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Gli anni del regime autoritario: il costruttivismo accademico

L’ala più radicale del modernismo varsaviano, nonostante gli sforzi e i contatti allacciati, sia all’estero che in patria, non riuscì mai a conquistare una posizione dominante all’interno sulla scena immobiliare della capitale, fattasi decisamente molto vivace nella seconda metà degli anni Venti, prima della Grande Depressione. Lo stato, infatti, bisognoso di costrure edifici a destinazione d’uso specificamente pubblica, accordò, nella maggioranza dei casi, un livello di fiducia molto maggiore a quei progettisti che dettero prova di saper utilizzare il linguaggio e le tecniche moderne senza per questo negare aprioristicamente la tradizione. I giovani architetti razionalisti erano, in sostanza, troppo estremi, non solo nelle loro proposte di rinnovamento sociale delle forme dell’abitare, ma anche nel colore delle loro idee politiche, per non suscitare perplessità nei circoli politici e finanziari della capitale. Inoltre, nel loro linguaggio architettonico certi elementi indispensabili per la retorica del potere erano assolutamente mancanti. Klosiewicz, in un suo saggio dedicato all’architettura polacca del XX secolo recentemente comparso in Italia, a questo riguardo si chiede perchè, per la progettazione dei musei, dei tribunali, dei ministeri e, in generale, delle sedi delle istituzioni pubbliche l’architettura del modernismo razionalista sembrò risultare inadeguata.

Le risposte possono essere molteplici. Una può essere il fatto che le forme dell’architettura modernista venivano associate all’idea di egualitarismo. Laddove interveniva l’esigenza di sottolineare una gerarchia, sorgeva l’obbiettiva difficoltà di trovare una risposta soddisfacente. Il funzionalismo modernista era restio ad accettare la necessità dell’assialità dellla composizione, mentre essa, in ragione certamente di una consetudine ormai codificata, sembrava essere necessaria per

1 L. Niemojewski, O warszawskiej architekturze, p. 7, «Swiat» 35 (1929), pp. 4-7. 2

«Uno dei migliori esempi dell’influsso di Le Corbusier in Polonia – struttura a scheletro, volumetria assolutamente semplice, posata su dei pilotis di cemento, proporzioni assimmetriche, grandi finestre di vetro, soluzione funzionale degli interni», A.K. Olszewski, op. cit., p. 305.

3

Eksperymentalny dom z celolitu, «Dom Osedle Mieszkanie» 7 (1929), pp. 1-4.

4 B. e S. Brukalski, Dom mieszkalny wybudowany wedlug projektu Barbary Brukalskiej (Praesens) i arch.

edifici con destinazione di rappresentanza ufficiale. I modernisti avevano escogitato nuove strutture di sedie per la produzione industriale, ma non avevano pensato a forme di troni.1

Furono quindi gli architetti più avanti negli anni, quelli, cioè, che facevano parte della prima generazione di modernisti, e che meglio di altri erano capaci di dialogare con le forme del passato nonostante utilizzassero materiali (e sistemi costruttivi) decisamente moderni, i campioni di quel modernismo moderato che meglio sembrava rispondere alle esigenge dello stato. Esponenti di una „terza corrente” dell’architettura varsaviana, una variante stilistica che Adam Milobedzki ha definito con il termine di „costruttivismo accademico”, essi riuscirono a sintetizzare una sorta di compromesso tra il costruttivismo e la tradizione classica. Scrive Milobedzki che questi architetti,

Partiti dal protomodernismo degli anni Dieci che avevano mutuato dai politecnici tedeschi, erano passati attraverso la fase dello storicismo nazionale, deviando raramente verso lo stile internazionale, per trovare infine un modello di costruttivismo proprio, combinato con la tradizione classica, troppo creativo e autonomo per essere considerato un compromesso eclettico. Il „costruttivismo accademico”, che soltanto più tardi sarebbe stato seguito da analogie pù banali nei paesi totalitari (Speer), ma non solo (Neuf Trocadéro, Parigi), interessò principalmente gli edifici ufficiali della capitale e diede alle proprie moderne realizzazioni, idealmente funzionali, un’organizzazione assiale e simmetrica, rivestendone gli scheletri in cemento armato con un alzato di blocchi squadrati. Si manifestò appieno nell’imponente Museo nazionale [...], ma le sue coordinate artistiche vennero tracciate in senso più ampio da Swierczynski (Banca nazionale dell’Economia..., Ufficio brevetti) 2.

Scuole pubbliche, ospedali, edifici residenziali e commerciali3, tutti oggetti di cui la città aveva un gran bisogno dopo aver ritrovato il proprio ruolo politico all’interno dello stato polacco, vennero innalzati seguendo forme più semplici e simmetriche, in cui a dominare era la regolarità dei grigi blocchi di rivestimento. Alcune opere di carattere funzionalista non mancarono di essere costruite, come la sede delle triestine Assicurazioni generali, in ulica Zlota, che si rifaceva al razionalismo italiano4, ma

1 L. Klosiewicz, Il costruttivismo e l’architettura polacca del XX secolo, p. 218-19, in S. Parlagreco (a cura di), op. cit., pp. 199-229.

2 A. Milobedzki, Architektura ziem polskich. Rozdzial europejskiego dziedzictwa, ICC, Krakow 1994, p. 119.

3 Olszewski elenca in questa categoria opere quali: l’Istituto di Aereodinamica del Politecnico (1925), la Fabbrica statale di apparati telefonici e telegrafici, la Scuola professionale femminile (1929), la Scuola di Scienze politiche (1933), la Scuola per infermiere (1928), la sede dell’Unione delle Assicurazioni dei Lavoratori intellettuali (1931). Vedi A.K. Olszewski, op. cit., pp. 307-8.

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I capitali stranieri, e con essi quelli italiani, ricominciarono a fluire nella Varsavia della seconda metà degli anni Trenta La Banca commerciale italiana fu, ad esempio, uno dei finanziatori stranieri della Cooperativa d’abitazione varsaviese.

furono complessivamente sempre più rari e sempre meno estremi nelle soluzioni proposte.

Fig. 6: il pannello della Polonia alla Triennale di Milano del 1933. si possono riconoscere l’Istituto

centrale di educazione fisica (in basso) e la Banca nazionale dell’economia (in alto a destra). In S. Parlagreco (a cura di), Costruttivismo in Polonia, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 190

Le opere di maggior impatto sul paesaggio architettonico cittadino furono, ovviamente, le sedi dei ministeri e dei vari organi dello stato. Il paesaggio urbano del centro della città, proprio grazie a questi investimenti pubblici, subì un processo di ammodernamento che, per quanto parzialmente, riuscì a cambiare il volto della capitale della Polonia. Nelle sue strade più centrali, come corso Ujazdowskie e via Szucha, si erano concentrate le sedi dell’amministrazione pubblica, i ministeri, le ambasciate. Il

ministero dei Lavori pubblici1, in ulica Chalubinskiego, era stato terminato nel 1928 secondo le proporzioni classiche scelte da Rudolf Swierczynski, apprezzatissimo docente alla facoltà di Architettura del Politecnico, il quale aveva progettato anche l’imponente palazzo della Banca nazionale dell’Economia2, collocato nel centralissimo corso Jerozolimskie, senza peraltro riuscire a vederlo realizzato, dal momento che fu terminato solamente nel secondo dopoguerra, nonstante il concorso fosse stato indetto nel 1927. Altri esempi riconducibili a questa classe di edifici furono la sede della Direzione della Marina3, in corso Zwirki i Wigury, dalla pianta cruciforme, e la Camera superiore di controllo, in ulica Poznanska4. Anche la sede del Ministero per le Confessioni religiose e l’Istruzione pubblica, in corso Szucha5, la cui centralità nella cattolicissima Polonia venne in qualche modo affermata dalle imponenti proporzioni dell’opera, venne realizzata in questo periodo (1925-30). La sua monumentale entrata, sostenuta da enormi pilastri squadrati alti quattro piani, era coronata da un fregio rappresentante un’aquila stilizzata, il simbolo della Polonia.

Un valore simbolico enorme per tutta la città ebbe il Museo nazionale6, i cui lavori di costruzione si protrassero per più di un decennio, fino all’inaugurazione avvenuta nel 1938. Il progetto, firmato da Tolwinski, basava la propria modernità sulla semplificazione del classico motivo della fila di colonne che correva lungo le pareti frontali di un edificio la cui pianta era stata disegnata a forma di lettera E. Di concezione simile al Museo nazionale fu anche un’altra opera di estrema importanza per lo stato, la Zecca statale, in ulica Sanguszka, terminata nel 1929 su progetto di Antoni Dygat. La facciata Nord era stata composta giocando abilmente con «i parapetti delle finestre, il piano terra e il sottottetto, [...] con i doppi pilastri sporgenti verso l’esterno, con le aperture delle finestre incorniciate da telai di metallo»7, uno schema decorativo invero non molto lontano da quelli che verranno utilizzati nella Varsavia dei primi anni Cinquanta.

Se i circoli politici della capitale furono i primi a guardare con una certa preoccupazione alle posizioni politiche degli architetti delle avanguardie, è altrettanto

1 A. Kodelski, Gmach ministertwa Robot publicznych, in «AiB» 8 (1933), pp. 229-45.

2 E. Norwerth, Gmach Banku gospodarstwa krajowego w Warszawie, «AiB» 5 (1929), pp. 161-80 e J. Pankowski, Gmach Banku gospodarstwa krajowego w Warszawie, in «AiB» 10, (1932), pp. 301-20. 3 S. Fiszer, Gmach Kierownictwa Marynarki wojennej projektu arch. Rudolfa Swierczynskiego, «AiB» 1 (1936), pp. 1-3.

4 Projekt gmache Najwyzszej izby kontroly panstwa w Warszawie, «AiB» 3 (1925), pp. 30-3.

5 J. Krupa, Gmach Ministerstwa WriOP, «AiB» 3 (1925), pp. 8-15, S. Woznicki, Gmach Ministerstwa

WriOP, «AiB» 8-9 (1931), pp. 281-92.

6 T. Tolwinski, Muzeum narodowe w Warszawie, «AiB» 9 (1938), pp. 271-84.

vero che anche la società polacca nel suo complesso dimostrò una certa diffidenza verso le loro idee. La Polonia di quegli anni, infatti, come ricorda Szymon Bojko1, era un paese che

si faceva condizionare dai valori tradizionali. La popolazione cittadina, le classi medie, si erano trovate sotto la pressione prepotente dei miti pattriottici e nazionali. I nuovi standard liberali, i valori spirituali e artistici, che viaggiavano attraverso l’Europa assieme agli sbalzi di civilizzazione, erano percepiti da noi, come minimo, con riserva e con diffidenza. Il dramma consisteva nel fatto che il paese, il suo apparato, la scuola, la chiesa, i partiti politici di destra e i media rafforzavano questa sospettosità, anzi inimicizia, e la sollevavano al rango di ragione di stato.

Con l’inizio degli anni Trenta, quindi i giovani architetti razionalisti che, nei sobborghi periferici inedificati della capitale, erano riusciti a ritagliarsi uno spazio in cui progettare le proprie „macchine per vivere”, già si trovarono a dover affrontare una ondata di riflusso contro le loro posizioni più intransigenti. La scarna estetica e le soluzioni funzionali non erano riuscite a fare breccia nel cuore delle masse. Lo stesso modo di concepire l’architettura come scienza sociale votata alla risoluzione dei mali della società, e non come arte plastica, venne avvertito con sempre maggiore fastidio dagli stessi architetti, o da una parte di essi; Roman Piotrowski si ritrovò a denunciare in un suo articolo del 1936 i tentativi di eliminazione dei razionalisti dalla confraternita degli architetti, come se questi fossero una «pericolosa zavorra»2.

Bohdan Pniewski, invece, scrisse, ormai già nel secondo dopoguerra, come, nella Polonia della metà degli anni Trenta, si fosse diffusa

una generale delusione in relazione alla cosiddetta architettura moderna. Inizialmente si manifestò nel pubblico, soprattutto per effetto degli insuccessi di tipo pratico di tale tipologia di architettura, ma anche, in grande misura, a causa della sua abbagliante incongruità con ciò che la circondava. Altra cosa fu il fatto che, in Polonia, il pubblico più vasto non venne mai veramente convinto dall’architettura moderna, anzi piuttosto ne consentiva l’esistenza pur di non mostrarsi „arretrato”, provando una nostalgia silenziosa per lo dwor e le sue colonne3.

La crisi economica che investì il paese, e che nella capitale bloccò per qualche anno l’intero settore dell’edilizia, cominciò a risolversi solo dopo il 1934. Il rigore, la monotonia sempre latente e la mancanza di un legame con le tradizioni locali dello stile internazionale venivano ormai avvertiti con insofferenza sempre maggiore. Comparvero

1

S. Bojko, op. cot., p. 270.

2 R. Piotrowski, Architektura i TOR, «AiB» 7 (1936), pp. 222-9.

numerosi edifici, soprattutto residenziali, ma anche commerciali, dalle finiture di lusso e dalle strutture assolutamente moderne. Se alcune di queste nuove costruzioni d’elite si rifacevano ai principi classici del funzionalismo à la Le Corbusier, come la sede della Compagnia telefonica1, la maggior parte di esse, tuttavia, utilizzavano i motivi decorativi, del tutto estranei alla proposta razionalista, per appagare il gusto estetico di quelle classi sociali più agiate che, uscite dagli anni della crisi economica, avevano la ferma intenzione di investire i propri capitali in beni relativamente sicuri quali gli immobili.

Nel frattempo le linee della politica artistica, nei due mggiori centri di riferimento del movimento moderno – Berlino e Mosca – erano totalmente cambiate con l’avvento dei totalitarismi. E questo ebbe un certo peso nel ridare fiato a quegli architetti che non avevano mai accettato le istanze proposte dalle avanguardie2, non solo in Polonia, ma più in generale in tutta l’Europa degli anni Trenta.

La strada del monumentalismo, già imboccata dopo il colpo di stato di Pilsudski, venne ripercorsa con nuovo slancio dopo l’imposizione nel 1934 di Stefan Starzynski, viceministro del tesoro nel triennio precedente, a sindaco commissariale.

Il costante equilibrio fra modernità e tradizione che gli edifici di rappresentanza fino ad allora costruiti avevano saputo mantenere venne sostituito da un monumentalismo classicheggiante, espressione architettonica del parziale totalitarismo che caratterizzò il regime polacco di quegli anni 3. Le scalinate, i colonnati, le proporzioni solenni degli esterni, e i sontuosi arredamenti interni, dove accanto ai marmi e agli elaborati dettagli ornamentali ricomparvero le pitture murali, divvennero il marchio di un’epoca4. Tale passaggio venne segnalato, ad esempio, dagli affreschi inseriti nell’Istituo geografico militare, in corso Jerozolimskie, progettato da Antoni Dygat, o dalla elegante fila di colonne della nuova ala del ministero degli Affari esteri, che aveva trovato sede nello storico Palazzo Bruhlowski, in cui Pniewski era riuscito ad adattare le stilizzate forme moderne a quelle settecentesche del resto del palazzo5.

Oltre alle difficoltà professionali, per gli architetti polacchi dalle idee politiche più radicali questi furono anni difficili anche per le notizie che giungevano dall’estero. I

1 J. Puterman, Gmach Urzedu telekomunikacyjnego w Warszawie, «AiB» 11, (1934), pp. 339-356. 2 A. Kotarbinski, Rozwoj urbanistyki i architektury polskiej w latach 1944-1964. Proba charakterystyki

krytycznej, PWN, Warszawa 1967, p. 17.

3

H. Faryna-Paszkiewicz, Geometria wyobrazni. Szkice i architekturze dwudziestolecia miedzywojennego, Slowo/obraz terytoria, Gdansk 2003.

4 H. Faryna-Paszkiewicz, Architektura Warszawy lat Trzydziestych, «Kronika Warszawy» 1-4 (1990), pp. 55-66.

5 A. Lauterbach, Wnetrze palacu Ministerstwa Spraw zagranicznych, p. 197, in «Arkady» n. 4, 1938, pp. 193-200.

resoconti delle purghe staliniane arrivarono grossomodo nello stesso momento in cui il Partito comunista polacco venne sciolto dal Comintern con l’accusa di trozkismo e di collateralismo con il regime di Sanacja, quando invece nelle piazze di Varsavia si manifestava per mostrare solidarietà all’Abissinia, alla Cina, alla Spagna repubblicana, ma anche per opporsi all’assurdità di una situazione politica interna che aveva visto, dopo la morte di Pilsudski nel 1935, la netta sconfitta elettorale del partito di governo, il Bbwr (Blocco apartititco pe la collaborazione con il governo)

Con la scomparsa di Pilsudski, si decise di dedicare alla memoria del vecchio leader appena venuto a mancare il quartiere di rappresentanza1, sul quale si stava lavorando fin dagli Venti. Gli accenti nazionalistici della seconda metà degli anni Trenta, si coaugularono ovviamente attorno alla figura dell’autore della marcia su Varsavia del 1926, colui che aveva „risanato” la corrotta situazione politica della Polonia dopo averla tenuta a battesimo nel 1918. Il quartiere da intitolare a Pilsudski avrebbe dovuto «immortalare nella capitale il ricordo del Comandante vittorioso che aveva resuscitato lo Stato», e avrebbe dovuto fissare a beneficio delle «generazioni future lo stile dell’epoca di Jozef Pilsudski»2. Queste furono, nel 1938, le parole del sindaco commissariale Stefan Starzynski, la cui nomina, come si ricorderà, era stata decisa dal governo.

Per la localizzazione dell’enorme complesso si poteva utilizzare una vasta area inedificata (Pole Mokotowskie), relativamente prossima al centro. Già nel 1935, dopo la morte di Pilsudski, Stanislaw Brukalski, suggerì di trasformare Pole Mokotowskie nella principale attrazione di Varsavia, «un tempio all’aperto alla nazione polacca» come potevano essere gli Champs Elisees a Parigi o Central Park a New York, e, non ultima, via dell’Impero nella Roma di Mussolini3, il cui riadattamento era stato accuratamente studiato. Zygmunt Skibniewski, invece, evidenziò come questa fosse «l’ultima occasione per realizzare una grande composizione urbanistica moderna a Varsavia»4.

La „regia architettonica” venne affidata a Pniewski, mentre le soluzioni urbanistiche vennero curate da Jan Chmielewski. Il punto focale di questa faraonica realizzazione doveva essere il Tempio della Divina Provvidenza5, collocato alla fine di

1 I. Grzesik-Olszewska, Swiatyna Opatrznosci i dzielnica marszalka Pilsudskiego. Konkury w latach

1929-1939, Wydawnictwo sejmowe, Warszawa 1993.

2

S. Starzynski, Rozwoj stolicy. Odczyt wygloszony w dniu 10 Czerwca 1938 r. na zebraniu urzadzonym

przez Okreg Stoleczny Zwiazku Rezerwistow, Warszawa 1938, pp. 83 e 85.

3 S. Brukalski, Pole mokotowskie,p. 42, «AiB» 2 (1935), pp. 42-3. 4

Z. Skibniewski, Nowa wspaniala dzielnica, p. 350, «AiB» 11-2 (1938), pp. 350-6.

5 Sad konkursu na projekt Swiatyni Opatrznosci Bozej, «AiB» 9/10 (1930), pp. 322-395; Urbanistyczne

un grande viale, il futuro corso Pilsudski. Più che un edificio di culto, avrebbe dovuto essere un monumento alla nazione (della cui costruzione si era parlato fin dalla fine del Settecento). Nel 1921, tramite decreto governativo, 1 era stato indetto un concorso «per il progetto di una chiesa-tempio denominata «della Divina Provvidenza», da realizzarsi nella capitale. Il tempio, che sarebbe sato edificato grazie ai fondi provenienti dalle casse dello stato e dalle libere offerte votive, avrebbe dovuto essere «un ringraziamento della nazione per la riconquista dell’Indipendenza e [avrebbe dovuto] svolgere un ruolo di rappresentaza di carattere statale»2. Presso di esso avrebbero dovuto trovare posto i mausolei intitolati a quelle personalità venute a mancare che erano state «riconosciute meritevoli dal Parlamento della repubblica»3.

Secondo le condizioni poste dal concorso, la chiesa avrebbe dovuto affacciarsi su una piazza capace di accogliere i fedeli che non avessero trovato posto al suo interno nelle occasioni di celebrazione, nonchè l’esercito e i suoi mezzi militari. All’interno dell’edificio, era prevista, in prossimità del presbiterio, una vasta zona per le autorità dello stato, il governo, i senatori e i parlamentari, i generali e gli alti gradi dell’esercito, l’episcopato e i diplomatici stranieri.

Un secondo concorso, venne indetto nel 1931; a testimonianza della solennità dell’opera, nella giuria trovarono posto, fra gli altri: lo stesso Pilsudski, in qualità di vicepresidente del senato, il primate polacco August Hlond, l’altro vicepresidente del senato, don Seweryn Czetwertynski, il sindaco di Varsavia, e fra i tecnici, gli architetti Stanislaw Brukalski, Franciszek Lilpop, Edgar Norwerth, Tadeusz Tolwinski.. Il Cardinale Aleksander Kakowski, arcivescovo di Varsavia e membro della giuria riassunse le richieste della Chiesa in una relazione estremamente dettagliata in cui si legge che:

I vescovi a capo delle diocesi hanno l’obbligo di controllare che [...] le forme consolidate dalla tradizione e dai principi dell’arte religiosa vengano conservate durante la costruzione o l’estensione delle chiese. [...] In generale l’episcopato desidera che [...] gli architetti prendano in considerazione i postulati dello Stato e quelli della Chiesa [...]; che [...] il Tempio della divina provvidenza risponda al concetto di tempio cattolico, ovvero che non sia un edificio laico, simile a una centrale a gas, a un centro commerciale, a una stazione ferroviaria, o anche a un padiglione espositivo di una mostra nazionale o internazionale; che gli architetti

1 Ustawa z dnia 17 marca 1921 o wykonaniu slubu uczynionego przez Sejm Czteroletni wzniesienia w

Warszawie swiatyni pod wwzwaniem „Opatrznosci Bozej”, «Dz.U.R.P.» 30 (1921) poz. 170, pp. 377-8.

2 Konkurs na projekt swiatyni „Opatrznosci Bozej” w Warszawie, «AiB» 7 (1929) p. 277. 3 Ustawa z dnia 17 marca 1921..., p. 377.

considerino che vi è una grande differenza fra una pagoda pagana, una moschea

musulmana, una sinagoga ebraica, e una cattedrale cristiana...1

L’alto prelato concludeva con una parziale apertura alla modenità affermando che, fra gli stili in cui la chiesa poteva essere progettata, poteva esservi anche quello moderno, dal momento che era già stato impiegato all’estero con successo.

Dal concorso uscì vincitore Bohdan Pniewski, un architetto che con le sue ricche e suggestive creazioni – aveva progettato anche il Tribunale municipale2 – si era guadagnato un consenso pressochè generale, perlomeno nella alte sfere politiche della capitale. Il progetto presentato si distinsed «per l’unità della composizione [...], così come per l’armoniosa composizione dei volumi». Il significato sacro del monumento era stato felicemente conseguito dall’autore, si legge nel verdetto della giuria, «attraverso l’innalzamento delle masse del corpo centrale della costruzione». Le necessità rappresentative erano state soddisfatte in maniera ineccepibile, grazie alle esplicite citazioni che rimandavano a San Pietro, negli interni così come nella piazza ovale antistante3. Nel suo progetto, ulteriormente precisatosi nel corso degli anni, Pniewski era riuscito, come scrisse Norwerth, a evitare i «suggerimenti del modernismo insano, il modernismo del nostro tempo, quello delle forme nuove a grande prezzo, di forme che già domani verrano battute da forme più nuove e più efficaci»4.

Pochi anni dopo, tuttavia, la situazione cambiò nuovamente. Con la morte di Pilsudski si sentì la necessità di creare un intero quartiere da dedicare alla memoria del padre della patria. Di conseguenza, il tempio avrebbe dovuto essere inserito in un contesto urbanistico completamente rinnovato. Le novità maggiori riguardavano i suoi dintorni. La piazza ovale di fronte all’edificio era scomparsa, ed era stata sostituita da