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Il percorso di rinnovamento architettonico-urbanistico seguito da Varsavia nel corso del ventennio interbellico fu alquanto discontinuo. Nel campo delle arti, diverse furono le anime che riuscirono a convivere l’una accanto all’altra, mischiandosi e contaminandosi a vicenda. Nel 1918, all’architettura e all’urbanistica venne chiesto di assolvere un compito particolarmente importante: trasformare una ex-città di provincia dell’Impero russo in una moderna capitale di uno degli stati più grandi dell’Europa centro-orientale. A Varsavia, tuttavia, uscita dalla Grande Guerra senza che il suo tessuto urbano avesse subito danni particolarmente consistenti, la ricerca di concezioni creative con le quali dare corpo alla ritrovata unità nazionale proseguì, almeno in un primo momento, secondo le linee tracciate prima dello scoppio del conflitto.

Già con gli inizi del nuovo secolo, nelle terre polacche divise, si era manifestata una ferma volontà di riscoperta e di affermazione della propria identità nazionale, nata nella tradizione romantica e alimentata dai lunghi anni di smembramento statale in cui l’espressione dello spirito nazionale (polkosc) era stata interdetta dalle autorità di dominanzione straniera. Questo fenomeno prese inevitabilmente vigore nel momento in cui, dopo il crollo degli imperi centrali, lo stato polacco riuscì a recuperare la propria antica sovranità politica. Fu, questa, una tendenza abbastanza comune a tutta l’area geografica dell’Europa centro-orientale di inizio Novecento, dove, sotto la spinta delle ideologie nazionaliste, le numerose nazionalità presenti nella regione avevano cominciato a tollerare con fatica sempre maggiore l’autorità degli imperi multinazionali1. E in Polonia, come ricorda lo storico dell’arte Adam Milobedzki, «la lotta per l’indipendenza [...] utilizzava anche le parole d’ordine dell’architettura nazionale polacca»2.

Costretta a svilupparsi sotto il pesante giogo russo, che si era tradotto nella quasi totale mancanza di investimenti statali volti all’ammodernamento dell’assetto urbano, Varsavia aveva potuto affidarsi, per l’espansione del proprio patrimonio architettonico, solamente alla borghesia e all’intelligentsia. I palazzi costruiti per questi gruppi sociali, tuttavia, non riuscirono quasi mai ad andare oltre la pomposità di un banale

1 Per una trattazione più dettagliata di tali questioni si veda I. Berend, Decades of crisis. Central and

eastern Europe before World War II, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 1998.

2 A. Milobedzki, Orientamenti dell’architettura in Polobia, 1918-1939, p. 3, in «Rassegna» 65 (1996), pp. 6-13.

accademismo imitativo dell’Ecole des Beaux-Arts1, e la scena architettonica varsaviana continuò a rimanere piuttosto sonnolenta se comparata a quella di altre grandi città europee. L’Art Nouveau, che all’epoca stava rinnovando l’aspetto di interi quartieri a Parigi, Bruxelles, Vienna, Barcellona, e nella stessa Cracovia, a Varsavia non riuscì a produrre più di una decina di edifici2.

In questo primo scorcio del Novecento gli architetti polacchi più richiesti provenivano sovente delle accademie e degli istituti russi. Ma il contesto culturale di riferimento non doveva essere molto ricco, se è vero ciò che riporta Pawel Wedziagolski a proposito delle convinzioni di almeno due suoi colleghi dell’epoca, secondo i quali Palladio e Vignola erano fra i principali agenti di russificazione dell’arte polacca, grazie alle cattedre di architettura di cui erano titolari a San Pietroburgo.3. In realtà, proprio i molti architetti polacchi che si erano diplomati nella capitale russa – fra questi i più dotati furono certamente Marian Lalewicz (1876-1944) e Adolf Szyszko-Bohusz (1880- 1942) – avevano impostato il proprio percorso artistico sulla ricerca di forme universali classiche e non sulla ricerca di uno stile nazionale polacco, in un momento in cui, però, nella inesistente Polonia di inizio Novecento le nuove ideologie nazionaliste avevano stimolato la ricerca di linguaggi artistici in grado di esprimere i sentimenti della nazione.

In questo clima di fermento nazionalista, il processo di riscoperta e di valorizzazione della cultura locale e del folklore tradizionale era stato paradossalmente avviato proprio nella Varsavia sottoposta alla rigida dominazione russa, e non a Cracovia, una città in cui, negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, le nuove idee riformatrici che provenivano dalle maggiori capitali dell’arte europee (in particolare, ovviamente, la secessione viennese) avevano potuto penetrare grazie alle libertà concesse dal governo asburgico.

Quella che ben presto divenne una vera e propria ricerca dell’identità nazionale trovò delle prime risposte nelle geometriche forme decorative artigianali e nelle tradizionali architetture in legno della regione pedemontana di Podhale, nei pressi di Cracovia, dove venne riportato alla luce uno stile vernacolare locale, il cosidetto stile di Zakopane. A fare tale „scoperta” furono gli intellettuali e gli artisti, provenienti in gran

1

M. Lesniakowska, Warsaw as an architectural centre at the turn of the century, p. 140, in P. Krakowski et al. (a cura di), Art around 1900 in Central Europe, Krakow 1999, pp. 135-50.

2 A. K. Olszewski, Nowa forma w architekturze polskiej 1900-1925. Teoria i praktyka, Wroclaw 1967, pp. 52-7.

3 P. Wedziagolski, O szkole architektury, p. 49, «Architektura i Budownictwo», (d’ora in avanti «AiB») 4 (1928), p. 41-58.

parte da Varsavia, che si erano diretti a sud sull’esempio del medico Tytus Chalubinski, recatosi nella poverissima regione durante gli anni Settanta dell’Ottocento per curare un’epidemia di colera. Un contributo decisivo venne dato anche dal pittore e scrittore Stanislaw Witkiewicz, che si dedicò alla progettazione di chalet in legno (per committenti molto facoltosi) secondo quanto imparato a Zakopane, sfruttando la collaborazione di architetti a lui vicini, come Mikolaj Tolwinski, padre di quel Tadeusz che nel 1916 avrebbe firmato il primo piano di estensione territoriale di Varsavia1.

Lo stile vernacolare, trasportato a Varsavia da Zakopane, non riuscì tuttavia ad attecchire, e cominciò a declinare verso la fine del primo decennio del Novecento, dopo aver suscitato una notevole ondata di entusiasmo, soprattutto negli strati più agiati della popolazione della città. Il tentativo di nazionalizzare quello che era un prodotto locale era fallito, anche a causa dello scetticismo con il quale venne accolto dagli architetti di professione2.

Intanto, a partire dal 1908, grossomodo negli stessi anni in cui lo stile di Zakopane si stava sviluppando, molti architetti polacchi formatisi nelle accademie di mezza Europa – chi voleva studiare architettura, soprattutto nell’area russa, era costretto ad andare all’estero – avevano cominciato a fare rientro in patria. Tra questi Z. Kalinowski era tornato da Karslruhe, e Czeslaw Przybylski, da Vienna. Nel giro di pochi anni li seguirono Romuald Gutt, da Winterthur in Svizzera e un folto gruppo proveniente dal Politecnico di Dresda: J. Galezowski, Rudolf Wierczynski, Marcin Weinfield, Jozef Kohn, e Alekasander Bojewski.

Queste personalità segnarono «una nuova era» dell’architettura varsaviana3. L’obbiettivo rimase il medesimo, dare corpo allo „spirito nazionale polacco”, ma la strada imboccata non fu più quella dell’arte popolare. Grazie proprio alla presenza della nuova generazione di architetti, a Varsavia la ricerca architettonica si pose il problema di come superare lo storicismo accademico neoclassicheggiante che aveva contraddistinto le maggiori realizzazioni dell’epoca (come il Politecnico o la Galleria d’Arte Zacheta, o le decorazioni del ponte Poniatowski) o il romanticismo dello stile di Zakopane. Fu proprio in questo momento che comparvero i primi esperimenti di architettura moderna in Polonia, ad opera di quella che fu la prima generazione di

1 Cfr. cap. 1. 2

D. Crowley attribuisce alla freddezza degli architetti di professione, che videro nello stile di Zakopane il prodotto di sforzi dilettantistici, il motivo del declino. D. Crowley, Finding Poland in the Tatras: local

and national features of the Zakopane style, pp. 317-34, P. Krakowski et al. (a cura di), Art around 1900 in Central Europe, Krakow 1999, pp. 317-34;

3 A. Raniecki, Warszawa w Krakowie, p. 16, in (s.n.a.), Fragmenty stuletniej historii 1899-1999. Relacje,

architetti modernisti varsaviani, come ha ricordato più volte il critico d’arte Andrzej K. Olszewski1, secondo il quale, nella Varsavia del quinquennio precedente lo scoppio della Grande Guerra,

gli architetti più famosi, similmente ai loro coetani europei, avevano gradualmente abbandonato il decorativismo (storicismo, secessione), tentando di ricercare forme semplici, in grado di far emergere la struttura in cemento dell’edificio, che rispondessero ai cambiamenti tecnici e sociali dell’epoca.

Si cominciò a costruire seguendo i motivi di un „classicismo semplificato”, i cui tratti erano più cosmopoliti che nazionali: le nuove sedi della Banca nazionale polacca (1912-17) e della Banca delle compagnie sociali – il primo edificio moderno di Varsavia2, denominata la Casa sotto le aquile, Dom pod orlami, a causa delle statue che la decoravano – entrambe progettate da Jan Heurich figlio (1873-1925)3, segnarono il tono dei cambiamenti in atto. Altre opere, come la chiesa di san Giacobbe (1909-23), di Oskar Sosnowski, rivisitarono con la stessa impostazione semplificatrice i motivi del romanico.

Questa apertura verso le tendenze provenienti dall’estero, avvenuta prima dello scoppio della guerra, non aveva affatto decretato l’eliminazione della spinte più nazionalistiche, nonostante l’effimera consistenza dello stile di Zakopane.

Nel 1913, a Varsavia, il critico dell’arte e architetto Stefan Szyller – dopo che nel 1900 aveva visto realizzata la Galleria d’Arte Zacheta, da lui progettata secondo gli obsoleti motivi del Palazzo dell’Esposizione di Roma (terminato nel 1882) in un periodo in cui a Vienna la Secessione era in piena esplosione – aveva infatti sentito il bisogno di chiedere a se stesso e ai propri colleghi del locale Circolo degli Architetti se esistesse effettivamente una architettura tipicamente polacca4. Un risposta a tale questione, si ebbe con la comparsa del cosiddetto styl dworkowy, derivante, perlomeno idelamente, dallo stile di Zakopane – secondo quanto scrive Olszewski5 – e basato sulle forme delle ville di campagna dell’aristocrazia polacca, dagli alti tetti spioventi e dallo stretto portico centrale sostenuto da leggere colonne, riconosciute come una tipica

1 A.K. Olszewski, Architektura Warszawy (1918-1939), in A. Janowska (a cura di), Warszawa II

Rzeczypospolitej 1918-1939, t. I, PWN, Warszawa 1968;, pp. 287-319;

2 M. Lesniakowska, Architektura w Warszawie, Arkada, Warszawa 2000, p. 60.

3 S. Noakowski, Jan Heurich jako architekt-artysta, «AiB»12 (1926), pp. 1-18. Jan Heurich figlio divenne in seguito, l’autore da copiare. La Dom Hr. Raczynskich, terminata nel 1910 in piazza Malachowski, divenne, infatti, il modello per il realismo socialista polacco.

4 Tale relazione venne successivamente pubblicata sulle pagine di dieci numeri diversi di Przeglad

Techniczny. Cfr. S. Szyller, Czy mamy architekture polska?, in «Przyglad Techniczny» (d’ora in avanti

«PT») n. 34, 35, 36, 37, 38, 39, 43, 44, 51, 52, Warszawa 1913. 5 Vedi A.K. Olszewski, op. cit., pp. 30-2.

espressione dello spirito nazionale. Il suo ostentato culto per il passato, che vedeva nello dwor, ovvero nella tradizionale residenza della nobiltà terriera polacca, la fonte da cui trarre le forme plastiche da far rivivere, ebbe un grande successo nei primi anni di indipendenza nazionale, quando quasi tutti gli architetti, anche quelli che in seguito sarebbero diventati dei fermi sostenitori del credo modernista (Romuald Gutt e e Rudolf Swierczynski, ad esempio), utilizzarono tale stile, molto apprezzato dalla committenza più danarosa1.

Anche in materia di assetto urbanistico, le soluzioni impiegate nei primi anni del dopoguerra furono per lo più tradizionali. Come si è visto, lo stile di Zakopane, la cui fulminea popolarità era destinata a spegnersi lasciando dietro di sè un numero molto esiguo di manufatti architettonici, aveva contribuito ad orientate i gusti delle classi superiori. Nei complessi di Zoliborz Oficerski2 (Zoliborz degli Ufficiali) e di Zoliborz Urzednicy (Zoliborz degli Impiegati), le tipologie abitative più utilizzate furono così le case singole, o bifamiliari, o a schiera, che riprendevano i motivi dello dwor. A tal proposito, l’architetto Aleksander Raniecki scrisse in un articolo comparso in una rivista specialistica dell’epoca3:

questo quartiere è stato costruito nei primi anni di indipendenza dello stato, quando gli architetti polacchi vivevano esclusivamente delle tradizioni passate, dedicando molto spazio all’affetto per le componenti della cosiddetta edilizia locale. Solo nel campo della progettazione della rete viaria seguivano le correnti [più moderne] e operavano conformemente alle teorie dell’Occidente.

La disposizione spaziale dell’intero quartiere, infatti, aveva come modello il sobborgo- giardino inglese (Hampstead Garden Suburb 1905-09) e le esperienze di Raymond Unwin, Barry Parker e Golders Green. I motivi dello styl dworkowy e della garden-city si fusero, quindi, per dar vita a dei sobborghi-giardino in cui le classi impiegatizie potessero vivere in maniera sufficientemenrte decorosa, spesso a poche centinaia di metri di distanza dai quartieri operai più disagiati. Altri esempi di cio che fu chiamato anche romantyzm dworkowy (romanticismo dello dwor) o „tradizionalismo della piccola città” furono la colonia dei professori in ulica Gornoslaska, le colonie Staszica e Lubecki, e le nuove abitazioni costruite nell’area di ulica Filtrowa e Langiewicza.

1 Tale popolarità dei motivi architettonici tradizionali esploderà anche dopo il collasso del regime comunista. Negli anni Novanta del XX secolo, infatti, i nuovi ricchi si rivolgeranno, per l’appagamento dei propri bisogni di auto-rappresentazione, esattamente alle stesse forme, quelle derivanti dallo styl

dworkowy.

2

Vedi Kolonia Oficerska na Zoliborzu, in «Architekt» 1925, n. 2, numero monografico.

3 A. Raniecki, Dzial mieszkaniowy wystawy Mieszkanie i miasto, p. 34, in «AiB» 6 (1926), n. 6, pp. 29- 36.

I primi anni di indipendenza furono inoltre contrassegnati dall’urgente problema di trovare delle sedi adeguate per gli organi del nuovo apparato statale. Inizialmente si preferì riadattare i palazzi già esistenti: il palac Radziwill divenne la sede del Consiglio dei ministri, il Prymasowski ospitò il ministero dell’Agricoltura, l’Ossolinskich quello degli Affari esteri, il Krasinskich la corte suprema, il Raczynskich quello della Giustizia1.

Quando invece si decise di costruire ex-novo, lo stato dimostrò una certa preferenza per un tipo di architettura più classicheggiante, vicina agli ideali del Palladio, ma decisamente più monumentale. Come scrive H. Bilewicz, «le forme rinascimentali- barocche o classiciste locali, modernizzate e stilizzate, oppure presenti come citazioni, dovevano risvegliare la sensazione della forza e della capacità di resistenza della tradizione culturale»2. La Banca statale dell’Agricoltura (1918-31) con il suo grande portico e l’abbondanza di marmi, fu uno dei palazzi più fastosi ad essere completati nell’Europa del primo dopoguerra. Purtroppo, la sua localizzazione, assolutamente infelice (in una stretta via secondaria del centro), non rese omaggio alle proporzioni dell’opera. Ma la „tradizione” di costruire i palazzi pubblici «come se fossero stati dei volgari palazzi d’affitto»3 (senza inserirli cioè in una cornice di spazio pubblico sufficientemente vasto per poterli valorizzare adeguatamente), che aveva le sue motivazioni nella cronica carenza di spazio nel centro della Varsavia ottocentesca, nel ventennio interbellico fu ulteriormente accentuata, come ebbe a lamentarsi, fra gli altri, Stanislaw Rozanski, capo del Dipartimento di progettazione del comune negli anni Trenta e uno dei più rispettati urbanisti polacchi di tutto il Novecento.

Un momento esemplare di espressione dell’identità nazionale e della conseguente negazione del passato trascorso sotto la dominazione russa si ebbe subito dopo la fine della Grande Guerra, con la distruzione della cattedrale ortodossa di plac Saski, che era stata terminata solamente nel 1912. Le sue cinque cupole dorate a forma di cipolla troneggiavano a più di 70 metri d’altezza su quella che all’epoca era la piazza principale di Varsavia. Subito dopo la riconquista dell’indipendenza si era aperto il dibattito sul futuro di un edificio che veniva avvertito come un simbolo della passata dominazione straniera, se non addirittura come un attentato allo spirito nazionale.

1 J. Zachwatowicz, op. cit., p. 281.

2 H. Bilewicz, Monumentalna architektura miedzywojennej Warszawy, p. 37, in «Architektura» n. 3, 1995, pp. 36-41.

3 S. Rozanski, Stefan Starzynski a urbanistyka Warszawy, p. 113 in M. M. Drozdowski, Wspomnienia o

La gran parte della società varsaviana, nonchè molti degli stessi specialisti, era favorevole alla totale demolizione dell’opera. Fra le poche voci contrarie, Stanislaw Noakowski1 propose una trasformazione mirata che privasse l’edificio del suo aspetto inconfondibilmente russo e ne conservasse l’innegabile monumentalità. Avrebbe potuto essere utilizzato per altri scopi, non necessariamente religiosi. La stessa Lega dei costruttori polacchi espresse una posizione del tutto simile a quella di Noakowski. Perdipiù, la distruzione di un edificio del valore stimato di circa 40 milioni di marchi, sembrava un’assurdità anche dal punto di vista economico, dato che la demolizione sarebbe costata non meno di 5 milioni di marchi2. Nel 1920 la questione arrivò fino in parlamento dove venne addirittura costituita una commissione speciale. Alla fine, la cattedrale ortodossa di Varsavia, la più grande in tutta l’Europa orientale, venne rasa al suolo nel 1925, solamente tredici anni dopo essere stata ultimata.

Fig. 3: la cattedrale di plac Saski agli inizi del Novecento. Venne demolita negli anni

Venti dopo il recupero dell’Indipendenza. In D. Crowley, Warsaw, Reaktion books, London 2003, p. 85

Il bisogno di riannodare i legami con il passato nazionale, però, non aveva affatto intaccato la permeabilità di una parte della società polacca rispetto alle prepotenti spinte rinnovatrici provenienti dall’estero, in un paese che rimaneva, al cospetto dell’Europa occidentale, sostanzialmente povero e arretrato. Se gli anni della formazione della nuova maniera moderna di intendere l’arte del costruire furono quelli del decennio precedento lo scoppio della Prima guerra mondiale, gli anni della completa

1 J. Dzeiekonski, Pomysly prof. Noakowskiego, «PT» 9-12 (1919), p. 45-6. 2 Protokol posedzenia Zwiazku budowniczych polskich, «PT» 5-8 (1919), p. 31.

maturità furono quelli che videro l’esplosione delle avanguardie razionaliste e costruttiviste in tutta Europa. Nonostante tutte le sue contraddizioni – anzi proprio grazie a queste – negli anni Venti e Trenta, la capitale della Polonia divenne, infatti, uno dei focolai di propagazione della nuova architettura, grazie anche alla contiguità geografica con quella repubblica di Weimar che così tanto spazio diede agli architetti moderni.

Nella capitale della ricostituita Polonia, il dualismo fra gli slanci internazionalistici e il bisogno di affermazione dell’identità nazionale ritrovata si legò anche, come è stato messo in evidenza di Isabella Wislocka1, a un naturale meccanismo di trapasso generazionale, ovvero alla comparsa sulla scena di una nuova generazione di giovani architetti, i primi laureati del Politecnico varsaviano del dopoguerra, che entrarono nel mercato del lavoro a partire dal 1923-24. La tradizione polacca di mandare i giovani migliori a studiare all’estero aveva dotato il paese di una classe piuttosto numerosa di architetti, che andò a formare il corpo docenti del Politecnico di Varsavia, quando questo fu istituito grazie al benestare delle autorità d’occupazione tedesche. Dall’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo arrivavano Stanislaw Noakowski (1867-1928), Jozef Dziekonski (1844-1927), Czeslaw Domaniewski (1861- 1936) e il già ricordato Marian Lalewicz. Karol Jankowski (1868-1928) si era diplomato a Riga, Tadeusz Tolwinski (1887-1951) a Karlsruhe, Z. Kaminski a Parigi, Aleksander Bojemski (1885-1944) a Dresda, Rudolf Swierczynski (1887-1943) si era diviso tra Dresda e Darmstadt. Oltre a questi, anche Szymon Syrkus (1893-1964), che sarebbe diventato il rappresentante più conosciuto delle avanguardie varsaviane, aveva studiato architettua spostandosi tra Vienna, Graz, Riga, e Mosca. Infine, Stanislaw Brukalski (1894-1967), collega di Syrkus nei Ciam (Congressi internazionali di architettura moderna), prima di laurearsi in patria aveva invece cominciato gli studi a Milano. Questi giovani si dimostrarono molto più favorevoli alle novità propugnate dalle avanguardie europee rispetto alla precedente generazione che, una volta ritornata in patria dopo gli anni di formazione trascorsi nelle capitali europee, aveva preferito dedicarsi alla ricerca delle radici nazionali. Lo stesso Politecnico di Varsavia si aprì alle nuove correnti moderniste. L’attività di reclutamento dei migliori esponenti polacchi, nonchè l’appello per il ritorno in patria dei professionisti che praticavano all’estero, resero la sua facoltà di architettura un luogo di proficui contatti con le realtà estere. L’ eccellenza della classe docente, inoltre, costituita non solo da architetti, ma anche da

molti ingegneri, rese il Politecnico un laboratorio famoso per i suoi insegnamenti tecnici non solo in Polonia, ma in tutta l’area dell’Europa centro-orientale. La cattedra di urbanistica, ad esempio, era stata attivata già nel 1915, in pieno conflitto, pochissimi anni dopo l’instituzione, a Liverpool nel 1909, della prima cattedra di Civic Design inglese.

I termini si di questa transizione sono stati messi in evidenza da Czeslaw Witold Krassowski1, secondo il quale sembrava che, in questo periodo, l’attività degli architetti

in qualche maniera oscillasse tra due poli: l’architettura concepita come all’inizio del diciannovesimo secolo, ovvero come „arte della muratura e della costruzione”, e l’architettura intesa come „l’arte dell’operare con lo spazio e con il tempo”. Nel primo caso si trattava soprattutto di innalzare edifici „belli, forti e resistenti” [...], nel secondo di creare un edificio che fosse un oggetto di utilizzo capace di soddisfare condizioni predeterminate, ma che costituisse solo uno degli elementi attraverso i quali, come scriveva Szczuka [uno dei maggiori esponenti delle

avanguardie], „l’individuo riempie se stesso di spazio e di tempo”2.