• Non ci sono risultati.

3. Percorsi di marginalizzazione tra detenzione e vita di strada

3.1 Devianza criminale e detenzione

3.1.2 Il Carcere moderno

Il carcere è un’istituzione totale di tipo restrittivo, in cui vengono limitate alcune libertà del detenuto, a partire da quella di circolazione e quelle relazionali. La storia di questa comunità coatta è relativamente recente, iniziata sul finire del Settecento, quando il po- tere feudale entra in declino e « la lugubre festa punitiva si va spegnendo» (Foucault 2007, p. 10), avviandosi su spinta dei riformatori umanisti dell’epoca una fase di com- plessiva riforma penale per superare l’esercizio pubblico delle pene corporali. Nacque così il carcere moderno, il nuovo luogo dove esercitare il potere (Pirè 2014) e le puni-

zioni: dal corpo visibile attraverso la manifestazione pubblica cruenta, all’anima del condannato, l’invisibile e l’incorporeità (Foucault 2007). Un percorso, quello della na- scita del carcere moderno, costituito da vari passaggi intermedi nei quali possono essere individuati tentativi che sintetizzano entrambe le visioni, l’una in declino, l’altra in fase di affermazione, come la condanna a morte attraverso metodi imparziali e incruenti, ca- paci di fornire pene identiche, senza distinzione di rango sociale, e non finalizzate ad esaltare il dolore del condannato, come nel caso della ghigliottina, per arrivare al culmi- ne della sua affermazione avvenuta nel corso dell’Ottocento.

La giustizia assunse una veste meno violenta e maggiormente moralizzatrice, mentre al condannato si attribuì il ruolo del nemico pubblico, con cui si giustifica una pena inflitta non più come vendetta del sovrano, ma in quanto difesa della società:

«[…] non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per punire con maggior universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il po- tere di punire» (Foucault 2007, p. 89).

Su diversi piano della società nacquero con la stessa impostazione diverse istituzioni to- tali, dove il potere venne esercitato attraverso la disciplina e le tecniche di controllo, fa- cendo divenire l’uomo un oggetto del potere-sapere all’interno di carceri, manicomi, ospedali, sanatori, riformatori.

Il filantropo John Howard fu uno dei primi riformatori delle carceri inglesi, nella secon- da metà del Settecento, occupandosi anche del sistema delle carceri presenti in tutta Eu- ropa, soprattutto grazie alla persuasione compiuta sull’opinione pubblica attraverso i suoi scritti. A pochi anni di distanza, alla fine del Settecento, Jeremy Bentham filosofo e giurista inglese, padre del primo utilitarismo, pubblicò un piccolo testo al contempo programmatico e utopico chiamato Panopticon or the inspection-house con cui prese in esame la possibilità di costruire una struttura carceraria dall’architettura panottica appli- cata ad ogni contesto bisognoso di disciplina e rigore. Il Panopticon (dal greco παν-, tut- to, e πτικός, visivo, letteralmente “vedere-tutto”, osservare tutto) è usato dall’autore adὀ indicare un edificio circolare adibito a carcere, con celle nel cerchio esterno e una torre d’osservazione in quello interno, allo scopo di «ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente» (Bentham 2009, p. 33) attraverso il binomio sguardo – potere di con-

trollo. «Vedere senza essere visti» (Bentham 2009, p. 46), esercitando un dominio invi- sibile. Se da un punto di vista architettonico questo modello rimase per lo più su carta, benché siano state realizzate a livello internazionale alcune esecuzioni del progetto, dal punto di vista della filosofia soggiacente, il modello panottico fece breccia nella cultura dominante ottocentesca, la quale iniziò a immaginarne un uso ampio, destinato ad ogni persona deviante e marginale, così come prospettato inizialmente da Bentham, al fine di rinforzare la morale, l’istruzione e la salute comune.

Per procedere con una lettura schematica delle principali interpretazioni che sono state date all’evoluzione storica del carcere, con Vianello (2012) si illustrano i tre modelli di spiegazione tipizzati da Stanley Cohen: il modello dei riformatori, il modello funzionali- sta e il modello strutturalista.

Il primo modello prende forma attorno al concetto del carcere come espressione di «una storia di riforme» (Ignatieff 2004, p. 258) attraverso cui i riformatori, illuministi e reli- giosi assieme, avrebbero cercato di innescare un processo di civilizzazione e umanizza- zione delle pene per superare la crudeltà delle pene corporali e del loro spettacolo pub- blico, come poc’anzi riassunto. Per questa interpretazione, chiamata anche modello idealista, il carcere è il risultato di una evoluzione migliorativa sotto il profilo emotivo, culturale e scientifico, processo trasversale a molti paesi, espressione di un generale pro- gresso umano. La critica offerta da questo modello alla storia del penitenziario, avendo come ideale quello della continua riforma all’inseguimento di un progresso mai comple- tamente realizzato e sempre da ridefinire, rischia di limitarsi ad aspetti contingenti come le risorse scarse, la carenza di formazione o l’inadeguatezza della programmazione (Vianello 2012).

Per il modello strutturalista l’evoluzione delle carceri può essere letta in un’ottica effi- centista, in quanto rispondente al soddisfacimento degli obiettivi richiesti dalla società capitalista. Dalla ricerca del progresso e della civilizzazione, alla ricerca degli interessi economici del gruppo dominante e della sua esigenza di sviluppo: il carcere moderno, per questa interpretazione, sarebbe quindi in un qualche modo assimilabile alla fabbrica che mira al massimo profitto attraverso la produzione di lavoratori disciplinati (Melossi, Pavarini 1977). Il carcere raccoglierebbe al fine di disciplinarli tutti quei soggetti disoc-

cupati o riottosi, tanto che la sintesi del modello strutturalista potrebbe essere: «l’ideolo- gia rieducativa ha la funzione di rappresentare come umano e giusto un sistema fonda- mentalmente coercitivo» (Vianello 2012, p. 21). Il lavoro di ricerca svolto da Michael Ignatieff (1982), storico canadese, si posiziona all’interno di questa interpretazione, in quanto si sviluppa individuando nella storia del carcere elementi di coincidenza fra inte- ressi dei riformatori e della borghesia emergente nel contrastare il disgregarsi dell’ordi- ne pubblico ad opera, per esempio, dei tanti disoccupati accresciutisi durante la rivolu- zione industriale. Per Ignatieff non si può quindi parlare esclusivamente di una rivalsa della borghesia, come altre interpretazioni strutturaliste vorrebbero far passare, ma «di una congiuntura tra la trasformazione nei fenomeni dell’ordine sociale, le nuove esigen- ze di controllo da parte dei possidenti ed un nuovo discorso sull’esercizio del potere» (Ignatieff 1982, p. 82). A cavallo fra questo modello e quello disciplinare si pone Michel Foucault, filosofo e storico francese. Per Foucault i riformatori illuministi sarebbero riu- sciti solo in parte a trasformare il sistema penalistico, essendo le loro idee accolte:

«[…] nel capovolgimento temporale della pena, non più tesa solo a cancellare il delitto at- traverso l’espiazione, ma anche a prevenirlo attraverso la trasformazione del coplevole; nell’individualizzazione della pena, che per durata, intensità e modalità deve adattarsi al ca- rattere del colpevole e aprirsi alla considerazione delle variabili individuali» (Vianel- lo 2012, p. 24).

Foucualt in questa lettura storica non solo pone i riformatori illuministi parzialmente in- fluenti sul modello detentivo creatosi, ma distanzia anche il pensiero di questi ultimi da- gli sviluppi che prenderà la scuola classica, attenta a sottolineare come la pena debba es- sere certa e commisurata al reato, non adeguata a elementi individuali e alla pericolosità sociale. Sfugge al pensiero rinnovatore tutto ciò che riguarda la disciplina, l’applicazio- ne, gli strumenti e l’esercizio del potere punitivo divenuto potere di controllo. Il carcere stesso produce tecniche disciplinari, «un’istituzione specializzata in tecniche di adde- stramento, gestita in modo autonomo e segreto, che impartisce castighi non codificati in modo arbitrario e dispotico» (Vianello 2012, p. 24).

Si struttura a partire da questa analisi il modello funzionalista, per il quale il carcere sa- rebbe una risposta funzionale ai problemi sociali, al fine di contenere il disordine socia- le, limitando o eliminando il conflitto, e allo stesso tempo ristabilire una accettabile con-

dizione di stabilità (Vianello 2012). Le carceri sono subordinate a questo scopo e lo sono assieme ad altre istituzioni repressive o istituzioni totali nate nell’Ottocento. In più l’interpretazione funzionalista con Foucault (2007) nota come affianco a questa ricom- posizione dell’esercizio del potere disciplinante e normalizzante, che già differenzia il carcere da un luogo esclusivamente detentivo, vi sia un altro fattore importante: le peri- zie, il sapere clinico sui condannati, il potere esercitato attraverso un sapere clinico del condannato (Foucault 2007). Il modello funzionalista e la prospettiva proposta come spiegazione dell’evoluzione storica del carcere si scontrano con un grosso limite: il falli- mento di quell’impegno, in quanto il carcere risulta essere strumento del tutto inadatto a ridurre il crimine, ma anzi in alcune occasione capace di esserne scuola, e comunque in- capace di ridurre la recidiva. Nel secolo scorso sono state introdotte misure di trattamen- to e riabilitazione, rieducative e di reinserimento sociale, che hanno la pena retributiva, senza tuttavia intaccare l’essenza del carcere, né ridurne i volumi, così come negli anni Settanta si sono moltiplicate le forme alternative alla pena detentiva, le quali non hanno contribuito a diminuire drasticamente la presenza delle carceri sostituendo la detenzio- ne, ma semplicemente sono state aggiunte ad essa come possibilità ulteriore (Vianel- lo 2012).

«Il sistema sopravvive e si riproduce, a dispetto di tutto, continuando a legittimarsi sugli obiettivi dichiarati e mai raggiunti: la riduzione della criminalità (ripetutamente smentita dai tassi di recidiva) ed il recupero della funzionalità sociale» (Vianello 2012, p. 27). Sebbene il carcere da più parti sia riconosciuto come inefficiente e inefficace, parados- salmente come istituzione radicata nella società contemporanea non viene scalfita: per- ché? L’opinione di Cohen (Villano 2012), l’ideatore di questa triplice tipizzazione di modelli ermeneutici, è che i fautori della prospettiva funzionalista – a differenza dei ri- formatori – sono del tutto coscienti del fatto che gli obiettivi non vengono centrati e non si tratta solo di errori contingenti da poter correggere con continue riforme. Nonostante questo la legittimazione del carcere non verrebbe meno in quanto, secondo altri autori, gli operatori stessi coinvolti nel sistema detentivo ricercherebbero la sua sussistenza ali- mentandola artificiosamente contro ogni evidenza. E ciò si potrebbe riscontrare anche nelle resistenze al cambiamento del sistema detentivo. Infine la lettura di Foucault (2007): per il filosofo francese il carcere continua ad esistere in quanto funzionale ad

una logica di potere delle classi dominanti, le quali possono distinguere la criminalità dalla politica, possono disgregare le classi lavoratrici e possono mantenere intatta la proprietà privata, elemento cardine delle società contemporanee e del loro sistema di dominio69. L’intero corpo sociale viene disciplinato a ciò, senza che vi sia un gruppo che

abbia perseguito ciò dall’inizio: semplicemente è funzionale all’intero corpo sociale e pertanto il carcere viene continuamente sostenuto e rinvigorito.