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3. Percorsi di marginalizzazione tra detenzione e vita di strada

3.2 Educazione e carcere

3.2.4 Gli Stati generali sull’esecuzione penale

Nel maggio 2015, il Ministero della Giustizia ha avviato un percorso di incontri aperti a esperti di diverse discipline e rappresentanti vari (operatori penitenziari, magistrati, av- vocati, docenti, altri esperti specialisti, rappresentanti della cultura e dell’associazioni- smo), riguardante le carceri italiane in ogni loro aspetto: gli Stati Generali sull’esecuzio- ne penale. Convocati per il quarantennale della riforma dell’Ordinamento penitenziario vigente, gli Stati generali sono stati voluti anche a seguito della sentenza Torreggiani76

del 2013, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in cui l’Italia è stata condannata per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, in particolare per trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute rivoltesi alla Corte, le quali, per diversi mesi, hanno vissuto in celle con meno di quattro metri quadrati a di- sposizione ciascuna. L’idea del Ministero della Giustizia, una volta superata la fase criti- ca del sovraffollamento, è stata quella di creare uno spazio di riflessione e confronto della durata di sei mesi al fine di «dare nuovo senso ed assetto all’esecuzione della pena» (Stati Generali sull’Esecuzione Penale 2016, p. 7), in una sorta di momento di ri- scatto, per riflettere sull’esercizio di un potere usato male: «il potere dell’Istituzione e il potere degli uomini sugli uomini (degli operatori rispetto ai detenuti e degli operatori tra di loro)» (Pirè 2014, p. 88). La documentazione prodotta da ognuno dei tavoli tematici, diciotto in tutto, resa pubblica sul sito web del Ministero della Giustizia, è confluita in un documento finale (Stati Generali sull’Esecuzione Penale 2016), manifesto di un nuo- vo modello di esecuzione penale e di una diversa fisionomia del carcere, un progetto di riforma complessiva dell’Ordinamento penitenziario.

Il documento finale, composto da oltre cento pagine, offre spunti di riflessione su diver- si argomenti, presentati nel testo come macro aree da riformare: dignità e diritti; tutela dei soggetti vulnerabili; esecuzione penitenziaria come responsabilizzazione e nuova vita detentiva; esecuzione penale esterna; giustizia riparativa; organizzazione, personale, volontariato e formazione; nuova cultura della pena. Il documento finale risulta molto netto nel denunciare come un testo di legge approvato quarant’anni fa, oggi risulti po- 76 Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, che condanna l’Italia per trattamento inumano e degradante di persone detenute. Caso chiuso l’8 marzo 2016, ritenendo l’Italia adempiente alle richieste della sentenza.

tenzialmente forviato, poiché il sistema penale «sempre più assume la veste di un inter- vento punitivo-simbolico», in quanto inserito all’interno di un tessuto sociale connotato da «altri meccanismi di regolazione dei conflitti e di ricomposizione sociale» (Stati Ge- nerali sull’Esecuzione Penale 2016, p. 12), connotato da un’altra sussidiarietà. In questa situazione critica, vi sono soggetti che più di altri risentono della mancanza di percorsi inclusivi, che permettano un reale inserimento sociale e non un ritorno alla condizione precedente o un peggioramento della stessa.

Il documento finale parla dei soggetti vulnerabili,

«[…] locuzione nella quale si vogliono ricomprendere categorie assai eterogenee di detenu- ti accomunate dal fatto che nell’impatto con la realtà carceraria subiscono, per la loro parti- colare situazione soggettiva, un quid pluris di afflittività. Da un lato, soggetti che già prima del loro ingresso in carcere pativano una condizione di grave difficoltà personale e relazio- nale (ad es. perché alcool o tossicodipendente, perché sieropositivo, perché portatore di un disagio psichico). Questi individui presentano come dato comune uno statuto soggettivo che rende loro ancor più complesso ottenere il riconoscimento dei propri bisogni e dei pro- pri diritti, e più arduo l’esercizio di quello alla risocializzazione. Dall’altro, soggetti appar- tenenti a categorie di diversissima natura, che nella vita sociale “libera” non palesano speci- fiche problematicità, – donne, adolescenti e, ancora, persone che rientrano nel complesso arcipelago che compone il mondo L.G.B.T.Q.I. – ma per i quali è proprio il varcare la so- glia di un istituto di pena che induce in loro un particolare stato di fragilità, rendendo anco - ra più prostrante lo stato detentivo e più impervio il cammino risocializzativo» (Stati Gene- rali sull’Esecuzione Penale 2016, pp. 12-13).

Viene pertanto riconosciuta la presenza di detenuti vulnerabili per motivazioni molto di- verse fra loro, divenuti tali a seguito di questa esperienza o entrati in carcere già con queste fragilità, per i quali l’esperienza detentiva è sinonimo di ulteriore sconforto e emarginazione, anziché di momento utilizzabile per costruire specifici percorsi mirati al superamento di quelle condizioni.

«Ad oggi, infatti, l’esperienza della detenzione può trasformarsi in una sorta di “moltiplica- tore” delle vulnerabilità dei soggetti svantaggiati, costretti ad affrontare la sfida di relazio- narsi con se stessi e con gli altri all’interno di un’istituzione totale che – benché offra op - portunità effettive di presa in carico e cura – si rivela nel complesso inadeguata nel rispon- dere alle drammatiche condizioni di multi-problematicità che la attraversano (si pensi

all’alcol-tossicodipendenza, alla sieropositività, al disagio psichico o ai comportamenti sui- cidari, così diffusi tra i detenuti)» (Stati Generali sull’Esecuzione Penale 2016, p. 34). Così il documento finale, nel dettaglio del capitolo dedicato ai soggetti vulnerabili, si pone in un’ottica riformista, di rovesciamento delle logiche che attualmente governano l’ordine sociale, chiedendo che «la cura e la presa in carico di chi, “debole” socialmente o psicologicamente, commette un reato, deve tornare a essere una priorità politica» (Sta- ti Generali sull’Esecuzione Penale 2016, p. 33), aspirando cioè ad una riforma comples- siva degli interventi di welfare che si potrebbero attivare, prima di giungere all’estremo rimedio offerto dal carcere.

Rispetto alle persone senza dimora il documento finale osserva che il carcere si occupa di sospendere, senza risolverli, alcuni problemi chiave in particolare quelli legati alla re- sidenza:

«[…] uno fra questi può essere la “invisibilità” in quanto cittadino (non riservata solo agli stranieri privi di un permesso di soggiorno, ma anche a molti italiani cancellati, per vari motivi, dagli elenchi anagrafici). Questo stato di “clandestinità” comporta la mancata iscri- zione al S.S.N. ed altre diminuzioni importanti dei diritti di cittadinanza» (Stati Generali sull’Esecuzione Penale 2016, p. 76).

In prevalenza si tratta di problemi burocratici, che possono aggravare le condizioni di emarginazione a cui sono soggetti le persone senza dimora, soprattutto all’uscita. Man- cano, infatti, strumenti in grado di attenuare l’impatto dell’uscita. Estendendo il discorso a tutte le persone vulnerabili, senza nulla togliere allo specifico delle persone senza di- mora che, come si vedrà, spesso sperimentano nella loro vita anche l’esperienza detenti- va, queste si contraddistinguono come soggetti vulnerabili anche in forza del fatto che, nel momento del rientro nella società libera, le loro vulnerabilità e fragilità sociali si manifestano con più forza, comportando molteplici difficoltà, a cui, spesso, il singolo deve far fronte da solo.

«È decisivo, infine, analizzare l’importanza della “preparazione” della persona fragile al suo rientro nella vita libera e il “sostegno” nel periodo immediatamente precedente e suc- cessivo alla sua scarcerazione – percorsi, come si è già detto, fino a oggi quasi mai garantiti nonostante la previsione dell’art. 46 o.p.» (Stati Generali sull’Esecuzione Penale 2016, p. 39).

Se il rientro nella società è complesso per ogni detenuto, con una crescente difficoltà al passare degli anni vissuti in carcere, questo percorso di dimissione diventa ancor più complesso e delicato nel caso coinvolga l’uscita di persone svantaggiate, in quanto ri- sulta essere un percorso pieno di rischi e di “vuoti” educativi e sociali. Manca il più del- le volte la possibilità di sperimentare gradualmente l’uscita, rendendo il reinserimento sociale un fine disatteso. Risulta invece importante che questo percorso di rientro nella società non ristretta sia pensato, progettato, condiviso con la persona e affiancato, attra- verso molteplici azioni, le quali ad oggi sono per lo più assenti o, nei migliori dei casi, carenti.