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3. Percorsi di marginalizzazione tra detenzione e vita di strada

3.2 Educazione e carcere

3.2.1 Il trattamento rieducativo che tende al reinserimento sociale

Nell’ordinamento giuridico italiano, il riferimento alla finalità della pena è contenuta sia nell’art. 27 della Costituzione, sia nell’art. 1 dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975) denominato “Trattamento e rieducazione”.

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tende- re alla rieducazione del condannato» (art. 27 Cost., co. 2).

«Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a na- zionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religio- se.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non in- dispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli 69 Le classi più povere e marginali sono punite duramente nell’illegalismo dei beni, reati commessi contro persone e cose, di cui il furto è il prototipo, mentre l’illegalismo dei diritti, riguardante la violazione dello svolgimento di attività lecite, comporta ripercussioni penali decisamente più lievi e dai contorni più sfumati, in quanto la loro violazione è appannaggio delle classi economicamente più solide. La borghesia «si è riservata il dominio fecondo dell’illegalismo dei diritti» (Foucault 2007, p. 95) e il carcere contribuirebbe a mantenere tale ordine delle cose.

stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.» (art. 1 o.p.).

Se la pena in epoca moderna, nel suo primo periodo trasformativo, è passata dall’essere pena corporale a pena detentiva, come è stato preso in esame, in epoca contemporanea la stessa pena detentiva ha subito una ulteriore trasformazione da retributiva a rieducati- va (o risocializzativa), ovverosia da pena certa così come sostenuto dalla scuola classi- ca, a pena utile così come richiesto dalla scuola positiva. Se la pena certa vuole essere equa, proporzionata, sicura nella sua applicazione, senza alcun margine di discrezionali- tà e soprattutto equa, escludendo così la possibilità di tener conto di fattori ambientali e personali, la pena utile si dà come obiettivo massimo la rimozione di tutti quei fattori ambientali e personali che hanno portato la persona a commettere un reato, piuttosto che punire inflessibilmente tale reato. Da punitivo l’intervento diventa correzionale, affin- ché venga esteso e incrementato il benessere dei cittadini, inclusi quelli devianti e mar- ginali. Il paradigma risocializzativo si è dunque sviluppato secondo una triplice forma (Brunetti 2005):

1. dando la possibilità dal detenuto di conformarsi al vivere nella società; 2. dando accesso a misure alternative al carcere;

3. mantenendo la reclusione in carcere, secondo un approccio più propriamente re- tributivo, nei confronti dei soggetti detenuti ritenuti irriducibili e pericolosi. La riforma del 1975, il successivo ampliamento delle pene alternative e dei benefici concessi ai detenuti (legge 633/1986, conosciuta anche come Legge Gozzini), e le se- guenti estensioni, incarnano proprio questo paradigma risocializzativo. Questa però non sarebbe una novità in senso stretto. Già in passato il sistema detentivo aveva provato a intraprendere questa strada. Lentini (2012) riferisce che il recupero sociale del detenuto in Italia fu oggetto di riforma già alla fine dell’Ottocento, quando partì una generale ri- flessione sulla giustizia maggiormente orientata alla correzione, sulla scia delle rifles- sioni della scuola positiva. Tuttavia tale direzione si perse con l’affermarsi del fascismo, quando divenne prioritario tornare ad una pena correttiva, intimidatoria, esercitata in un

luogo isolato e totale emarginazione70, per poi essere rintrodotta a partire dalla stesura

della Costituzione nel 1948 nei termini di umanizzazione della pena e sua finalità riedu- cativa.

La detenzione, così come oggi è pensata dal legislatore, comporta un trattamento riedu- cativo che si configura nei termini di un percorso il cui traguardo finale è il reinserimen- to sociale. Da cosa è composto tale percorso? La risposta a questo interrogativo è da cercarsi all’interno della legge 354/1975, incarnazione dei principi costituzionali appena richiamati, e attuale declinazione della pena detentiva. Il nuovo Ordinamento peniten- ziario prevede un trattamento educativo formato da diversi elementi elencati all’articolo 15 dello stesso testo di legge e descritti dettagliatamente negli articoli successivi. Questi sono l’istruzione, scolastica di ogni ordine e grado e professionale, il lavoro intramura- rio e extramurario, la religione espressa e vissuta in modo libero e non coercitivo, le at- tività culturali, ricreative e sportive, i contatti con il mondo esterno, in particolare quelli coinvolgenti la famiglia.

Alcuni di questi elementi, per la precisione lavoro, scuola e religione, erano iscritti già nel codice penale vigente in epoca fascista, come contenuti coercitivi del trattamento penitenziario. Lentini, citando un intervento di Massimo Pavarini, riporta:

«il lavoro, l’educazione e la religione sono elementi “ascrivibili al patrimonio cromosomico del carcere, e rappresentano pratiche appartenute ad una tradizione derivata dalla disciplina convenutale, passata dalla tradizione scientifica del positivismo progressista nell’Ottocento attraverso l’esperienza quacchera americana» (Lentini 2012, p. 83).

Brunetti (2005) precisa che ora questi sono “elementi del trattamento” e non più, come definiva la vecchia normativa fascista, “contenuto del trattamento” (definizione onni- comprensiva che riuniva ogni aspetto della vita dell’uomo nei confini tracciati dal lavo- ro, famiglia e religione), in quanto il trattamento viene pensato in risposta a situazioni complesse, multifattoriali, che possono richiedere quegli elementi, così come altri non esplicitati:

70 Durante tale periodo il trattamento penitenziario rieducativo si basò su tre specifici strumenti: il lavoro, l’istruzione e la pratica religiosa. Ogni altra attività risultava proibita, se non perfino pesantemente sanzionata attraverso un rigido codice disciplinare.

«I profondi mutamenti socio-economici, l’approfondimento dello studio della materia, han- no però evidenziato […] come gli interventi per la prevenzione ed il controllo della crimi- nalità debbano coinvolgere situazioni e valori che vanno ben al di là degli elementi conside- rati» (Brunetti 2005, p. 277).

Chi pone in essere questo trattamento così articolato è, secondo l’art. 80 “Personale dell’amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena” della legge 354/1975, un insieme di professionisti tra cui vi sono gli “educatori per adulti”. Solo nel 1992 nasce- ranno le aree educative (o del trattamento)71, le quali, per ammissione degli stessi organi

dirigenziali72, furono immediatamente concepite come uffici burocratizzati, più attenti

agli adempimenti formali che alla progettualità e al trattamento personalizzato, spesso limitando la propria organizzazione all’équipe più operativa anziché farsi carico dell’intero spettro d’azione, ben più ampio di quello dei soli interventi compiuti dagli “educatori per adulti” assunti dal Ministero della Giustizia. L’area educativa infatti do- vrebbe comprende, ad esempio, anche gli operatori degli enti locali che partecipano all’azione rieducativa secondo quanto riportato nell’art. 17 “Partecipazione della comu- nità esterna all’azione rieducativa” e i volontari previsti dall’art. 78 “Assistenti volonta- ri”. Il compito principale dell’area educativa è quello di concretizzare l’obiettivo riedu- cativo mediante la volontà di cambiamento del condannato stesso. Questa volontà, ipo- tizzando che il più delle volte non sia un dato di partenza, andrebbe promossa attraverso lo sviluppo di una coscienza critica del proprio passato, che comporti anche una pro- gressiva rivisitazione dell’atto deviante. Nonostante ciò una delle criticità riscontrate nell’area educativa era proprio quella di soffermarsi sulla programmazione di attività di intrattenimento, utili a riempire dei tempi vuoti e senza finalità, smorzare le tensioni, certamente garantire spazi di socialità, trascurando però significativamente tutto il lavo- ro individualizzato per lo sviluppo di quella coscienza critica (Lentini 2012).

Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria73 per superare questo vicolo cieco ride-

finì le fasi del trattamento penitenziario, differenziando tre livelli progettuali74:

71 Circolare 3337/5787 del 07/02/1992.

72 A tal riguardo sono state redatte sia la circolare 3554/6004 del 28/05/2001, sia la circolare 3593/6043 del 09/10/2003.

73 Organo che per nell’ambito del Ministero della giustizia si occupa della gestione amministrativa del personale e dei beni della amministrazione penitenziaria, svolge i compiti relativi alla esecuzione delle misure cautelari, delle pene, delle misure di sicurezza detentive e del trattamento dei detenuti. 74 Circolare 3593/6043 del 09/10/2003.

1. il livello della pianificazione, affidato alla Direzione dell’Istituto;

2. il livello dell’organizzazione, gestione e del coordinamento operativo, affidato all’area educativa;

3. il livello operativo del trattamento individualizzato, affidato agli educatori, al Gruppo di Osservazione e Trattamento (GOT) e all’intera équipe.

Di questo si prenderà in esame soltanto il primo, riguardante ciò che i Direttori devono definire ogni anno: il progetto pedagogico dell’Istituto. Questo deve contenere l’indica- zione delle attività trattamentali previste all’interno dell’istituto, i programmi e le pro- gettualità da realizzare grazie alla comunità locale, oltre alle risorse umane e materiali messe a disposizione per poter portare a termine tale progetto, le indicazioni metodolo- giche e la definizione dei tempi previsti per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Lentini (2012) riporta che tale tipo di progettualità ad oggi è lasciata al responsabile dell’area educativa, in accordo alla direzione.

Agli educatori è lasciata l’attuazione di tale Progetto pedagogico, ruolo controverso af- frontato di seguito.

3.2.2 L’educatore penitenziario come funzionario della professionalità