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3. Percorsi di marginalizzazione tra detenzione e vita di strada

3.2 Educazione e carcere

3.2.2 L’educatore penitenziario come funzionario della professionalità giuridico-

Lentini (2012) ha sintetizzato il percorso compiuto dall’educatore penitenziario dagli anni della riforma del 1975, quando fu introdotto come educatore per adulti in carcere, alle ultime direttive che hanno trasformato tale figura professionale nel funzionario del- la professionalità giuridico-pedagogica.

Come introdotto precedentemente, è l’art. 80 “Personale dell’amministrazione degli isti- tuti di prevenzione e di pena” della legge 354/1975 ad aver inserito in carcere la figura dell’educatore per adulti e quella dell’assistente sociale. L’art. 82 “Attribuzioni degli educatori” si occupa di indicare nello specifico le mansioni richieste agli educatori peni- tenziari: partecipare all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica della personalità dei detenuti, in relazione al trattamento rieducativo individuale e di gruppo, coordinan- do la loro azione con l’itera rete coinvolta nelle attività concernenti la rieducazione. Inoltre, qualora possano, dovrebbero svolgere attività educative anche nei confronti de-

gli imputati, ovvero nei confronti di coloro che pur essendo detenuti non hanno ancora ricevuto una condanna definitiva. Infine, dovrebbero collaborare alle attività culturali le- gate alla biblioteca, quindi alla distribuzione dei libri, delle riviste e dei giornali.

Per alcuni autori come Brunetti (2005) questo è uno degli indici più forti per misurare l’impegno dimostrato nel superamento dei disagi socio-ambientali che hanno portato al reato. Di contro altri autori riportano come questa introduzione sia stata tutt’altro facile, almeno fino a quando il Ministero non introdusse delle specifiche attività formative mi- rate all’educatore penitenziario, altrimenti introdotto nell’organico senza le competenze minime.

«Nel corso degli anni si è fatta pressante l’esigenza di un’adeguata preparazione degli edu- catori, in direzione di una formazione professionale con caratteristiche scientifiche, deter- minata dalle notevoli manchevolezze, dalle lacune e dal dilettantismo che avevano caratte- rizzato le situazioni degli operatori sociali nelle fasi di avvio» (Lentini 2012, p. 95).

Con la legge Gozzini (legge 633/1986) sono stati introdotti i permessi premio, una mi- sura premiale (cioè non automatica) definita nei termini di quarantacinque giorni di li- bertà massimi per ciascun anno di detenzione, dati discrezionalmente dal magistrato di sorveglianza ad ogni detenuto, per una durata non superiore ai quindici giorni ogni vol- ta, solo qualora quest’ultimo abbia mantenuto una regolare condotta, misurabile nella responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate ne- gli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali, nonché nella sua non particola- re pericolosità sociale. L’esperienza dei permessi premio è stata considerata dal legisla- tore parte integrante del programma di trattamento e, pertanto, di competenza degli edu- catori e degli assistenti sociali penitenziari. L’educatore ha così assunto un ruolo più im- portante, centrale «nei processi di creazione del giusto equilibrio delle dinamiche di ri- socializzazione nel detenuto» (Lentini 2012, p. 95) e, in generale, nell’accesso alle altre misure alternative alla pena, e oltre all’impegno nello strutturare azioni personalizzate costruite a partire dai bisogni delle persone detenute, dal 2003 egli anche deve attuare le attività previste nel Progetto pedagogico di Istituto penitenziario.

L’Amministrazione penitenziaria ha emanato una serie di circolari per dare più spessore a questa figura professionale, differenziandone il livello economico a seconda della

mansione (C1, C2, C3), ipotizzando un responsabile di area (educatore C3) con diversi colleghi (di livello C1 e C2) da coordinare, poiché gli istituti penitenziari ne necessita- vano parecchi. Tuttavia questi non arrivarono, per via di mancanza di risorse economi- che e, si nota, gli ultimi concorsi sono stati condizionati da una impropria valorizzazio- ne di lauree non direttamente compatibili con le mansioni.

La modifica del Contratto integrativo del Ministero della Giustizia, come anticipato, ha comportato dal 2 marzo 2010 il cambio di denominazione della figura professionale dell’educatore penitenziario per adulti, al funzionario della professionalità giuridico- pedagogica, una figura che non ha un percorso di formazione universitario equivalente, non si riscontra in altri ambiti istituzionali e, soprattutto, possiede una marcata connota- zione giuridica, non deducibile in alcuna delle leggi riguardanti l’Ordinamento peniten- ziario vigente (Benelli, Mancaniello 2014). Essendo le finalità di questa figura profes- sionale le medesime della precedente, rimane apparentemente inspiegabile il cambio di denominazione che nei fatti si traduce in una forte ambiguità, anche se qualcuno ha avanzato delle ipotesi.

«Si ipotizza che il recente cambiamento sia dovuto alla necessità di riconoscere il profilo professionale degli ultimi Educatori penitenziari assunti, vincitori dell’ultimo concorso del 2004, laureati in corsi di laurea non pedagogici, introducendo la dizione della professionali- tà giuridica. Questa scelta, però, sposta la figura educativa su piani non previsti dalle nor- mative relative al ruolo e alle funzioni dell’educatore penitenziario, che viene ribadito avere funzioni specificatamente pedagogiche, mentre la dimensione giuridica rimane solo tra le conoscenze legate al contesto, ma non all’esecuzione di specifiche funzioni in tale direzio- ne » (Benelli, Mancaniello 2014).

Tutto il problema verte attorno al riconoscimento delle professionalità educative e peda- gogiche, spesso sentite “vincolanti” rispetto ad un percorso di studio legato alle scienze della formazione se la professionalità è praticata in ambito minorile, ma senza significa- tive limitazioni o precisi orientamenti formativi se praticata in ambito adulto, non essen- do ancora stata approvata in Italia una precisa regolamentazione a riguardo. Così sono trattati come professioni dell’educazione anche coloro che provengono da altri percorsi formativi e campi del sapere. Ciò è molto chiaro nel momento in cui negli ultimi con-

corsi per educatori penitenziari l’apertura è stata tale da permettere l’ingresso anche di laureati in giurisprudenza o in scienze politiche e affini75.

A influire sulla scarsa formazione professionale degli educatori penitenziari, oltre all’ambiguità dell’accesso al ruolo, vi è anche, come scrive Lentini:

«[…] la scarsità di pubblicazioni scientifiche atte a documentare ed aggiornare l’effettivo “stato dell’arte”, in quanto, la maggior parte degli scritti esistenti sull’argomento si limita ad elencare le mansioni competenti per legge all’educatore, e non indica nulla rispetto all’esperienza capitalizzata fino ad oggi» (Lentini 2012, p. 99).

Vi è una forte discordanza, al limite dell’incoerenza, fra l’orientamento risocializzativo a cui è chiamato il funzionario della professionalità giuridico-pedagogica, richiamato nei testi di legge, nei regolamenti e nelle circolari, che prevede nella tradizione pedago- gica l’apertura al cambiamento e alla possibilità, e l’immobilismo a cui il professionista è sottoposto all’interno dell’istituzione detentiva, stabile, lenta, normata, burocratica e normalizzante. Non si può non concordare con Lentini quando afferma che i percorsi di riabilitazione del condannato:

«[…] debbono essere caratterizzati da “dinamismo processuale”, essere cioè costantemente monitorati e sollecitati per la continua riproposizione di contenuti ed obiettivi. Tale dinami- 75 Vengono riportati i requisiti per l’ammissione degli ultimi tre concorsi indetti dal Ministero della Giustizia, gli unici pubblicati sul sito ufficiale ministeriale. I primi due riguardano educatori che andranno a lavorare nelle carceri per adulti. Il terzo, il più recente, nelle carceri per minori. I titoli di studio validi al concorso indetto con “Decreto 21 novembre 2003 - Copertura di 397 posti nell’area c, posizione economica c1, profilo professionale di educatore, mediante concorso pubblico” erano: laurea specialistica in Scienze pedagogiche o Scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua o Programmazione e gestione dei servizi educativi e formativi o scienze della comunicazione sociale ed istituzionale o diploma universitario di Assistente sociale ed Educatore o diploma di laurea in Giurisprudenza, Lettere, Scienze politiche, lauree della facoltà Magistero o lauree equipollenti. I titoli di studio validi al concorso indetto con “Decreto 21 novembre 2003 - Copertura di 50 posti nell’area C, posizione economica C2, profilo professionale di Educatore, mediante concorso pubblico” erano: laurea specialistica in Scienze pedagogiche o Scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua o Programmazione e gestione dei servizi educativi e formativi o scienze della comunicazione sociale ed istituzionale o diploma universitario di assistente sociale ed educatore o diploma di Laurea in Giurisprudenza, Lettere, Scienze politiche, Lauree della facoltà di Magistero o lauree equipollenti. Si noti la differenza con lo stesso concorso svoltosi nel 2007 per le carceri minorili. In questo caso i titoli di studio validi al concorso indetto con “Decreto 20 giugno 2007 - Concorso pubblico per esami per la copertura di n. 80 posti di Educatore nell’area funzionale C, posizione economica C1, nel ruolo del personale del Dipartimento per la giustizia minorile” furono: laurea di primo livello (L) appartenente alla seguente classe 18/L – lauree in scienze dell’educazione e della formazione; laurea specialistica (LS) appartenente alla classe 65/S – lauree specialistiche in scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua, o alla classe 87/S – lauree specialistiche in scienze pedagogiche; diploma di laurea in pedagogia ed equipollenti.

cità, che dovrebbe essere stimolata, indotta, costruita con la efficacia dell’intervento degli operatori, si contra con la staticità propria di molte ordinarie situazioni penitenziarie» (Len- tini 2012, pp. 101-102).

Così, in questa situazione complessa, ciò sembra connotare maggiormente l’esperienza educativa in carcere è la scarsità di risorse, per Lentini (2012) sintetizzabili in economi- che, logistiche (es. spazi e strumenti), e soprattutto culturali, che rendono l’intero conte- sto vincolante e limitante l’azione rieducativa.

Sono passati anni dall’introduzione di questa figura professionale all’interno del sistema detentivo eppure è ancora poco approfondita la pratica del colloquio in carcere (Lenti- ni 2012), della relazione d’aiuto (Decembrotto 2015), così come è inascoltata l’esposi- zione continua a fenomeni di disagio professionale in carcere, fino alle più gravi forme di burn out (Benelli, Mancaniello 2014), e la relativa necessità di supervisioni emozio- nali e metodologiche mirate a quel contesto. La fatica di chi lavora per costruire il tratta- mento educativo viene lasciata alla gestione del singolo, il quale può vivere con frustra- zione tale condizione e innalzare delle difese, ad esempio burocratizzando la propria professionalità o distaccandosi sempre più emotivamente (Pirè 2014). Non è stata co- struita una forte rete di scambio professionale a livello nazionale (Lentini 2012; Benelli, Mancaniello 2014) e, anzi, il numero di tali professionisti è costantemente insufficiente rispetto alla necessità degli istituti, rendendo ancora più ardua la necessità di curare la propria professionalità, nella specificità del carcere, costituendo, ad esempio, quella che Benelli e Mancaniello (2014) chiamano la comunità di lavoro, una rete professionale che potrebbe sollevare questioni su specifici aspetti della detenzione, ipotizzare forma- zioni trasversali, attraverso cui dialogare con le realtà locali o interprofessionali. Una “comunità professionale di pratica” (Benelli, Mancaniello 2014) che si occupi di comu- nicazione interna tra educatori penitenziari sparsi in tutta Italia e di formazione specifi- ca.