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Gli anni che intercorrono tra il 1 settembre 1939, quando a Varsavia vennero sganciate le prime bombe da parte dell’aviazione tedesca, e il 17 gennaio 1945, giorno della definitiva liberazione della città da parte dell’Armata rossa, sono generalmente noti per gli episodi più significativi di tale periodo, ovvero la sollevazione del ghetto ebraico del 1943 e l’insurrezione della città dell’anno successivo1. Questi due momenti, per quanto importanti, esulano tuttavia dalle finalità del presente scritto, e vengono richiamati, quando necessario, solo sommariamente. Per ragioni del tutto simili, e per motivi di spazio, l’analisi della straordinaria crescita delle attività di resistenza condotte dello stato clandestino polacco, che aveva il proprio centro direzionale proprio nella Varsavia occupata dai nazisti, nonché dei metodi utilizzati dai tedeschi nei confronti della popolazione civile di Varsavia (arresti di massa, fucilazioni, deportazioni, retate) nell’instaurare il loro regime di terrore, è stata volutamente evitata.

Altri studi, di maggiore interesse per chi scrive, hanno invece approfondito l’analisi della spaventosa mole di distruzioni che, oltre a lasciare in rovina la gran parte dell’edificato della capitale polacca, sconvolse la popolazione civile, nonché la sua stessa composizione etnica. Bisogna infatti ricordare come nel 1945 gli abitanti di Varsavia fossero stati ridotti a poco più di 162.000 (quando nel 1939 Varsavia contava quasi 1.300.000 abitanti) solo 22.000 dei quali presenti sulla riva sinistra della Vistola, il cuore della città che fu liberato per ultimo. Ma se anche gli edifici si potevano ricostruire e la città si poteva ripopolare, ciò che non poté mai più tornare a far parte di Varsavia fu la sua numerosa comunità ebraica, più di 300.000 abitanti, sterminata dai nazisti2.

É dalle distruzioni della Seconda guerra mondiale che bisogna quindi partire se si vuole capire il significato più profondo dell’opera di ricostruzione post-bellica, un’operazione che venne vissuta come un impegno dell’intero popolo polacco proprio perché la distruzione della capitale era stata prima di tutto un consapevole tentativo di colpire al cuore l’intera nazione polacca. Dwight Eisenhower ebbe a dichiarare nel corso di una breve visita a Varsavia nel settembre del 1945:

1 A tal proposito si vedano, ad esempio, i testi di K.Dunin-Wasowicz, Warszawa w latach 1939-1945, PWN, Warszawa 1984, J. M.Ciechanowski, The Warsaw Rising, Cambridge 1974; oppure M. Edelman, Il

ghetto di Varsavia: memoria e storia dell'insurrezione, Roma 1993.

Vorrei che ogni soldato americano potesse vedere le rovine di Varsavia, e allora capirebbe perchè i polacchi odino così tanto i tedeschi. Ho visto molte guerre e molti campi di battaglia, ma non ho mai visto distruzioni così prive di senso e così infinitamente malvagie. Questa è stata non solo una lotta contro la nazione polacca,

ma anche una lotta contro la cultura polacca 1

Ricostruire quello che i tedeschi avevano distrutto, era, quindi, l’ultimo e definitivo atto di resistenza nei confronti dell’occupante nazista. Fu questo, un sentimento molto diffuso, che venne immediatamente percepito sia dagli studiosi di scienze sociali – che ne fecero motivo delle proprie riflessioni2 – sia dalla nuova classe dirigente – che ne utilizzò le potenzialità in maniera da consolidare la propria legittimità.

Fin dal giorno della conquista della città, avvenuta il 28 settembre 1939, i nazisti si erano adoperati per togliere a Varsavia le sue funzioni direzionali e il ruolo di riferimento politico che le derivava dall’essere l’indiscussa capitale dei polacchi. A partire da quella data, come ricorda il varsavianista Karol Morawski, lo scopo principale della politica territoriale degli occupanti tedeschi divenne, infatti, quello di pervenire all’eliminazione della città quale centro politico e culturale della nazione polacca3. In ottobre si compì la spartizione della Polonia: le sue terre occidentali vennero annesse al Reich, mentre quelle orientali furono occupate dall’Unione sovietica. La parte centrale della Polonia che comprendeva i territori che non erano stati direttamente accorpati alla Germania o all’Urss – e cioè le provincie di Varsavia, Cracovia, Lublino, Kielce, Radom, Czestochowa e Lodz, circa 90.000 km2 abitati da quasi 10 milioni di persone – andarono invece a costituire un nuovo Generalgouvernement, la cui sede amministrativa centrale venne volutamente installata a Cracovia, che divenne così la capitale della nuova entità politico-territoriale. Nel contempo, Varsavia venne degradata a sede periferica di uno dei quattro distretti provinciali del Generalgouvernement.

Negli anni a seguire, dopo aver ridotto l’ex-capitale a una città di periferia del Reich, le autorità di occupazione affidarono agli architetti e agli urbanisti collaborazionisti tedeschi il compito di produrre dei piani per perseguire, non solo dal punto di vista amministrativo, l’involuzione strutturale e il ridimensionamento

1

Prez. Bierut dekoruje gen. Eisenhowera krzyzem Grunwaldu I klasy. Wielki dowodca zwiedza stolice

Polski, «Zycie Warszawy» 262 (1945), p. 1.

2 S. Ossowski, Odbudowa stolicy w swietle zagadnien spolecznych, in S. Ossowski, Dziela, tom III, Warszawa 1967, in J. Gorski, Pamiec Warszawy odbudowy 1945-1949, PIW, Warszawa 1972 e W. Lipinska, Spoleczne oblicze Warszawy, Skarpa Warszawska, (25) 1946, p. 4.

territoriale della città. Gli scopi ultimi di tale politica di gestione del territorio vennero riconosciuti dallo stesso governatore distrettuale, Ludwig Fischer, in un memoriale del 1944 in cui scrisse che, da quando era diventato governatore, tutta la sua azione di governo, per quanto riguardava la città, era stata finalizzata a «privare Varsavia del suo carattere di centro della repubblica polacca, e contemporaneamente a intraprendere tutto quanto fosse stato necessario affinché Varsavia, anche sotto l’aspetto delle misure [fisiche], non solo non potesse ingrandirsi, ma, al contrario, subisse un ridimensionamento»1.

Quando, dopo la capitolazione della città, venne ordinato di non avviare l’opera di ricostruzione e di riparazione dei danni causati dai bombardamenti aerei, si ebbe una prima immediata manifestazione delle intenzioni degli occupanti. I primi discorsi sul futuro di Varsavia risalgono a questo periodo, e precisamente ad un incontro fra Hitler e Hans Frank, avvenuto nel novembre del 1939, nel quale vennero presentate delle strategie di germanizzazione della città che prevedevano la distruzione di molte aree urbane, in modo da ricavare il terreno necessario per l’edificazione di ville monofamiliari in grado di ospitare 200.000 coloni tedeschi (piano Gross). Ma non se ne fece nulla, e l’attività di progettazione vera e propria ebbe inizio solo nel ’40.

Il primo piano di germanizzazione, poi erroneamente conosciuto come piano Pabst, dal nome dell’architetto che lo firmò, senza però aver partecipato alla sua redazione, fu preparato da una squadra di urbanisti provenienti da Würzburg (Hubert Gross, Erwin Suppinger, Otto Nürnberger, Hans Grimm, Max Kretschmar). Portava l’eloquente titolo di Der abbau der polenstadt und der aufbau der deutchenstadt (La distruzione della città polacca e la costruzione di quella tedesca). Prevedeva una drastica riduzione delle dimensioni territoriali della città (da 140 km2 a 15 km2). Le uniche aree che dovevano essere conservate intatte erano quelle della Città vecchia e dei Giardini sassoni – gli architetti tedeschi, infatti, vi avevano rintracciato tracce indiscutibili della loro origine germanica – dove si sarebbe insediata una comunità tedesca di 130.000 persone. La popolazione di nazionalità polacca sarebbe stata relegata oltre i confini della Varsavia tedesca, al di là del fiume, nella zona meno sviluppata della città. In un’area di 1 km2 avrebbero dovuto ammassarsi circa mezzo milione di polacchi, che avrebbero costituito una riserva di manodopera da impiegare nel lavoro fisico. Più in là ancora, nell’area di Brodno, 140 ettari erano stati temporaneamente riservati alla

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Memorial Ludwiga Fischera z poczatku 1944 r. w sprawie Warszawy (Il memoriale di Ludwig Fischer

sulla questione di Varsavia), RW I, 1960, pp. 314-15, cit. in K. Dunin-Wasowicz, Warszawa w latach 1939-1945, Warszawa 1984; p. 128.

numerosissima comunità ebraica. All’epoca non si pensava ancora di rinchiudere gli ebrei in un ghetto, né tantomeno di sterminarli.

Era, questo, un progetto perfettamente in linea con il pensiero di Hitler, riportato da Frank nel proprio diario pochi mesi dopo: «per quanto riguarda Varsavia, il Führer ha deciso che la sua ricostruzione come metropoli polacca non verrà presa in considerazione in nessun caso. Il Führer si augura che, in relazione allo sviluppo complessivo del governatorato generale, Varsavia sia ridotta al rango di centro provinciale»1.

Privata del suo ruolo direzionale all’interno della nuova struttura amministrativa tedesca, ridotta (sulla carta) nelle sue dimensioni fisiche all’interno dei piani degli urbanisti tedeschi, Varsavia doveva inoltre essere sistematicamente spogliata del patrimonio artistico e architettonico che aveva acquisito nel corso dei secoli durante i quali era stata il centro dello stato polacco. Durante tutti gli anni dell’occupazione la propaganda nazista presentò, infatti, la civiltà autoctona (slava) del vicino Governatorato generale come inferiore rispetto a quella tedesca. A tal proposito lo storico tedesco Max du Prel2 nel 1942 scriveva che

Varsavia non appartiene al novero delle città che lasciano delle impressioni durevoli. Quello che vi è di artistico, si lascia percepire solamente in maniera frammentaria e, oltre a ciò, è interessante notare come esso provenga proprio dall’epoca del grande influsso culturale germanico, quando vi furono erette le costruzioni più importanti, dal punto di vista artistico, dell’intera storia della città. Si tratta del periodo tardo-medievale, allorché a Varsavia la borghesia germanica svolgeva un ruolo centrale, e dell’epoca dei monarchi sassoni. Solo questo vale la pena di essere visto.

In questa ottica Pabst, nell’ottobre del 1942, elaborò un progetto, dal titolo Brückenkopfbauung an der stadtbrü del 1942, dei disegni in cui compariva, al posto del Castello reale, il simbolo della città più caro all’intera nazione polacca, una enorme wolkshalle, fronteggiata da una statua della vittoria che avrebbe dovuto rimpiazzare l’altro monumento di grande valore simbolico di Varsavia, la Colonna di re Sigismondo.

Gli oggetti architettonici che erano il lascito della secolare opera di civilizzazione tedesca, o quelli che avrebbero potuto essere utili, vennero invece restaurati e trasformati nelle sedi dei vari organismi tedeschi. La galleria d’arte Zacheta, solo per fare un esempio, divenne la Casa della cultura tedesca.

1

R. Polubiec (a cura di), Okuacja i ruch oporu w dzienniku Hansa Franka 1939-1945, Warszawa 1970, t. II, p. 230.

Con l’evolversi delle operazioni belliche, i sogni riduzionisti tedeschi si rivelarono però completamente incapaci di disinnescare la centralità economica e geo- politica di Varsavia e dovettero essere accantonati. Quando, nel 1941, venne lanciato l’attacco contro l’Unione sovietica, la città sulla Vistola divenne infatti il principale snodo ferroviario sulla strada che dalla Germania portava verso Mosca. Fu così che lo sfruttamento del potenziale produttivo della popolazione locale, costretta a lavorare nelle fabbriche, e l’estensione delle strutture di acquartieramento della Wehrmacht, risultarono più adeguati rispetto ai bisogni logistici dell’esercito tedesco. Paradossalmente, quindi, le esigenze belliche impedirono alla Germania nazista di procedere in maniera decisa nell’opera di trasformazione-ridimensionamento della città attraverso gli strumenti della progettazione urbanistica.

La germanizzazione della città, d’altronde, non era andata oltre una divisione dello spazio urbano secondo una logica razziale: la minoranza tedesca si era installata in un quartiere tedesco (aleje Ujazdowskich, aleja Sucha, plac Unii Lubelskiej) posto nelle zone centrali, quelle in cui gli edifici e le infrastrutture erano di più alto valore qualitativo. In questo senso, molto apprezzati dai tedeschi furono le costruzioni realizzate a Varsavia negli anni più recenti dagli architetti del movimento moderno. Erano nuove, funzionali, e dotate spesso di finiture di pregio. Gli ebrei, invece, erano stati rinchiusi in un affollatissimo ghetto ricavato nella zona settentrionale della città, un’area già in precedenza a fortissima maggioranza ebraica. Ai polacchi rimanevano le parti restanti.

Il fallimento dei piani di germanizzazione si consumò a causa soprattutto delle caratteristiche socio-economiche di Varsavia. Né di non secondaria importanza, però, fu il fatto che la città, negli anni dell’occupazione nazista – quando formalmente era stata degradata al grado di capoluogo periferico – mantenne intatto nell’immaginario del popolo polacco, il proprio ruolo di capitale e di centro della nazione. Gli stessi comandi nazisti ebbero ben presto a che fare con lo spirito indomabile di Varsavia quando la città divenne il centro della resistenza polacca1.

1Hans Frank, governatore generale, scrive che in Polonia «vi è un punto che è fonte di grandi sciagure: è Varsavia. Se nel Governatorato Generale Varsavia non ci fosse, le difficoltà che stiamo affrontando in questo momento si ridurrebbero di quattro quinti. Varsavia è, e sarà, la sorgente di ogni genere di disordine, il luogo dal quale la confusione si propaga in tutto il paese […] Dovremmo fare tutto quello che è nelle nostre capacità per porre fine, con il pugno di ferro, a tutto questo ». In R. Polubiec (a cura di),

Okuacja i ruch oporu w dzienniku Hansa Franka 1939-1945, Warszawa 1970, t. II, pp. 327-328. Il

frammento citato è del 14 dicembre 1943. Il testo è una selezione delle pagine dell’edizione originale Das

La centralità economica di Varsavia, derivante dalle capacità produttive del suo apparato industriale, fu ovviamente sfruttata dai nazisti per alimentare la propria macchina bellica, ma questo permise alle forze della resistenza di coagularsi in un vero e proprio stato clandestino parallelo, dal momento che il grado di sorveglianza dei tedeschi, per quanto alto, non poteva essere illimitato. Non solo la produzione industriale, ma anche la letteratura, la musica, l’arte, la stampa, l’editoria, continuarono ad avere una propria vita parallela, nonostante la durezza dell’occupazione, perchè Varsavia era, e rimase, il centro pulsante della Polonia occupata, anche se, per i tedeschi, la nuova capitale era Cracovia.

Per quanto concerne la pianificazione spaziale, ad esempio, negli studi clandestini del Pau, il Laboratorio architettonico-urbanistico, diretto da Szymon Syrkus, fu prodotta una gran mole di progetti urbanistici e architettonici, che venne poi utilizzata per la ricostruzione del dopoguerra, in regime di continuità piuttosto sostanziale con la pianificazione territoriale del ventennio interbellico. E altri laboratori di progettazione erano attivi presso la Facoltà clandestina di architettura e presso la Commissione degli esperti di urbanistica diretta di Tadeusz Tolwinski1.

Nel frattempo la comunità ebraica, rinchiusa in un ghetto di poco più di 400 ettari fin dal 1940, era stata decimata dalla fame e dalle epidemie di tifo. Nell’estate del 1942, dopo che vi erano stati trasferiti molti ebrei provenienti da altri paesi dell’Europa centro-orientale2, i nazisti avviarono il programma di deportazione della popolazione del ghetto verso il campo di sterminio di Treblinka. In meno di due mesi, più di 250.000 ebrei salirono sui convogli ferroviari nella piazza di raccolta e di carico posta al limite settentrionale del ghetto, la Umschlahplatz.

Alcuni degli ebrei lasciati nel ghetto per fare andare avanti la macchina produttiva tedesca diedero invece vita a uno degli episodi più ricchi di significato della millenaria storia della comunità ebraica3: si ribellarono. A partire dal 19 aprile ’43 si rifiutarono di consegnarsi ai propri aguzzini, una cosa che non avevano mai fatto in

1 L’abilità e l’immediatezza dei polacchi nell’organizzare le proprie forme di resistenza contro gli occupanti nazisti vennero indiscutibilmente esemplificate dal fatto che la Commissione degli esperti di urbanistica venne attivata già nel 1939 su intervento del vice-sindaco della città, Jan Pohanski, e che il Laboratorio architettonico-urbanistico operava nelle sale della Impresa edile sociale, formalmente riconosciuta dalle autorità tedesche. Si veda T. Kotaszewicz, Koncepcje przestrennego rozwoju Warszawy

w pracach Tadausza Tolwinskiego, 1916-1946, Warszawa 1994, e H. Syrkus, Ku idei osiedla spolecznego 1925-1975, PWN, Warszawa 1976, in particolare il capitolo intitolato Il Laboratorio architettonico-

urbanistico dell’Impresa edile sociale e la Cooperativa d’abitazione varsaviese nel periodo dell’occupazione (gennaio 1940- gennaio 1945), pp. 229-80.

2

In questo periodo, la primavera del ’42, nel ghetto furono rinchiusi anche degli zingari.

3 Si veda I. Gutman, Resistance. The Warsaw Ghetto Uprising, Houghton Mifflin Company, Boston 1994.

precedenza. Settecentocinquanta giovani, capeggiati da Mordechaj Anielewicz e da Mauricy Apfelbaum, totalmente privi di addestramento militare e armati in maniera alquanto approssimativa, riuscirono a tenere testa alle truppe tedesche, adoperando la tecnica della guerrilla, nascondendosi nelle cantine, nei bunker sotterranei, nei tunnel appositamente scavati. Pur consapevoli di non aver nessuna speranza resistettero a oltranza. La reazione tedesca fu spietata: 50.000 civili ebraici furono deportati a Treblinka, mentre i rivoltosi furono uccisi sul posto. Il quartiere venne meticolosamente raso al suolo, edificio per edificio. L’ultima costruzione ad essere distrutta dal Kommando del gen. Jurgen Stroop fu la sinagoga maggiore, il 16 maggio ‘43.

Un anno più tardi, il 1 agosto 19441, scoppiò l’insurrezione di Varsavia, a cui i nazisti risposero scatenando la propria furia distruttrice su tutta la città. L’Armata rossa, che aveva lanciato la propria offensiva contro i tedeschi il 23 giugno 1944, si stava avvicinando sempre di più a Varsavia. L’Ak (Armia krajowa), l’esercito polacco, era riuscito ad infiltrare circa 150.000 armati in città. Il problema che si presentava ai comandi militari polacchi era quello di non far scoppiare l’insurrezione troppo presto, quando l’esercito nazista in ritirata fosse stato ancora in grado di sopprimere la rivolta, oppure troppo tardi, permettendo così ai sovietici di entrare in città indisturbati, con al seguito il Comitato di liberazione nazionale (Pkwn) fedele a Stalin e inviso ai vertici militari polacchi presenti in città. L’ordine di far scoppiare l’insurrezione venne dato quando, nel quartiere di Praga, sulla sponda orientale della Vistola, vennero avvistati i primi carri armati sovietici, esattamente nel momento in cui, però, le armate tedesche si stavano riorganizzando per contrattaccare. I sovietici, che erano ormai giunti alle porte della città, decisero di non intervenire in aiuto dei polacchi, consapevoli che i tedeschi potevano annientare la loro resistenza armata, liberando la città da molti di quegli elementi che in futuro avrebbero potuto dimostrarsi dei temibili oppositori. Il 2 ottobre, dopo 63 giorni di combattimenti pesantissimi, i rivoltosi furono costretti alla firma della resa.

L’11 ottobre Himmler ordinò di radere al suolo la città: «Bisogna pacificare Varsavia. In tempo di guerra ciò significa raderla al suolo, per quanto questo non interferisca con le operazioni di rafforzamento della difesa»2.

Dopo la capitolazione della rivolta, nell’ambito degli accordi con i nazisti, la popolazione civile venne fatta evacuare, in gran parte nel campo di Pruszkow, dove si

1 Si veda, a tal proposito, N. Davies, Hearth of Europe. The Past in Poland’s Present, Oxford University Press, Oxford 2001, pp.64-68

concentrarono 350.000 (secondo le fonti tedesche) e forse anche 550.000 varsaviani (secondo le fonti polacche)1. Le strategie dell’esercito, ad ogni modo, ebbero un peso relativo rispetto alla decisione di distruggere la città. L’ordine di radere al suolo la città, infatti, mal si conciliava con le strategie dei comandi tedeschi locali, che volevano creare una sistema difensivo (noto come Festung Warschau, il cui comando avrebbe trovato posto nella Casa dello studente di piazza Narutowicz) capace di bloccare l’Armata rossa e di impedirle un facile accesso al sistema di comunicazione. Le esigenze militari, tuttavia, si dispiegarono in un contesto permeato da un profondo odio razziale nutrito, e alimentato, dai vertici del Reich nei confronti di un popolo, quello polacco, la cui sola esistenza era sentita, come ebbe a dire Himmler in un proprio discorso, come un impedimento, risalente a più di settecento anni prima, per l’espansione della razza tedesca verso Est2.

A seguito dell’ordine di Himmler, squadre appositamente equipaggiate di esplosivi (Vernichtungskommando) e di lanciafiamme (Brennkommando), percorsero le vie appiccando il fuoco alle case, mentre gli edifici più importanti vennero fatti saltare in aria. Per le vie del centro comparvero dei numeri, dipinti con vernice rossa sui palazzi e sulle costruzioni di maggior valore storico, che indicavano l’ordine secondo il quale dovevano essere distrutte tali costruzioni. La priorità spettava a quelle che gli storici tedeschi avevano giudicato essere le più importanti per la storia del popolo polacco. Dopo alcuni giorni, le strade che erano già state «pacificate», venivano sottoposte a nuove perlustrazioni e a nuove distruzioni, per avere la certezza che nulla che avesse un seppur minimo valore fosse rimasto in piedi. L’opera di annientamento di Varsavia durò fino al giorno precedente la liberazione della città, avvenuta il 17 gennaio 1945. Il 16, infatti, la biblioteca di via Koszykowa venne data alle fiamme.

Nei 100 giorni in cui si sviluppò l’azione distruttiva dei nazisti, Varsavia perse