• Non ci sono risultati.

Dalla «perfetta fusione» all’Unità

Nel documento La questione sarda tra Otto e Novecento (pagine 167-184)

Facendo un passo indietro nella strada del tempo, ai fini del presente discorso sembra opportuno ritornare al riscatto dei feudi che a partire dal 1838 determina il drenaggio di notevoli quantità di capitali, sottraendoli ai Comuni; capitali che, corrispondenti anche a due-tre volte l’effettivo valo- re dei feudi, solo in minima parte vengono reinvestiti nell’Isola e, quando ciò avviene, solo per incrementare la proprietà assenteistica64; inoltre, po-

62 G.M. Lei Spano, cit., p. 59. Il Lei Spano, che considera l’emigrazione come un dato strutturale

della questione sarda (considerazione ripresa da N. Rudas, cit., p. 71) in quanto rappresenta una emorragia gravissima dal costo umano e sociale altissimo, in un ambito sotto popolato, non riferi- sce la considerazione a questi anni, sembra tuttavia verosimile affermare che l’emigrazione in Sardegna avrebbe acquisito il carattere di “endemicità” solo dopo lo scoppio della guerra dogana- le con la Francia al tempo del Crispi. Cfr. anche L. Ortu, Aspetti, cit., pp. 20-22.

63 I. Pirastu, Il banditismo, cit., p. 35. 64

Ibidem, pp. 36-39: l’iter di riscatto dei feudi fu il seguente: Carta Reale concernente le denuncie dei feudi, del 19.XII.1835 (istituisce la Delegazione che deve raccogliere i dati sui redditi e diritti dei feudatari); Editto prescrivente la soppressione della giurisdizione feudale, del 21.V.1836; Car- ta Reale riguardante l’accertamento delle prestazioni feudali e Delegazione per la definizione dei corrispettivi); Editto prescrivente i compensi feudali, del 21.VII.1838 (il compenso è dato ai feu- datari in cartelle di rendita al 5% e si bilancia una rendita redimibile di 250 mila lire sarde ed un fondo annuo di 50 mila lire sarde per l’estinzione, a mezzo di sorteggio, del debito contratto coi feudatari). Cfr. anche F. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1831 al 1870, Parte prima, pp. 17-54, (e, specificamente sull’iter del riscatto dei feudi pp. 49-54), Dispense, Anno Accademico 1956- 57, Università degli Studi di Cagliari, Facoltà di Lettere e Filosofia; l’autore mette anche in evi- denza come i feudi maggiori che comprendevano una quota non lontana dalla metà dei territori

co dopo la «perfetta fusione», gli accertamenti catastali e le valutazioni sulla natura dei terreni, compiute nel 1852 dai funzionari piemontesi, fu- rono false e l’aliquota fissata per la Sardegna sul reddito imponibile fu «quasi uguale a quella delle ricche province di Torino e della Lomelli- na»65. In altri termini e per fare un solo esempio, quando il catasto, valu- tando la piana del Campidano alla stessa stregua della “grassa” (qui ov- viamente non si usa l’aggettivo in senso ironico ma con preciso riferimen- to alla conformazione di quel fertile terreno) pianura Padana, mentre quel- la ha in superficie uno strato di humus magro, quasi sempre irrisorio, ca- pace di mascherare appena gli strati inferiori, che sono per lo più pietrosi e sabbiosi, se non fin dalla superficie argillosi, li classifica di prima catego- ria e facendo attribuire un’imposta unica che facilmente in Sardegna, per mancanza di liquidità, viene caricata di assurdi interessi di mora, non fa altro che adeguarsi alle linee generali della politica fiscale del Governo che vuole stabilire un gettito a priori; ciò spiega anche perché i funzionari non vadano tanto per il sottile.

Nel 1865, questa volta poco dopo l’Unità, cede l’ultima valvola di compensazione della economia familiare dei più poveri: sono aboliti i di- ritti di ademprivio, cioè quei diritti di pascolo, legnatico, acqua, caccia e pesca che da secoli consentivano ai più poveri di soddisfare almeno le esi- genze elementari della famiglia66. Tutto ciò getta nella miseria larghi strati di popolazione, sradica interi gruppi familiari e sociali dalla terra e li e- spone anche ad ogni più piccolo vento di crisi67. Un vento che sarebbe di- venuto sempre più impetuoso negli anni Ottanta. Infatti l’invadente crisi della Sardegna, erano posseduti da feudatari che da tempo risiedevano in Spagna: il riscatto da quel momento, impedì che somme ingenti di capitali sardi emigrassero dall’Isola.

65 I. Pirastu, Il banditismo, cit., p. 47; L. Ortu, Aspetti, cit., pp. 14-15 e 34.

66 I. Pirastu, Il banditismo, cit., p. 49 e L. Ortu, Considerazioni sull’abolizione degli Ademprivi (1856-1870), in “Archivio Storico Sardo”, Cagliari 1981, pp. 234 e seguenti; ma specialmente i

capitoli precedenti in questo libro.

67 I. Pirastu, Il banditismo, cit., pp. 47-54. All’imposta fiscale unica si aggiungono le sovraimpo-

ste comunali e provinciali, mentre il riscatto dei feudi produce un effetto perverso che non era stato previsto: «A rendere rovinoso per i comuni ed i loro abitanti il riscatto dei feudi, valutato con larghezza “tanto strabiliante quanto delittuosa”, concorse la forma di pagamento, scelta in modo da far rimpiangere i tributi e le prestazioni feudali. Mentre, infatti, i tributi feudali erano corrisposti in natura e quindi i contadini e pastori potevano versarli nel periodo del raccolto o del- la maggiore produzione di bestiame, il riscatto dei feudi fu di fatto pagato in denaro contante, da una società che poco ne aveva perché adusa al baratto, per di più a scadenze diverse, che non te- nevano conto della produzione agro-pastorale, ovvero del ciclo dell’anno agrario e di quello pa- storale; da tutto ciò conseguiva largo ricorso all’usura, praticata spesso dagli stessi feudatari, o dai loro procuratori, ed il moltiplicarsi dei pignoramenti e dei sequestri».

economica, già presente in tutte le regioni agro-pastorali d’Italia, dopo quell’anno divenne come un’immensa valanga, causata dalle prime chiare avvisaglie della politica di sostegno alla nascente industria del Nord, che avrebbe portato alla denuncia del trattato commerciale con la Francia; proprio di quel mercato, cioè, ove trovavano sbocco il vino, l’olio, gli altri prodotti tipici del Meridione e, per la Sardegna, anche il bestiame, a ri- guardo del quale, in particolare, basti ricordare che nel solo 1883, cioè di uno degli ultimi anni favorevoli, «l’esportazione dei buoi e dei tori della sola provincia di Sassari raggiunse i 26.168 capi»68, per precipitare, negli anni immediatamente successivi, a non più di 200 l’anno. A quel punto l’emigrazione, oppure l’arruolamento nei corpi militari della Stato, quali i Carabinieri, le Guardie di Finanza e le Guardie carcerarie, divengono le uniche alternative al furto, alla rapina, all’abigeato, all’elemosina69.

68

F. Pais Serra, Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica

in Sardegna, Promossa con D.M. 12.12.1894, Roma 1896, p. 75 e segg.; M. Clark, La storia poli- tica e sociale (1847-1914), in Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. IV, L’età contemporanea,

Jaca Book, Milano 1990, pp. 243-285, dove tra l’altro si legge: «Ma il colpo più pesante venne dalla politica governativa. Nel 1887 il governo Crispi impose una nuova tariffa doganale sulle importazioni; per ritorsione i Francesi bandirono o restrinsero fortemente le loro importazioni di merci italiane. La Sardegna, in particolare il settentrione, era divenuta molto dipendente dalle esportazioni in Francia; prima del 1887 ogni settimana lasciavano Porto Torres per Marsiglia quattro o cinque navi cariche di vino, olio d’oliva e bestiame; oltre 26.000 capi di bestiame erano stati spediti nel 1883. Nel 1889 questo commercio era di fatto al collasso. L’esportazione di vino cadde da 433.000 lire nel 1887 a 2.881 lire due anni più tardi; in generale le esportazioni della provincia di Sassari caddero da venti milioni di lire nel 1885 a 400.000 lire nel 1893. Era una ca- tastrofe per i contadini ed i mercanti sardi, specialmente perché non c’erano mercati alternativi facili da raggiungere. I vigneti ed i pascoli per il bestiame grosso furono restituiti alle pecore. La disoccupazione crebbe fortemente ed i salari caddero. I contadini cercavano occupazione nelle miniere, ma le miniere stesse erano in crisi ciclica. Per molti la sola soluzione era l’emigrazione. Questa volta non si trattava di una normale recessione, era una crisi eccezionalmente dura e di lunga durata, che si prolungò dal 1887 fino al 1896, quando di mercato francese venne parzial- mente riaperto. Dopo cinquant’anni di «perfetta fusione» l’economia sarda mancava ancora di capitali, di lavoro specializzato e di mercati; ed i suoi costi di trasporto sulla terraferma erano troppo alti. Le sue sole risorse erano le materie prime, cioè zinco, piombo, lignite, sale e tonno. C’era pochissima attività industriale non mineraria, salvo una fabbrica di berretti ed una piccola «manifattura» di tabacco a Cagliari. La maggior parte dei Sardi abitava nelle campagne e veniva impoverita dalla crisi agricola. La siccità e la deforestazione erano endemiche, come la filossera, la malaria e gli usurai. Molta parte dell’economia rurale era basata sulla tradizionale transumanza, che creava conflitti continui con l’agricoltura stabile».

69 A. Mori, Brevi note statistiche sull’emigrazione sarda nell’interno del Regno secondo i censi- menti dal 1861 al 1921, in Atti del XII Congresso geografico italiano, Cagliari 1935, p. 334 e

segg.; G.M. Lei Spano, cit., p. 331; A. Boscolo, L. Bulferetti, L. Del Piano, Profilo, cit., p. 186, dove in nota si commentano anche i dati forniti nei lavori del Mori e del Lei Spano. Secondo il Mori, meta preferita dei sardi è la Liguria tra le regioni, Roma tra le città, e poi nell’ordine Geno-

Nel momento in cui, sulla base di una fiorente agricoltura, le regioni nord-occidentali del Regno consolidano il processo di accumulazione di capitali, che consentono l’avvio di processi produttivi di tipo industriale, l’intero sud in generale e la Sardegna in particolare non vedono mutare la condizione di crisi produttiva e le tecniche di produzione agro-pastorale, anzi nell’Isola i provvedimenti specifici, a causa dei sistemi con i quali vengono applicati, perpetuano ed aggravano le caratteristiche arcaiche. Nel contempo, l’adozione di strumenti di prelievo fiscale adeguati alle condizioni delle regioni più floride, si trasformano in atti di rapina e di vessazione degli strati di popolazione più poveri, quali i braccianti, i pic- coli proprietari ed i pastori. È quello il momento in cui l’emigrazione in- comincia a divenire endemica: essa si assume il compito che fino ad allora avevano svolto altri tristi fenomeni, endemici da secoli, se non da millen- ni, quali le carestie, le pestilenze, la malaria e le misure profilattiche sco- nosciute o non applicate. Per causa sua la crescita demografica continua ad essere quanto mai lenta, producendo una differenziazione, in peggio naturalmente, tra la Sardegna e lo stesso Meridione italiano.

Il Pais Serra si rende subito conto della gravità della situazione e scri- ve: «non può recare sorpresa che l’emigrazione, già sconosciuta in Sarde- gna, ora prenda uno sviluppo che è allarmante: non per l’entità, ma come sintomo, trattandosi di una regione in cui si lamenta non l’eccesso ma la scarsità della popolazione». Questa sua affermazione rimane ancora oggi quanto mai valida, benché il suo essere “allarmato” derivasse da un errato convincimento – perdurato fino a tempi recenti – secondo il quale i «mo-

va, Torino, Milano, Napoli. Il Lei Spano (cit., p. 332 nota), giunge a stabilire che i sardi arruolati nei Corpi armati dello Stato sono, in percentuale preponderante, di origine contadina. Inoltre poi- ché la Sardegna al 1868 sfiorava appena i 600.000 abitanti e tenendo conto delle vaste estensioni di terre incolte sia al suo interno sia sulle sue coste, appariva veramente singolare che si dovesse cercare il lavoro altrove; in alternativa, pertanto, si cominciava a pensare alle “colonizzazioni” interne, cfr. L Pisano, Stampa e società in Sardegna, Dall’Unità all’età giolittiana, Guanda, Tori- no 1967, p. 63; rimane ancora in parte utile al riguardo P. Lazzarini, Garibaldi e la colonizzazione

della Sardegna, Società cooperativa, Milano 1871, pp. 13-16; così come suscitano ancora altret-

tanto interesse i numerosi articoli che apparvero nel 1871 su “L’Avvenire di Sardegna”, un gior- nale fondamentale sia rispetto alla stampa precedente sia rispetto a quella successiva in Sardegna che stava cominciando ad uscire per l’opera appassionata e talvolta veemente di quel singolare personaggio e ottimo giornalista, per quei tempi, che fu Giovanni De Francesco; cfr. ad esempio i numeri 23-61-84-91-94-95-98-99-100-102-113-117 nei quali si dava ampio spazio al tentativo di rendere rapidamente operativo un nuovo progetto di colonizzazione presentato e caldamente so- stenuto da Garibaldi a dal Conte-ingegnere Aventi di Ferrara.

vimenti migratori si riteneva fossero lo sbocco naturale e fisiologico della eccedenza della popolazione»70.

In realtà quelle opinioni riflettevano la mancanza di chiarezza che esi- steva sul concetto di eccedenza di popolazione, poiché esso teneva conto solo di una parte del problema, quella demografica, e non dell’altra, u- gualmente importante, quella economica; difatti anche una popolazione scarsa può essere “eccedente” rispetto alle risorse di cui si può disporre. Proprio nell’ambito del processo migratorio, il quale, per quanto conside- rato ufficialmente come negativo, non viene realmente frenato dai gover- nanti, nasce il milieu degli sfruttatori che lucrano sui poveri, i quali emi- grano anche in lontanissime regioni (America Latina)71. Ai fatti di natura regionale testé indicati, bisogna aggiungerne altri due che, prima ancora dell’abolizione degli ademprivi, avevano cominciato a mettere in ginoc- chio la già stremata economia isolana: la crisi dei Monti frumentari, che per lungo tempo erano stati un valido sostegno alla produzione per i picco- li agricoltori, e la vendita forzosa ai Comuni, mediante l’Asse del Culto, dei beni appartenuti ai disciolti ordini religiosi72. Così tra il 1839 ed il 1866 questo insieme di fatti e di provvedimenti aveva contribuito a provo- care in Sardegna quella crisi profonda. Con la sola vendita dei terreni a- demprivili si sottrasse un sesto dell’Isola alle economie zonali e si forma- rono altre assai vaste proprietà private che i pochi possessori di denaro li- quido si accaparrarono e cominciarono ad amministrare secondo i soliti criteri assenteistici, in una logica generale di tipo parassitario73.

Dato che quasi tutti i provvedimenti indicati e molti altri ancora, che in questa sede non è il caso di enumerare, erano stati introdotti in Sardegna nel periodo pre risorgimentale e dato che essa è, a quell’epoca, già da oltre un secolo legata agli Stati di terraferma dal punto di vista “istituzionale” formale solo nella persona del sovrano, ma di fatto in maniera assoluta-

70

F. Pais Serra, Relazione, cit., p. 81; A. Pinnelli, Alcuni aspetti dei movimenti migratori in Sar-

degna in La Programmazione in Sardegna, N° 80-81, Cagliari 1980, p. 56.

71 M. Vinelli, La popolazione ed il fenomeno migratorio, cit., pp. 28-39; L. Del Piano, Documenti

229, cit., A. Boscolo, L. Bulferetti, L. Del Piano, Profilo cit., pp. 182-183; A. Satta Dessolis, Dati

e considerazioni, cit., p. 49. 72

In forza dell’articolo 20 della legge 7 luglio 1866 n. 5036, per la soppressione degli Ordini e Corporazioni religiose a molti comuni dell’Isola si concedeva l’occupazione di conventi ed altri beni in cambio della corresponsione di un canone annuo.

73 I. Pirastu, Il banditismo, cit., pp. 49-53: Legge 23 aprile 1865, che abolisce i diritti di adempri-

vio e di cussorgia e impone ai Comuni di vendere i terreni ex-ademprivili entro tre anni. Cfr. an- che L. Ortu, Considerazioni, cit., pp. 235-259.

mente dipendente dal Piemonte, si può affermare che fu utilizzata come banco di prova del metodo che poi sarebbe stato adottato per tutti i Sud, non solo per quello geografico, della nuova Italia.

Più esplicitamente si volle costruire uno Stato nel quale regioni pro- fondamente diverse per storia, costumi ed interessi furono bruscamente messe insieme, anzi “annesse” a formare un unico organismo politico. È da ritenere che tutto ciò sia avvenuto non perché erano state dimenticate le “particolari cautele” necessarie per compiere quella difficile operazione ma perché così pareva necessario a molti operatori della politica, convinti che fosse l’unica via imposta dalla realtà effettuale degli anni ’50-60 dell’Ottocento europeo: ad ogni modo si poteva portare così a compimen- to il compromesso tra la borghesia del Nord e gli agrari del Sud. Come balzò subito agli occhi fin dal principio, cioè quando era ancora in corso l’impresa garibaldina e poco dopo (con la presa di Venezia e di Roma) quando la poesia risorgimentale non fece più velo alla prosa – quella prosa che pure si era immediatamente e tragicamente manifestata con una vera e propria campagna militare contro il brigantaggio meridionale – si ritenne che quel metodo fosse necessario sia rispetto alle esigenze politiche sia rispetto alle esigenze economiche che erano state tra le motivazioni pro- fonde del movimento risorgimentale. Lo stesso metodo, appena raggiunta l’unità, fu mantenuto ed anzi perfezionato dai governi e della Destra e del- la Sinistra storica, con vari espedienti, come la tassazione ingiusta. Al ri- guardo infatti non si può dimenticare l’imposta sulla macinazione dei ce- reali, quanto mai iniqua nel Sud e specialmente in Sardegna, che restò in vigore per ben dodici anni; ancor meno si può dimenticare quella che può essere definita “la via italiana al protezionismo” la quale fu tracciata in forma organica, per la prima volta, con una precisa politica di relazioni internazionali, del decennio 1878-1888 e che, tra le nefaste conseguenze per il Sud, determinò anche il trasformarsi dell’emigrazione da fenomeno episodico, spesso stagionale e sempre limitato nel tempo, in una vera e propria emorragia di risorse umane74. Nel frattempo, si sviluppava un di- battito, tra gli addetti ai lavori, tortuoso e ipocrita, fatto di compromessi e “distinguo”: si teorizzava su emigrazione spontanea, tradizionale, accetta- ta, ed emigrazione artificiosa, definita eccessiva, spopolatrice, incrementa- ta da «agenti speculatori, preti, eversori, potenze straniere»75.

74 L. Ortu, Aspetti, cit., pp. 11-12. 75 E. Sori, Il dibattito, cit., p. 4.

Dunque, poiché in Sardegna si era sperimentato il metodo che poi sa- rebbe stato adottato per la futura unità d’Italia, fatta di plebisciti e “annes- sioni”, bisogna osservare che tutti i fenomeni che poi si sarebbero manife- stati in Italia già si erano verificati, sia pure in misura minore, con qualche lustro di anticipo rispetto al Meridione, in quanto questo non era ancora unificato. In mezzo a tali fenomeni, per quanto riguarda l’emigrazione, bisogna avvisare, però, che nell’Isola essa si era presentata soltanto in forme episodiche e limitate nel tempo. Uno dei primi anni in cui comincia a divenire visibile è il 1853, quando si nota anche una certa tendenza ad un sempre maggiore e diffuso sviluppo76. Poi, una volta fatta l’Italia, essa ri- prende in forme nuove e blande, anche perché nel contempo la Sardegna è terra di immigrazione (coatti meridionali, minatori, carbonari). Ancora nel periodo 1876-1886 i Sardi emigravano alla media blanda di duecento l’anno, mentre negli anni 1896-1898 già superavano le duemilacinquecen- to unità. Di questi, circa un quarto si stanziarono nell’Africa del Nord, un altro quarto nei paesi europei, un quarto ancora nelle Americhe77.

76

A. Boscolo, L. Bulferetti, L. Del Piano, Profilo, cit., p. 182; I. Pirastu, Il banditismo, cit., pp. 53-54.

77 G. Alivia, Economia e popolazione della Sardegna settentrionale, Sassari 1931, p. 59 e segg.;

A. Boscolo, L. Bulferetti, L. Del Piano, Profilo, cit., p. 182; gli autori ricavano i dati dall’Annuario statistico dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925, Roma 1926, passim; M. L. Gentileschi, Sardegna, cit., pp. 12-35, prendendo le mosse dalla necessità di valutare l’evoluzione della mobilità in rapporto ai due principali elementi da cui dipende, cioè lo sviluppo socio- economico e quello demografico, divide l’andamento del fenomeno migratorio in Sardegna in diverse fasi. Quella iniziale, che arriva fino al 1905 in cui, essendo l’Isola in una fase pre indu- striale o pre moderna, vi è una «bassissima propensione agli spostamenti» e «assenza di inubar- mento», si registra dunque un certo ritardo dell’emigrazione sarda rispetto a quella meridionale; una fase di transizione dove all’incremento demografico si accompagna un’intensificazione delle attività produttive e un’elevata mobilità sociale e territoriale, “per cui proprio in questa fase si pongono i grandi esodi di massa”, dunque un forte inurbamento e una marcata emigrazione. Vi è poi la fase di maturità o moderna, con limitazione della crescita demografica e «affievolimento dell’emigrazione» e dell’esodo rurale, (a questo riguardo però lo scrivente ritiene che, per quanto riguarda l’Italia, l’avvento del fascismo proprio in questa fase condizionò anche l’emigrazione) sennonché alle sue pagine 40-41 l’autrice chiarisce: «il primo periodo di forte emigrazione, quella del 1901-1914, non si può ricollegare quindi ad un’intensa crescita demografica, poiché l’isola entrava appena allora nella fase di transizione. Successivamente la forbice dell’incremento natura- le si allargò ulteriormente, tanto che l’aumento presentò nella regione tassi maggiori che in Italia. Facendo uguale a 100 la popolazione al 1901, la Sardegna raggiunse 123 nel 1921 (Italia 122) e 160 nel 1951 (Italia 141). A questa fase di incremento non corrisponde, a causa della mancanza di libertà di spostamento, un’emigrazione altrettanto accentuata, con un evidente sfasamento tra ci- clo migratorio e ciclo demografico. Il potenziale numerico accumulato negli anni Venti-Trenta alimenterà con ritardo l’emigrazione degli anni Cinquanta. La permanenza sino ad epoca recente

Nel documento La questione sarda tra Otto e Novecento (pagine 167-184)