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La pubblicistica e la stampa dell’epoca

Nel documento La questione sarda tra Otto e Novecento (pagine 43-48)

La pubblicistica sarda della seconda metà degli anni cinquanta, pur re- spirando ancora l’aria torbida di sequestri e censure, da pochi anni, e pre- cisamente dall’aprile del 1848, muoveva i primi passi in regime di libertà di stampa, mostrandosi, per certi versi, già matura e capace di seguire da vicino i contrasti politici in corso e di saper interagire ed incidere in ma- niera significativa sulla formazione dell’opinione pubblica.

Fin dal principio i periodici isolani ebbero il merito di fungere da cassa di risonanza delle principali problematiche che la Sardegna dovette fron- teggiare dopo la «perfetta fusione», e in primo luogo proprio della que- stione ademprivile.

Gli interessi dei vari schieramenti assunsero, sulle pagine dei giornali, forme ben tratteggiate, consentendo il più delle volte, nonostante l’anonimato degli articoli, di delineare in maniera netta la composizione delle redazioni. Lo scontro maturato nella seconda metà degli anni cin- quanta tra “La Gazzetta Popolare” e “Lo Statuto” non rappresentava solo il confronto tra una fazione filoministeriale ed una antiministeriale, ma ri- traeva divergenze politiche ed anche inimicizie personali, a lungo ine- spresse e mantenute sopite dalla censura, tra i deputati sardi ed i gruppi finanziari cui essi facevano riferimento. Il reciproco risentimento che sca- turisce dalla lettura dei due fogli evidenzia quanto fosse lontano l’auspicio che, proprio nello stesso periodo, il 19 gennaio 1856, veniva rivolto da Gavino Fara su “La Favilla”, periodico da lui diretto fino al febbraio del 1856. Il Fara critico nei confronti della politica cavouriana, giunse ad ipo- tizzare la creazione di «un partito sardo, per potere avere una rappresen- tanza veramente sarda, unita, compatta, avente unità di pensieri, unità di scopo. Ventiquattro Deputati uniti faranno in Parlamento rispettare sé stessi e la loro patria», senza tuttavia «farci campioni di idee inattuabili, o di diffondere idee separatiste»27.

27 “La Favilla”, n. 7 del 7 gennaio 1856; concetto questo ribadito più volte, cfr. “La Favilla”, n.1

Alcune testate, tra le quali “La Gazzetta Popolare” e “Lo Statuto” si di- stinsero per l’impegno profuso nell’occasione, palesando precisi interessi politici ed economici dei gruppi finanziari che le sostenevano. In partico- lare “Lo Statuto”, foglio appoggiato dallo stesso Cavour, già a partire dal 1854 aveva intrapreso una campagna di stampa a favore dell’abolizione degli usi civici, caldeggiando l’approvazione dei vari progetti che erano stati presentati, fin dalla relazione esposta in Parlamento da Cavour, il 10 aprile 1854, sull’assegnazione di terreni demaniali ai comuni in compenso dei diritti d’ademprivio28.

Per il giornale allora diretto dal giovane Giuseppe Todde29, i prati co- munali apparivano come tanti «paradossi economici». Ad essere condan- nata era in primo luogo la qualità del pascolo che i terreni gestiti in manie- ra comunitaria non potevano garantire, sottraendo, in questa maniera, mezzi al decollo dell’agricoltura30. Il Todde che solo pochi anni dopo a- sé le critiche trasversali sia della stampa filoministeriale sia di quella democratica che ruotava attorno a Sanna Sanna. Accusata da più parti (“Ichnusa”, “Lo Statuto”, “La Cornamusa”, “Il Ca- pricorno”, “La Gazzetta Popolare”) di scarso realismo “La Favilla” aveva incentrato la polemica contro il direttore e proprietario della “Gazzetta Popolare” Sanna Sanna, ritenuto responsabile di aver assunto atteggiamenti ambigui volti alla difesa di interessi personali (Cfr. “La Favilla”, n. 6,1856).

28 Cfr. “Lo Statuto”, nn. 46 e 47, 29 aprile 1854. 29

Il quale ne abbandonò la direzione l’anno successivo. La scelta di affidare a Giuseppe Todde la direzione del periodico governativo che avrebbe dovuto raccogliere l’eredità de “L’Indicatore Sardo” andava ben al di là della semplice ricerca di una personalità di facciata. Todde, allora ven- tiquattrenne e ancora non contaminato da scontri politici aspri sulla stampa periodica sarebbe ap- parso, agli occhi dell’opinione pubblica, un “volto nuovo”, una figura attorno alla quale Cavour avrebbe potuto ricostruire il consenso moderato nell’Isola. In quel periodo agli impegni accade- mici Todde associava quelli politici. L’impegno dell’illustre economista sardo era in quegli anni finalizzato a far cogliere all’opinione pubblica l’importanza del superamento della polemica crea- tasi intorno all’opportunità o meno della «perfetta fusione», con lo scopo di individuare concre- tamente gli obiettivi che il governo costituzionale avrebbe dovuto conseguire per il miglioramento delle condizioni economiche e sociali isolane; cfr. N. Gabriele, Giuseppe Todde e “Lo Statuto”, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari”, XX (vol. LVII), parte II, 2002, pp. 95-113.

30 «Appena diviso un prato comunale, o noi supponiamo immediata, e continuata una totale colti-

vazione di tutte le terre di un dato paese, ciò che supporrebbe una sovrabbondanza di mezzi nella classe agricola, ed una invidiabile feracità di terreni, e ciò costituirebbe l’apogeo di una agricoltu- ra qualunque, sogno inebriante, anziché oggetto di timori, e di opposizione. Ovvero, più coerenti al naturale progresso delle cose, noi continuiamo a supporre l’alternativa nelle nostre coltivazioni, e qualunque sia il progresso della nostra agricoltura, rimarranno sempre terreni sufficienti alle esigenze del bestiame, più produttivi perché una volta, o l’altra alternativamente coltivati. [...] Come faranno i poveri, sprovvisti di terreni chiusi, a sostenere il loro unico giogo, che ora tengo- no al pascolo nel prato comunale? [...] Sono anzi questi poveri che reclamano la divisione dei prati comunali. [...] Dovranno anch’essi partecipare alla divisione di questi prati, e nella frazione

vrebbe assunto, alla guida della “Gazzetta Popolare”, un atteggiamento critico nei confronti delle forme con le quali Cavour intendeva impiantare nell’Isola la proprietà individuale, nell’agosto del 1854 dalle colonne dello “Statuto” affermava che lo sviluppo, seppur elementare, di un liberismo economico non poteva non essere connesso alle potenzialità di esportazio- ne che l’agricoltura sarda avrebbe potuto, con una certa costanza, garanti- re31. La campagna di stampa dello “Statuto” che, per le proprie posizioni filogovernative, si sarebbe guadagnato l’appellativo di «organo della ca- marilla» e «degno erede dell’Indicatore Sardo», si intensificò negli anni successivi32. La «messa in commercio», come la definiva il periodico, dei beni demaniali era considerata necessaria. Appare opportuno, ad ogni mo- do, precisare che dal ‘48 in poi con la concessione della libertà di stampa, ma per certi versi più timidamente anche prima, i fogli che fecero la loro breve o lunga comparsa sulla scena editoriale quasi mai espressero posi- zioni di esasperata coerenza e di rigido conformismo. Per essere più preci- si il sostegno alla politica governativa non impediva che anche in testate filoministeriali potessero essere espresse posizioni di duro contrasto col governo e che sullo stesso periodico, a distanza di poche settimane, fosse- ro pubblicati articoli di fondo tra loro antitetici. Non desta meraviglia, dunque, che anche dallo “Statuto” potessero provenire accuse al governo di voler calpestare i diritti dei comuni: «Se qualcuno venga a dirci che la vendita dei beni demaniali della Sardegna è già decretata dal Parlamento, è sancita da una legge dello Stato, noi risponderemo che se prima di tutt’altro non si soddisfa alle giuste dimande delle comuni, e non si com- pone con equi assegni la complicata questione degli ademprivi, la legge rimarrà ineseguita, o si commetterà un’ingiustizia, uno spoglio flagran- te»33; e ancora, rispondendo al “Piemonte”34, si auspicava che «nello stu-

loro assegnata potranno liberamente coltivare, o tenervi al pascolo l’unico loro giogo. [...] Non è dunque l’amore per la classe povera quello d’onde nascono le opposizioni alla divisione delle terre comuni, ma piuttosto quello del proprio interesse.»; cfr. “Lo Statuto”, n. 92, 15 agosto 1854.

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«Nei quattro anni scorsi 1849-50-51-52, tra mandorle ed olio d’ulivo l’Isola ha esportato per il valore di due milioni e mezzo di franchi, e noi speriamo che fra pochi anni ne esporterà per un valore molto più cospicuo. Ma per raggiungere quanto prima questo scopo, bisogna appunto to- gliere di mezzo i prati comunali»; cfr. “Lo Statuto”, n. 92, 15 agosto 1854.

32 Cfr. “Lo Statuto”, nn. 19, 21, 26, 88, 101, 105, del 13 e 17 febbraio, 1 marzo, 24 luglio, 16 e 23

agosto e 1 settembre 1855; nn. 6, 12, 22, 25, 26, 27, 83, del 12 e 26 gennaio, 19, 26 e 28 febbraio, 1 marzo e 10 luglio 1856.

diare di rendere perfette le proprietà e di estendere e migliorare l’agricoltura […] non si arrechino gravi danni agli utenti; parendo a noi cosa prudente che quei diritti d’uso vengano modificati e ristretti entro termini più ragionevoli, non già eliminati di sbalzo»35.

Queste saltuarie posizioni di dissenso nei confronti del governo non valsero allo “Statuto” la clemenza della “Gazzetta Popolare” che, Giusep- pe Sanna Sanna in testa, criticò e contrastò con ogni mezzo l’approvazione del progetto di legge del marchese Gustavo di Cavour.

La polemica tra “La Gazzetta” e “Lo Statuto” si intensificò tra il 1858 e il 1859, in particolare sull’opportunità presentata dal foglio governativo di sfruttare i pieni poteri che, su proposta di Cavour, la Camera aveva con- ferito al sovrano per tutta la durata della guerra con l’Austria, per l’emanazione della legge sull’abolizione degli ademprivi. Usufruire dei pieni poteri per una legge di quella natura apparve un abuso poiché l’abolizione degli ademprivi non presentava un interesse generale per tutto lo Stato e tanto meno il provvedimento aveva quei caratteri di urgenza che “Lo Statuto” voleva attribuirgli36. La stampa democratica auspicava, al contrario, che il provvedimento venisse momentaneamente accantonato fino a quando non si fosse formato un nuovo Parlamento più adatto ad e- saminare la questione e a dare maggiore peso agli interessi dei comuni iso- lani. Le pagine dei due maggiori fogli d’opinione presenti allora sul pano- rama editoriale isolano misero in evidenza la presenza di due fazioni con- trastanti, sia tra gli stessi deputati isolani, sia in ambito extraparlamentare.

I deputati contrari alla legge, capeggiati da Giuseppe Musio, intende- vano procrastinare la votazione della legge ed indurre il governo ad intra- prendere nuovi studi sull’argomento. La documentazione presentata da questi consentì di mutare fisionomia alla questione ademprivile e allo stes- so tempo pose sul tappeto alcune altre questioni di assoluta rilevanza: quella morale e quella riguardante il diritto civile37.

In merito alla questione morale egli faceva notare che Carlo Alberto aveva voluto dichiarare di assoluta proprietà dei comuni tutti i beni dema- niali dei feudi già riuniti o che si sarebbero dovuti riunire alla Corona tra-

34 Foglio questo particolarmente caro ai redattori dello “Statuto” per l’attenzione che aveva dedi-

cato alla questione ademprivile, e del quale spesso, sulle pagine del periodico sardo, venivano riproposti articoli, specie sui progetti di colonizzazione dell’Isola.

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Cfr. “Lo Statuto”, n. 22, 19 febbraio 1856.

36 Cfr. “La Gazzetta Popolare”, n. 211 e n. 216 del 7 e 14 settembre 1859. 37 Cfr. “La Gazzetta Popolare”, n. 220 del 19 e 14 settembre 1859.

mite il riscatto. Alla volontà del sovrano la delegazione feudale di Cagliari aveva posto una serie di obiezioni, volte non ad uno stravolgimento del disegno carloalbertino, ma a celare la reale destinazione degli stessi beni. L’uso di questi, nelle intenzioni della delegazione, si sarebbe dovuto riser- vare momentaneamente al Governo, affinché, promuovendo un concorda- to con la Corte di Roma per l’abolizione delle decime, trovasse nei beni il mezzo per compensare il clero senza imporre penosi sacrifici ai comuni. Carlo Alberto dunque aveva mantenuto il possesso dei beni ademprivili a titolo provvisorio, al solo scopo di avvantaggiare i comuni stessi con l’abolizione delle decime e non, dunque, per risanare il fisco. La questione morale alla quale si appellava Musio stava dunque nel far notare al mini- stro che la proposta di legge che si sarebbe voluta presentare a Vittorio Emanuele sarebbe stata in chiara contraddizione con il Regio Editto del 12 maggio 183838.

La seconda questione sollevata dal senatore poneva problematiche di carattere civile. Egli aveva, infatti, presentato al Senato una documenta- zione che svelava che era stata posta a carico dei comuni non solo la somma occorrente per compensare il reddito annuale dei feudatari, ma an- che quella necessaria alla lenta estinzione dei loro capitali. Venivano così smentite le affermazioni del commissario regio, il quale, basandosi sul principio che il dominio delle terre liberate dalla giurisdizione feudale ap- partenesse al Governo, sosteneva che sia una parte del compenso dato ai feudatari per i loro redditi annuali, sia l’intero compenso assegnato agli stessi per l’estinzione dei loro capitali, doveva gravare sulle casse dello Stato39.

L’ufficio centrale del Senato si limitò a disconoscere i documenti, mentre il commissario ed il ministro delle finanze li impugnarono citando davanti alla Camera il caso dei feudi di Villacidro e di Arcais. Benché nei due casi specifici gli stati liquidativi dessero ragione al commissario regio, le argomentazioni del Musio non persero validità anche perché, come da più parti si faceva notare, non si spiegava per quali ragioni si auspicasse l’uso dei pieni poteri per risolvere una questione che il Governo riteneva legittimamente di proprio dominio.

Da questo lungo dibattito il Musio era riuscito a far emergere che la legge sulla proposta degli ademprivi mancava di ogni buon fondamento di

38 Ibidem. 39 Ibidem.

diritto e che, poiché essa si fondava su errori, sarebbe stato necessario lo studio di una documentazione che fino a quel momento era stata opportu- namente occultata.

Ciò che invece “La Gazzetta Popolare” in quel frangente non colse era che il progetto di legge sull’abolizione degli ademprivi non era, come si sosteneva sulle sue colonne, un disegno esclusivo della camarilla isolana, di quei pochi «nemici dell’Isola» e che il Ministero non avesse alcun inte- resse a promulgare la legge sugli ademprivi. Al contrario il governo a- vrebbe solo rimandato l’emanazione di quella legge ritenendo le circo- stanze inopportune per un provvedimento di tale portata e di estrema im- popolarità.

Le invettive del foglio democratico si rivolsero contro “Lo Statuto” che nel frattempo stava profondendo il massimo impegno allo scopo di mo- strare opportuna la promulgazione della legge. Sul periodico ministeriale venne pubblicata tra il 1858 e il 1859 una lunga serie di articoli40 che in- tendevano, da un lato, smentire categoricamente le asserzioni del senatore Musio, relative ai diritti che i comuni avrebbero potuto esercitare sui ter- reni ademprivili in ragione del carico da loro sostenuto per il riscatto dei feudi e, dall’altro, provare i vantaggi che sarebbero derivati all’Isola dall’ottenimento del compenso della metà dei diritti ademprivili41.

Nel documento La questione sarda tra Otto e Novecento (pagine 43-48)