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1. Senza dimora: fra identità e condizioni contingenti

1.6 Un’identità controversa

Possiamo parlare di persone senza dimora come gruppo sociale? Esiste una loro identi- tà? Al termine di questa presentazione generale sulle teorie che provano a dar ragione della homelessness e sui dati italiani riguardanti questo fenomeno, porsi questi interro- gativi è indispensabile per poter comprendere come costruire servizi e interventi a favo- re delle persone senza dimora e, in analoga misura, in grado di contrastare l’emargina- zione sociale promuovendo l’inclusione.

Shlay e Rossi si limitano a scrivere che «homeless people are ashamed of being home-

less» (Shlay, Rossi 1992, p. 144), mentre altri autori parlano di tentativi di fuga e occul-

tamento della propria condizione per rendere lo stigma meno evidente, ad esempio fa- cendosi passare per ospiti, mantenendo un forte controllo emotivo o stabilendo relazioni con persone con dimora (Lee, Tyler, Wright 2010). Quest’ultimo aspetto è evidenziato dai ricercatori come strumento per far stemperare lo stigma attraverso l’integrazione con compagni senza dimora in grado di sostenere una socializzazione non giudicante che si concretizzi in conversazioni sull’identità nelle quali i partecipanti possano costruire e negoziare identità personali positive. Ciò è possibile in quanto le loro affermazioni rara- mente vengono messe in discussione dal gruppo dei pari e, pertanto, è permesso avven- turarsi in narrazioni irreali senza aver paura di essere sconfessati (Lee, Tyler, Wright 2010).

Di identità e integrazione sociale si sono occupati Maurizio Bergamaschi, per il quale sarebbe impossibile parlare di cultura poiché non esisterebbe un gruppo o una comunità a cui aderire e integrarsi (Begamaschi 1999), e Luigi Gui, per il quale si parla di «“emarginazione individuale” in assenza di reti comunitarie di riferimento» (Gui 1995, p. 58). Per loro non si può fare riferimento né all’identità, né al gruppo36, poiché mentre

la persona perde progressivamente la propria comunità di appartenenza iniziale, non ac- cede ad alcun nuovo gruppo con cui identificarsi, ma, al contrario, rimane sempre più sola, vivendo la propria condizione in maniera individuale.

36 A tal riguardo Bergamaschi cita Luciano Gallino: «non si dà identità, né soggettiva né oggettiva, (ossia non si dà né il senso né l’appartenenza di essa) senza riferimento a qualche forma di identificazione, né esiste identificazione che sia scindibile da un’identità» (Bergamaschi 1999, p. 117).

«La città, non offrendo più occasioni di identificazione, diviene semplicemente un conteni- tore che conferma l’estraneazione (emarginazione) da rapporti umani significativi» (Gui 1995, p. 59).

Altro filone è quello seguito dalla sociologa Antonella Meo, per la quale l’identità delle persone senza dimora, così come la concezione di sé e la propria autostima, divengono gradualmente compromesse, risultando fragili e incrinate (Meo 2000). Il tema dello stig- ma, già affrontato in precedenza, è fortemente presente nel primissimo momento in cui la persona approda in strada, quando si innesca un drastico processo di rifiuto della vita di strada (hobophobia) che può essere definita come fobia interiorizzata37. Per hobopho-

bia interiorizzata si intende un’insieme di sentimenti negativi, prevalentemente di di-

sprezzo e astio, misto inferiorità, che le persone senza dimora provano nei confronti del- la homelessness, cioè la propria condizione e quindi di se stesse (tale fobia interiorizzata non risulta essere stata ancora indagata da alcuna ricerca). L’insicurezza e la disgrega- zione hanno ripercussioni anche sul gruppo degli amici e conoscenti, che vengono al- lontanati per il senso di vergogna. L’allontanamento da tali legami può essere simbolico, ma anche fisico, con spostamento in altra città, dove si è sicuri di non imbattersi in per- sone conosciute quando si era persona con dimora.

Esplorando quella che definisce la fase di adattamento, Meo riporta un cambiamento: «[…] se prima tentava di proteggere la sua identità rifiutando di trattare con loro, adesso ri- nuncia a questa linea di condotta, snervante e insostenibile se protratta nel tempo, e cerca di stabilire rapporti sociale di tipo convenzionale. Dati i fallimenti personali, egli immagina di poter risolvere la situazione attraverso l’impegno collettivo, si adopera quindi per promuo- vere la mobilitazione dei senza dimora, al fine di elaborare una strategia rivendicativa co- mune presso i responsabili del circuito assistenziale e le autorità cittadine» (Meo 2000, p. 131).

Ciò che secondo la ricercatrice bloccherebbe tale spinta al cambiamento cooperativo dal basso (in una forma di auto mutuo aiuto) è il fatto che gli altri soggetti senza dimora presentano resistenze e a loro volta si allontanano, lasciando così intendere alla persona propensa a cercare un gruppo di pari che questi non vogliano uscire dalla condizione in cui si trovano. Al contrario, essi si sarebbero adattati e pertanto sarebbe inutile l’impe- 37 Non esiste un nome per questo processo interiore, il quale è espresso in altri ambiti come quello dei

gno verso una svolta di cooperazione. Approdando successivamente alla fase cronica, come riportato in precedenza, la persona senza dimora compromette del tutto le capacità relazionali e la possibilità di creare gruppo, considerando le relazioni esclusivamente in senso strumentale legata alle pratiche di sopravvivenza. A livello di identità

«[…] sperimenta una congruenza fra la concezione di sé e l’immagine del barbone (e dell’etilista data la frequente caduta nell’alcolismo). Non si considera membro della società né aspira a diventarlo. Si identifica con la vita che conduce» (Meo 2000, p. 145).

Pertanto per Meo un’identità si costruisce, ma anche in questo caso non è gruppale, ben- sì individuale, legata alle pratiche di sopravvivenza che riguardano la vita di strada, ap- prese in quel contesto e ora ritenute positive. «Sono le routine di sopravvivenza», dice Meo, «che strutturano l’identità del senza-casa cronico» (Meo 2000, p. 145), consolida- te pratiche para lavorative che costituiscono «un margine di difesa del sé» (Goffman 2001, p. 82)38.

Concludendo, mentre c’è una certa compattezza fra i ricercatori nell’affermare che la

homelessness influisca negativamente sul benessere materiale, la salute fisica e psichica,

la sicurezza generale e l’identità personale della persona senza dimora, non vi è un ac- cordo su cosa accada al gruppo dei pari. Per qualcuno questo non si può formare per via delle premesse, per altri sono compiuti tentativi che risultano essere fallaci in quanto i presupposti dell’aggregazione non si verificano mai, per altri ancora tali gruppi esisto- no, sono tutelanti, benché basati su frottole narrate per potenziare l’autostima.

38 Goffman indica come tali tutte quelle pratiche definite nei termini di “riuscire a farcela” o “sapersela cavare” (Goffman 2001, p. 82).

2. Taking action. Interventi educativi e sociali