”, dove i modelli di cura risultano fortemente influenzati dai modelli culturali:
«per le madri svedesi la “buona madre” era quella che considerava anche altri aspetti della sua vita. In altre parole il ruolo di madre era solo una componente che andava integrata nel suo essere donna. Per le madri italiane non c’erano dei criteri per essere una buona madre, tutte le madri erano buone madri e la maternità era l’essenza dell’essere donna. Le madri americane erano considerevolmente più ambivalenti rispetto al loro ruolo;desiderando per se stesse come per il figlio comportamenti di autonomia» (Rogoff, 2003 p.54).
Indipendenza, socializzazione, sviluppo cognitivo, finalità delle pratiche di cura, sono dunque tutte componenti che risultano fortemente soggette all’influenza dei modelli culturali:
«le madri svedesi hanno considerato il passare del tempo fuori casa appropriato per un bambino di dieci mesi, mentre le madri americane e italiane non lo ritengono appropriato. In casa le madri italiane restringono l’ambiente di esplorazione del proprio bambino a un pavimento ben pulito, non danno priorità allo sviluppo cognitivo e motorio così privilegiato dalle madri americane e svedesi» (Ibidem).
32 I presupposti per la psicologia crossculturale sono i seguenti: 1) Necessità di spiegare i comportamenti prestando attenzione agli habitat e ai valori morali e culturali che li plasmano e li determinano. 2) Partendo da un contesto sociale ed ecologico attraverso lo studio dell’adattamento biologico si analizzano le variabili relative alla trasmissione geneticae alla trasmissione culturale, all’influenza ecologica e all’acculturazione per giungere poi ai comportamenti individuali (Bornstein & Venuti, 2010).
Nonostante questi studi mostrino delle costanti (regularities) all’interno dei modelli culturali, è evidente come sussistano notevoli differenziazioni interne ad uno stesso territorio, ad esempio tra nord e sud o tra contesti urbani e rurali (Bornstein et al., 2005).
Implicito nelle pratiche di cura, di accudimento, nelle esperienze offerte o nelle aspettative rispetto a determinate capacità, vi è una specifica concezione di infanzia, anch’essa intesa come prodotto culturale e sociale, legato a una precisa epoca storica, geografica e socioeconomica. Alla luce di quest’ultima considerazione risulta interessante presentare brevemente la lettura dell’infanzia promossa da alcuni sociologi e antropologi e psicologi dell’educazione, in particolare si fa riferimento a James & Prout, 1990; James, Jenks & Prout, 2002; Hutchby & Moran-Ellis, 1998. In generale questi autori promuovono l’idea che i bambini andrebbero visti e concepiti come degli attori sociali competenti e capaci di autonomia e, in solo misura minore, come dei soggetti innocenti, non competenti, bisognosi di protezione e dipendenti fino alla maggiore età dagli adulti. La critica presente in questa posizione si rivolge soprattutto alla concettualizzazione di un’“infanzia ideale”, che lungi dall’essere universale, risulta più un prodotto storico e socioeconomico originatosi nel contesto geografico europeo e statunitense, fiorito in seguito alla rivoluzione industriale, alla scolarizzazione dell’infanzia e al crescente interesse della società verso di essa (Boyden, 1997; Ariès, 1962). É solo a cavallo tra Ottocento e Novecento, infatti, che l’età diventa un criterio classificatorio, un’unità di misura dello sviluppo e un criterio per classificare le persone, funzionale all’organizzazione sanitaria, scolastica, dei servizi sociali (Rogoff, 2003). Il modello occidentale di infanzia, secondo tali autori, non si è diffuso, tuttavia, solo nel contesto dei paesi europei e dell’America del Nord, ma è stato “esportato” anche nei paesi “non occidentali” o del “Sud”. In particolare è attraverso la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia33 (1989) ratificata quasi universalmente che si è operata
una “globalizzazione” di tale specifica concezione di infanzia.
Non si vuole qui mettere in discussione l’importanza dei diritti promossi dalla Convenzione che ha rappresentato per l’infanzia – anche se spesso solo formalmente ‒ una tappa fondamentale e imprescindibile, per questo richiamata da molti lavori pedagogici sul tema (Macinai, 2010; Balduzzi, 1997; Bobbio, 2002), bensì riconoscere una determinata concettualizzazione di infanzia in essa presente. Nel preambolo della Convenzione infatti viene sottolineata l’immaturità fisica e intellettuale dei bambini da cui deriva la necessità di una particolare protezione:
«[..] Considerato che il bambino, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali compresa un’adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita; considerato la necessità di tale particolare protezione..»
La considerazione del minore (in Italia fino a 18 anni) come di un soggetto immaturo, bisognoso di cure e di protezione34 appare in contrasto con le variegate forme dello sviluppo osservate in precedenza nel lavoro di Rogoff (2003). La provocazione, se così la si può chiamare, rivolta dagli autori allora, lungi dal considerare un modello “migliore” rispetto a un altro, risulta utile piuttosto per aiutarci ad assumere uno sguardo critico rispetto a una concettualizzazione dell’infanzia che ci appare “naturale” in quanto dominante e socialmente accettata nel nostro contesto e che rischiamo di non “vedere” quando andiamo a leggere la genitorialità migrante o transnazionale.
Zanfrini (2008, p. 174) a questo proposito propone di:
«sbarazzarci delle nostre coordinate culturali e fare i conti con l’esistenza di diverse concezioni e ideologie della famiglia, capaci perfino di dare ragione della “scelta” di rinunciare a creare una propria famiglia d’elezione sacrificandosi per il benessere di quella d’origine».
Una lettura critica rispetto ai modelli dominanti di infanzia (occidentale) e di famiglia (nucleare) è stata utilizzata nel lavoro etnografico condotto da Bezzi (2013) sui cosiddetti children left
behind romeni, cioè i bambini e ragazzi “rimasti indietro” nei paesi d’origine in seguito alla
migrazione di uno o entrambi i genitori, di cui si parlerà in modo approfondito nel secondo capitolo (par. 2.4). Grazie a tale posizione critica e decostruttiva, l’antropologa si è potuta approcciare all’esperienza dei children left behind utilizzando delle categorie di infanzia e di famiglia diverse da quelle “occidentali” e per questo più utili alla sua analisi:
«This term [children left behind] is founded on costructs of gender, childhood, and family which are firstly not universally valid and, secondly, are used here in an instrumental and compliant manner [..]. The implicit contents of the notion of this category subtend a childhood model which, in line with the literature on the antrophology and sociology of childhood, is not universal. This childhood model which sees the child as a subject completely depending on the care of adults, vulnerable, and charaterized by “domesticity”, is not
34 Emblematica al proposito è la recente (ottobre 2017) Circolare Ministeriale diffusa in seguito a una sentenza della Cassazione che ha condannato lo Stato a risarcire i genitori di un bambino morto nel 2002 mentre tornava a casa da solo da scuola ed è stato investito da un autobus.
(https://www.orizzontescuola.it/wp-content/uploads/2017/10/1.-Cassazione-21593.pdf) La Circolare Ministeriale che è stata fortemente contestata prevede l’obbligo per i genitori di andare a prendere i figli a scuola se minori di 14 anni.
always useful to describe lives of children that I contact with, and it limits a proper understanding of their experiences. In the same manner, the model of the nuclear family is not the only possible one, but one among others» (Bezzi, 2013, p. 72).
Dopo aver fornito un breve quadro teorico capace di prendere in considerazione l’eterogeneità culturale - e quindi anche educativa - dei modelli familiari, genitoriali e di infanzia presenti, vale la pena soffermarci sull’esperienza della migrazione familiare e sul possibile impatto che il cambiamento di contesto geoculturale può avere sull’esperienza della genitorialità e in particolare della maternità.
Sebbene le famiglie migranti condividano l’esperienza della migrazione e della lontananza dal proprio Paese d’origine sarebbe un errore considerarle soggetti omogenei tra loro (Favaro, 2002). Ciò nonostante non si può mancare di considerare in generale l’esperienza migratoria familiare come un evento socialmente stressante e potenzialmente traumatico per le persone o i gruppi che la intraprendono. La pedagogista Clara Silva (2006), facendo sua la prospettiva della “doppia assenza” del migrante prospettata negli anni Settanta dal sociologo algerino Abdelmalek Sayad (2002), commenta che il peso maggiore della scelta migratoria ricade proprio sulla famiglia:
«Certamente è la famiglia a pagare il prezzo più alto, fino al punto che il benessere materiale raggiunto con l’emigrazione non sempre compensa pienamente gli sforzi materiali e psicologici che accompagnano l’abbandono della propria terra» (Silva 2009, p. 32).
La migrazione familiare in questo senso può essere letta all’interno della cornice della teoria degli eventi critici, o “Stress Family” (Hill, Burr, McCubbing et. al, 1980 vedi Scabini, 1995) che studia cosa avviene nei nuclei familiari in seguito ad eventi imprevisti come cambi di residenza, nuove identità professionali, malattia, cambiamenti relazionali nella coppia ecc). Come mettono in luce Benedetto & Ingrassia (2010) la migrazione può costituirsi come cambiamento repentino che ha degli effetti importanti sulla genitorialità:
«Il parenting [..] pur trasmesso tra le generazioni, si trasforma in maniera dinamica, incorporando alcuni elementi di novità che tuttavia non alterano il modo di concepire l’educazione [..] a parte i cambiamenti repentini introdotti in talune circostanze, quali la migrazione (Benedetto & Ingrassia, 2010 p. 78-79).
L’esperienza migratoria, inoltre, spesso corre il rischio di depotenziare l’adulto in quanto le competenze e le conoscenze acquisite nel Paese d’origine tendono a non venire riconosciute o
valorizzate (Silva, 2009); un aspetto quest’ultimo che può porsi come ostacolo nell’esercizio del ruolo educativo e genitoriale.
Negli ultimi decenni l’etnopsichiatria attraverso la clinica transculturale (Cattaneo & Dal Verme, 2004; Moro, 2002; Moro, 2008; Moro, Neuman, Réal, 2008) ha approfondito il rapporto tra genitorialità e migrazione, contribuendo a mettere in evidenza la criticità di alcuni passaggi della vita, quali il divenire genitori, la gravidanza e la maternità, se vissuti in “esilio” (Moro, 1994; Moro et.al., 2008b). L’espressione “en exil”, che troviamo nei titoli dei testi redatti da Marie Rose Moro e colleghi “Genitori in esilio” (1994) e “Maternità in esilio”( 2008), vuole mettere in rilievo la condizione di lontananza vissuta dai neogenitori, ma in primis dalle neomamme che si ritrovano ad aspettare un figlio, a partorire o a esercitare le proprie funzioni genitoriali distanti da casa, nel contesto occidentale, nello specifico in Francia, in assenza della propria rete familiare, della propria madre, delle proprie abitudini, tradizioni e rituali legati alla nascita e alla crescita dei nuovi nati. Sebbene la solitudine sia un tratto che caratterizza l’esperienza di tutte le neomadri, le donne migranti, specialmente se provenienti da “società tradizionali”, possono viverla con maggiore intensità e sofferenza, talvolta con l’insorgere di malattie e problemi fisici o somatici o con difficoltà nell’occuparsi del bambino nato (Moro, Mestre & Réal, 2008). La medicalizzazione della nascita ad esempio - che in Occidente ha progressivamente sostituito le figure materne con svariati professionisti (medici, ostetriche ecc) nella trasmissione alle primipare delle conoscenze di base legate all’accudimento dei neonati - può accentuare la solitudine e il malessere delle madri migranti. Quest’ultime, infatti, necessiterebbero della presenza della propria madre o di una co-madre sostititutiva e simbolica per poter usurfruire delle loro risorse interne strettamente legate e legittimare un “involucro di tipo culturale”:
«Il contesto della gravidanza e della maternità [..] è determinante per l’utilizzazione da parte della madre delle proprie competenze psichiche e culturali. Le risorse interiori sono preziose, ma fortemente dipendenti dall’“involucro culturale”. L’assenza materna o di un sostituto lo fa sparire, sicché non esercita più la sua funzione di sostegno. L’assenza può erodere quindi la qualità delle risorse interne della nuova madre» (Ivi, p. 5).
L’esperienza delle madri migranti protagoniste della presente ricerca risulta ulteriormente diversa da quella appena accennata riguardanti le madri “in esilio”. Si ha a che fare, infatti, con madri che - perlomeno in una fase del progetto migratorio - sono sole nella terra d’approdo, in quanto generalmente migrano senza la propria famiglia, rimasta nel Paese d’origine. Tali madri, come vedremo in modo più approfondito nel prossimo paragrafo, oltre alla solitudine e allo spaesamento che contraddistinguono in generale l’esperienza migratoria, spesso subiscono un
etichettamento sociale per aver lasciato a casa i propri figli, affidati ad altri caregiver; una scelta oggetto di potenziali criticità, in quanto in contrasto con i modelli egemoni di cura e di maternità biologica:
«in quanto madri sole, soffrono di tutte le difficoltà e le stigmatizzazioni presenti in un Paese dove la famiglia nucleare fondata sul matrimonio continua a essere – nonostante le varianti delle nuove famiglie – un forte modello culturale pervasivo e con carattere quasi normativi» (Balsamo, 2006 p. 209).
La sociologa Franca Balsamo mette inoltre in luce come tali donne migranti, proprio perché straniere, possano essere oggetto di potenziali forme di discriminazione e di vecchie e nuove forme di razzismo (Ibidem). Infine va messo in evidenza come in molti casi tali donne condividano, anche prima della migrazione, le sfaccettate problematiche che accomunano le madri sole. Non è raro, infatti, che la partenza di queste primo-migranti avvenga in seguito a una separazione effettiva o de facto, così come anche nel caso di una relazione coniugale non gratificante, ecc. In linea con questo va messo in evidenza come l’affido dei figli alla famiglia allargata, specialmente alle nonne materne, sia spesso precedente alla migrazione e ricopra quindi in alcuni casi la funzione di un sostegno a tali madri sole, che solo in un secondo momento intraprendono la via della migrazione35. In questo senso l’esperienza delle madri transnazionali può essere riletta anche alla luce degli studi che si sono occupati di analizzare le condizioni di una particolare categoria di madri, quelle “sole”. Alcune principali problematicità riscontrate in generale nella vita delle madri sole sono, ad esempio, la povertà femminile e la deprivazione abitativa (Zajczyk, 2006). Le madri sole, scrive Franca Bimbi (2006, p. 11):
«ci appaiono e sono rappresentate, volta a volta, portatrici dell’autonomia femminile e del paradigma delle cure genitoriali, e assieme vittime della femminilizzazione della povertà a fronte dei limiti morali del senso di responsabilità dei partner; modello dell’acquiescenza nella dipendenza dal welfare e dunque causa dell’esplodere della spesa pubblica; oppure simbolo dell’irresponsabilità sessuale e riproduttiva delle generazioni più giovani e del venire meno della trasmissione del mandato morale tra genitori e figlie».
Nonostante la condizione di separate e divorziate sia alta tra le donne che migrano sole, talvolta addirittura maggioritaria in alcuni flussi e soprattutto per determinate fasce di età (Colombo & Caponio, 2011; Vianello, 2009; Lagomarsino, 2009), sono molte le donne che intraprendono la migrazione lasciando nei paesi d’origine, oltre ai figli, anche mariti o partner.
35 Di seguito il racconto di una madre migrante protagonista di uno studio di caso: “La storia di suo figlio è stata difficile fin dall’inizio, era sempre ammalato. Era stato ricoverato molto presto e lei aveva pregato Dio di lasciarglielo. Non poteva essere sempre a casa per accudirlo in questi lunghi periodi di malattia così lo aveva lasciato all’età di tre anni alla suocera che però abitava lontano”.