• Non ci sono risultati.

Gli interventi legislativi nell’Ottocento

Nel documento La questione sarda tra Otto e Novecento (pagine 35-39)

Già nella prima metà dell’Ottocento, a partire dal momento della fon- dazione della Reale Società Agraria ed Economica Sarda (24 luglio 1804), prima la legge detta delle chiudende, poi i successivi provvedimenti che portarono all’abolizione del regime feudale, con il conseguente riscatto delle terre, poi ancora la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico, avevano contribuito da una parte all’aumento della proprietà privata parcellare, in- crementato il numero dei piccoli proprietari (in breve e sempre più spesso

10 In particolare i territori di Sinnai, Maracalagonis e Burchi. Cfr. gli interventi di G. Murgia, Uo- mini, terra e lavoro nella Sardegna sud-orientale in età moderna, A. Cappai, Usi civici e cussor- gie nella Sardegna sud-orientale tra diritto privato e interesse collettivo, e di M. Masia, Adem- privi e cussorgie: consuetudine e attualità, in Usi civici e diritti di cussorgia. Convegno provin-

ciale, Sinnai 22 aprile 1989, pp. 15-57.

costretti a disfarsi di quei fazzoletti di terra a vantaggio dei latifondisti), dall’altra avevano accresciuto il numero e l’ampiezza dei latifondi12. Quindi, sebbene con volto nuovo, perdurava la grave situazione socio e- conomica del secolo precedente13, con l’aggiunta di maggiore confusione ed incertezza. La legge, insomma, aveva raggiunto l’effetto opposto a quello dichiarato14.

L’editto delle chiudende era stato il frutto dell’elaborazione del Mini- stro Prospero Balbo, coadiuvato da Giuseppe Manno, che rivestiva in quel momento il ruolo di primo ufficiale della Segreteria di Stato per gli affari di Sardegna, e intendeva ricollegarsi all’esperienza della politica riformi- sta condotta dal Bogino e formalizzata dal Gemelli, benché l’esperienza maturata nella seconda metà del Settecento fosse difficilmente riproponi- bile dopo l’età napoleonica. Balbo era cosciente che quel particolarissimo provvedimento avrebbe potuto, nella migliore delle ipotesi, apportare solo alcuni correttivi ad una realtà sociale ancora di antico regime. Il ministro,

12

R. Di Tucci, La proprietà fondiaria in Sardegna, cit., p. 20.

13 F. Corridore, Storia documentata delle popolazioni di Sardegna, 1479-1901, Torino 1902, pp.

45-46, ove tra l’altro si legge: «quando nell’Isola il vero stato di prosperità non si poteva raggiun- gere perché l’industria e l’agricoltura erano inceppate dalle corporazioni d’arte e mestieri, dalle mete annonarie, dalle restrizioni alle libertà dei commerci, dalle proprietà imperfette causate dai diritti d’ademprivio e di cussorgia e dalla comunanza e servitù dei pascoli, cui erano soggetti i terreni aperti».

14 Sull’editto delle chiudende cfr. anche U.G. Mondolfo, Terre e classi sociali in Sardegna nel periodo feudale, Torino 1903; C. G. Mor, Le leggi sulle chiudende (1820-1839), S.l. 1938; I. Pi-

rastu, Genesi e caratteristiche della criminalità: la legge sulle chiudende (1820), in Commissione

parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna: istituita con legge 27 ottobre 1969, n. 755, Roma 1972, pp. 104-115; G. Todini, G. Murgia, Le Chiudende nel territorio di Nuoro prima e dopo la pubblicazione del Regio Editto 6 ottobre 1820, in “Bollettino

dell’Associazione Archivio Storico di Sassari”, vol. 2 1976, pp. 25-65; G. Todini, Le Chiudende

nel territorio di Oliena prima e dopo la pubblicazione del Regio Editto 6 ottobre 1820, in “Bollet-

tino dell’Associazione Archivio Storico storico di Sassari”, vol. 3 1977, pp. 139-174; I. Bussa, Le

Chiudende: il problema generale e l’applicazione dell’Editto del 1820 a Bolotana, in “Quaderni

Bolotanesi”, vol. 5, 1979, pp. 25-56; M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Carte segrete, Roma 1972, in particolare il capitolo L’editto delle chiudende: la terra, il clero, i poveri, in Sardegna; F.A. Bua, Echi e reazioni nel Monteacuto all’Editto sulle chiudende, in “Archivio storico e giu- ridico sardo di Sassari”, n. 2 1995, pp. 287-305; G. Doneddu, Ceti privilegiati e proprieta fondia-

ria nella Sardegna del secolo 18., Giuffrè, Milano 1990; Id., Proprietà e chiusure dei terreni. Il mito delle chiudende, Unidata, Sassari 1996; T. Moro, Il riscatto dei feudi in Sardegna e la teoria del dominio diviso, in “Quaderni Bolotanesi”, vol. 22 1996, pp. 247-281; I. Zedda Macciò, Pae- saggio agrario e controllo della proprietà fondiaria nella Sardegna dell’Ottocento: il contributo della cartografia, in Ombre e luci della restaurazione, Atti del convegno, Torino 21-24 ottobre

1991, Roma 1997, p. 444-497; P. Irde, Dalla terra di nessuno alla propietà perfetta: politica delle

pur ritenendo personalmente di non particolare urgenza l’abrogazione dell’istituto feudale, riteneva «dannoso […] proibire la chiusura dei terre- ni»; l’intervento, dunque, eludendo intenzionalmente la questione feudale, doveva perseguire il duplice obiettivo di risolvere la contese socio- economiche in favore dei possessori delle tanche e degli agricoltori, e pe- nalizzare, senza darlo troppo a vedere, i feudatari e i pastori15.

L’editto, pubblicato nel 1823, consentiva la chiusura di qualunque ter- reno che non fosse gravato da servitù (art. 1), e con il consenso dell’In- tendente Provinciale e l’avvallo del Consiglio comunitativo in caso di soggezione alla servitù di pascolo comune o privato, di passaggio, di fon- tana, di abbeveratoio. La legge, che intendeva offrire massima libertà di coltivazione e svincolare da servitù comuni i possedimenti privati, ricono- sceva l’autorità di recintare anche ai comuni, i quali, a loro volta, avevano la facoltà di vendere, affittare o di ripartire equamente i terreni tra i capi famiglia. Ad ogni modo la legge, come afferma Italo Birocchi, non defini- va la proprietà ed ometteva soprattutto di definire i requisiti necessari oc- correnti per la chiusura. Il proprietario che avesse voluto recintare un ter- reno, poteva farlo senza alcuna autorizzazione preventiva e, soprattutto, senza l’obbligo di presentare una documentazione che attestasse la legit- timità del proprio diritto16.

Il provvedimento legislativo, osteggiato dal ceto feudale non solo per le ovvie ragioni istituzionali, ma anche economiche, dal momento che proprio dalla pastorizia brada gli perveniva la maggior parte del reddito, non ottenne l’effetto che il governo di Torino avrebbe desiderato. Nono- stante un sensibile incremento delle domande di chiusura, registratosi sul finire degli anni Venti, l’applicazione dell’Editto continuava ad apparire complessa e difficoltosa. Ciò anche per le ridotte risorse finanziarie di cui potevano disporre le comunità di villaggio.

15 P. Balbo, Considerazioni sul diritto dei feudatari di impedire le chiusure, in C. Sole (a cura di), La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, Fossataro, Cagliari 1967, pp. 317-335; su

questo importante personaggio è doveroso ricordare, poiché si tratta di uno studio di notevole impegno ed interesse, G. P. Romagnani, Prospero Balbo intellettuale e uomo di Stato (1762-

1837): I. Il tramonto dell’antico regime in Piemonte, Torino 1988, e II Da Napoleone a Carlo Alberto (1800-1837), Torino 1990. Entrambi i volumi sono a cura della Deputazione subalpina di

Storia Patria, Palazzo Carignano.

16 I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna, Giuffrè, Milano 1982, pp. 32-44;

La lacunosità della legge aveva condotto perfino a situazioni parados- sali, per cui non solo notai, avvocati ed ecclesiastici, ma anche alcuni e- sponenti del ceto feudale erano giunti a chiudere terreni, realizzando palesi abusi e macroscopiche usurpazioni come la privatizzazione di strade, di boschi e di abbeveratoi17. E, paradosso nel paradosso, proprio i Consigli comunitativi, organismo creato nel 1771 dal governo sabaudo con l’intento di porre un freno agli abusi feudali, e dunque di dare maggior impulso alla politica di scardinamento del vecchio impianto istituzionale del Regnum, insomma di favorire la “modernizzazione”, si erano spinti in prima linea nella difesa degli usi di dominio comunitario, e dunque in di- fesa di quelle forme di collettivismo che il governo di Torino si proponeva di eliminare. Tutto ciò aveva prodotto, com’era naturale, disordini e som- mosse ad opera di pastori e piccoli contadini, cui era seguita una dura re- pressione18.

Così il regime delle terre nei primi due decenni della seconda metà dell’Ottocento consisteva nella piccola proprietà parcellare, nel latifondo e nella vasta estensione degli ademprivi i quali, distanti dai villaggi e data la loro particolare natura, non erano stati soppressi né dalla legge delle chiu- dende, né dall’editto sull’abolizione dei feudi. Ma è facilmente intuibile che la classe dirigente piemontese, che continuava ad essere aliena dal comprendere il sistema socio-economico sardo19, non si rendesse conto

17 A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le strutture, le permanenze, le eredità, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Ei-

naudi, Torino 1988, pp. 116-118.

18 L. Del Piano, La sollevazione contro le chiudende (1832-1833), Sardegna Nuova, Cagliari

1971, pp. 23 e seg.; C. Sole (a cura di), La Sardegna di Carlo Felice, cit., pp. 54-59; cfr. anche gli studi particolari di G. Todini, G. Murgia, Le chiudende nel territorio di Nuoro, cit., pp. 25-65; I. Bussa, Le chiudende: il problema generale e l’applicazione dell’editto del 1820 a Bolotana, in “Quaderni Bolotanesi”, vol. 5 1979, pp. 35-56.

19 Su tale “incomprensione” si può ancora ricordare, anche se di tipo evoluzionistico e unilaterale,

il pensiero di E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1947, cit., Di fatto, se- condo tale categoria interpretativa, il ritardo delle condizioni economiche della Sardegna in parti- colare e di tutto il meridione italiano in generale, era, se non determinato, almeno concomitante con la mancata rivoluzione borghese nelle campagne e col perdurare in esse di sistemi feudali, mentre i centri settentrionali, più capitalisticamente imprenditoriali e competitivi, si adeguavano alle esigenze dei tempi e della classe che aveva gestito la rivoluzione francese. Naturalmente quest’elemento deve essere preso con i dovuti limiti perché anche il Piemonte, nel Settecento, era un’area relativamente depressa rispetto ad altri centri economico-culturali più avanzati, come la Francia, l’Inghilterra e lo stesso Lombardo-Veneto. Ciò costituì un’aggravante nei confronti della Sardegna, anche a causa dello stato di ulteriore subordinazione della sua sparuta borghesia rispet-

che le cause della crisi di esso erano quelle indicate e naturalmente nume- rose altre su cui non è possibile addentrarsi in questa sede. A metà Otto- cento perciò il ceto dirigente avrebbe individuato la causa unica di tutti i mali negli ademprivi, cioè in quella parte della vecchia struttura che anco- ra sopravviveva alla vecchia politica “riformista” che si era protratta dalla metà del Settecento fino quasi all’Unità e, con la sua tipica tenacia, la af- frontò, subito dopo la guerra di Crimea, benché fossero anni in cui ben più ampi ed impegnativi problemi di natura internazionale tenevano impegna- to il Piemonte.

Nel documento La questione sarda tra Otto e Novecento (pagine 35-39)