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Gestione dell’attività delle multinazionali in territori di conflitto

Business and Human Rights: un approccio innovativo

2. Lo State duty to protect

2.3 Gestione dell’attività delle multinazionali in territori di conflitto

Sempre all’interno del pilastro relativo allo State duty to protect è necessario infine prendere in considerazione quelle politiche statali relative alle attività compiute in zone di conflitto da parte delle società aventi sede sul territorio nazionale. È noto, ed è già stato sottolineato, come le maggiori violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali abbiano luogo in territori di conflitto (si vedano i casi già citati di Nike in Indonesia, Shell in Nigeria, Trafigura in Costa d’Avorio, Afrimex nella RDC447). I conflitti sono certamente uno degli scenari più difficili per la tutela dei diritti umani. Tuttavia, molte imprese multinazionali, per la natura della propria attività, si trovano a dover operare in queste aree ed è quindi necessario provvedere a una specifica disciplina in materia. Inoltre, si deve considerare che i conflitti con le comunità locali rappresentano un costo elevato per le società tale da raggiungere anche la cifra di diversi

445 Gli art. 5 e 6 del modello di BIT belga, risalente al 2002, obbligano gli Stati contraenti ad adattare la normativa interna agli standard internazionali in materia di diritto ambientale e lavoro, imponendo poi agli Stati un divieto di rinunciare o derogare a tale normativa nazionale. V. IISD, Belgium‘s model bilateral investment treatiy: a review, 2011. Il modello statunitense, invece, all’art. 8.3(c), prevede la necessitá di applicare le norme internazionali in materia di diritto ambientale e tutela della vita umana, il testo è disponibile all’indirizzo internet

http://www.state.gov/documents/organization/117601.pdf.

446J.Ruggie, Just Business, cit., 185.

miliardi di dollari nelle operazioni più complesse448. I ritardi che i progetti accumulano (di quasi il doppio del tempo inizialmente stimato, secondo il rapporto di Goldman Sachs) e che spesso sono causati da difficoltà politiche oltre che tecniche non fanno che aumentare ulteriormente tali costi a causa dell’aumento dell’inflazione. Secondo il Rappresentante Speciale il rischio collegato agli stakeholders rappresenta la parte principale del rischio catalogato come “non tecnico” nei bilanci delle società. Egli inoltre rileva come tali costi spesso vengano parcellizzati tra le varie società del gruppo in modo da non attirare l’attenzione del Consiglio di amministrazione. Questo può comportare un notevole svantaggio per quelle aziende che sono impegnate seriamente in progetti di CSR, poiché in quel caso i costi delle politiche di CSR sono iscritti a bilancio449.

Sul tema vi sono già alcune importanti iniziative a livello internazionale quali l’apposito report dell’OCSE e della Banca Mondiale sulle zone a governo debole450e la Guidance del Global Compact451. Tuttavia si tratta di iniziative che prendono in considerazione soprattutto il ruolo delle società, ma non forniscono alcuna guida agli Stati sulle politiche che questi potrebbero e dovrebbero adottare al fine di prevenire o mitigare gli abusi dei diritti umani da parte delle imprese in aree di conflitto. Nella visione del Rappresentante Speciale, invece, è necessario un impegno diretto da parte degli Stati nei confronti delle imprese che operano in zone di conflitto. Tale impegno dovrebbe iniziare il prima possibile evitando così che la situazione di conflitto degeneri e, con essa, il rischio di abusi dei diritti umani legati all’attività dell’impresa in quel territorio. Ciò giustifica l’inserimento di queste considerazioni nell’alveo del primo pilastro relativo allo State duty. Gli Stati possono ricoprire un ruolo fondamentale nell’aiutare le imprese a identificare i rischi di violazioni dei diritti umani cui incorrono attraverso, ad esempio, l’elaborazione di modelli di human rights due diligence, di cui si parlerà più nel dettaglio nel paragrafo seguente, costruiti secondo gli standard internazionali, quali ad esempio quelli stabiliti dall’OCSE nella Due diligence guidance for responsible supply chains of minerals from conflict affected areas.

448 World Resource Institute, Developement without conflict: the business case for community consent. Sul tema si veda anche il rapporto di Goldman Sachs, Goldman Sachs Global Investment Research, top 190 projects to change the World, 25 aprile 2008.

449 J. Ruggie, Just Business, cit., 138 e ss.

450 OECD, Risk awareness tool for multinational enterprises in weak governance zones, OECD Council, 8 giugno 2006, disponibile all’indirizzo internet: http://www.oecd.org/daf/inv/corporateresponsibility/36885821.pdf e

451 UN Global Compact, Guidance on responsible business in conflict-affected and high risk areas, New York, 2010, disponibile all’indirizzo internet: http://d2m27378y09r06.cloudfront.net/viewer/?file=wp-content/uploads/Guidance_RB.pdf

Il tema è affrontato dal Principio n. 7:

« Because the risk of gross human rights abuses is heightened in conflict-affected areas, States should help ensure that business enterprises operating in those contexts are not involved with such abuses, including by:

(a) Engaging at the earliest stage possible with business enterprises to help them identify, prevent and mitigate the human rights-related risks of their activities and business relationships; (b) Providing adequate assistance to business enterprises to assess and address the heightened risks

of abuses, paying special attention to both gender-based and sexual violence;

(c) Denying access to public support and services for a business enterprise that is involved with gross human rights abuses and refuses to cooperate in addressing the situation;

(d) Ensuring that their current policies, legislation, regulations and enforcement measures are effective in addressing the risk of business involvement in gross human rights abuses»452. Si sottolinea come, in questi casi, il ruolo principale debba essere demandato agli Stati di origine delle multinazionali, i quali possono giocare una parte fondamentale, più degli Stati ospiti, già indeboliti dal conflitto stesso, nell’assistere le società multinazionali che operano in simili aree. Tuttavia essi spesso mancano di apposite politiche in tal senso453. Nel report specifico sulle aree di conflitto allegato ai Guiding Principles, il Rappresentante Speciale menziona alcuni esempi di meccanismi attraverso i quali gli Stati potrebbero concretamente attuare questo tipo di impegno, oltre alla già menzionata predisposizione di modelli di due diligence, tra i quali: (i) l’adozione di regole che prevedano specifiche policy aziendali in tema di diritti umani per le aziende che operano in contesti di violenza; (ii) la messa a disposizione del pubblico di informazioni sulla situazione dei diritti umani in aree di conflitto; (iii) la predisposizione di “liste bianche” in cui includere le imprese collaborative al fine di conferire loro appalti pubblici; (iv) l’offerta di servizi di mediazione governativi in caso di conflitti tra le società e le comunità locali454;

Nel caso in cui la società dimostri di non voler adottare gli standard previsti potrebbero essere prese in considerazione ulteriori misure di dissuasione quali ad esempio: (i) interrogazioni e indagini parlamentari; (ii) l’attivazione della procedura di fronte ai National Contact Point (v.

452 Guiding Principles, cit., Title I, Sec. B, Principio n. 7.

453 OHCHR, Business and human rights in conflict affected regions: challenges and options towards State responses, in UN doc. A/HRC/17/32, par. 6.

supra); (iii) l’esclusione della società dalla procedura di aggiudicazione degli appalti pubblici etc..

Infine, nei casi più gravi lo Stato di origine potrebbe considerare di fare ricorso a sanzioni più significative quali l’attivazione di meccanismi di responsabilità civile o penale, imporre sanzioni unilaterali all’impresa, o congelare i beni dei singoli individui coinvolti.