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Il GRADIT tra norma e uso

Nel documento La comunicazione parlata 3 (pagine 172-175)

Parlato e dizionari. Il trattamento lessicografico degli usi parlati nel GRADIT

2 Il GRADIT tra norma e uso

I dizionari, così come le grammatiche, sono definiti i ‗codici‘ linguistici di riferimento nei quali sono raccolte le norme e le prescrizioni circa l‘uso corretto di una lingua (cfr., tra gli altri, Berruto, 1995: 212; D‘Achille, 2003: 30). L‘esistenza di grammatiche e dizionari in tal modo definiti è uno dei capisaldi cui si fa comunemente riferimento quando si vuol definire la nozione di lingua standard o di standardizzazione in linguistica (cfr. Ammon, 1986). La nozione di standard è indissociabile da quella di norma, in quanto è sotteso il riconoscimento al fatto che nella concreta dinamica dell‘Italia odierna (ma anche di quella del passato) esiste un punto di riferimento normativo che è codificato dai vocabolari, dalle grammatiche come pure dall‘intera tradizione scolastica e che, in quanto tale, viene generalmente assunto come corretto (cfr. D‘Agostino, 2007: 123). Manuali di grammatica e dizionari godono di questo status privilegiato in quanto sono basati su modelli indiscussi di riferimento, ossia su testi cosiddetti ‗esemplari‘ che costituiscono autorità esplicite cui riferirsi (cfr. Berruto, 1995: 212).

Quali sono i testi cosiddetti ‗esemplari‘ cui un buon dizionario deve far riferimento? Sicuramente non si può prescindere dagli spogli dei

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testi che hanno caratterizzato la produzione letteraria, filosofica, scientifica ecc. (quindi di testi che presuppongono che le parole siano penetrate profondamente nell‘uso; cfr. Migliorini, 1961: 82) di una nazione, ma un dizionario cosiddetto ‗generale‘ o ‗dell‘uso‘ deve essere in primo luogo la rappresentazione del lessico di una lingua (De Mauro, 1999b: VIII), ossia dell‘insieme dei lessemi effettivamente esistenti e attestati nei testi e nei discorsi (scritti e parlati) realizzati in una lingua. Un dizionario dell‘uso quindi, pur considerando col dovuto rispetto anche le voci del passato, arcaiche o antiquate, le varietà regionali, le voci letterarie ecc., deve registrare le parole della lingua in una dimensione sincronica, cioè relativamente al suo funzionamento e ai suoi caratteri attuali (cfr. Della Valle, 2005: 57).

Come scrive De Mauro nell‘Introduzione al GRADIT «dappertutto,

per ogni lingua che sia viva nell‘uso scritto e parlato, il Signor Uso, come diceva sorridendo il Manzoni, l‘usus del già citato Orazio, è l‘unico proprietario dei diritti di cittadinanza o di reiezione di forme e regole» (De Mauro 1999b: X).

È l‘uso, quindi, che regola e definisce la presenza o l‘assenza di un vocabolo nel lessico di una lingua storico-naturale ed è l‘uso che arriva a definire che cos‘è la norma, ossia quali sono le condizioni affinché una parola sia un buon candidato per entrare (oppure no) a far parte del sistema linguistico di una lingua, o ancora in quali casi le parole possono perdere alcune accezioni o subire specificazioni, restrizioni o riarticolazioni di ciascun significato in nuove famiglie di sensi, in nuove accezioni (cfr. De Mauro, 2006: 6).

La nozione di norma deve essere intesa non nel senso di qualcosa di normativo, di prescrittivo, ma nel senso di ―abitualmente usato, accettato, condiviso ecc.‖ dai parlanti. Un dizionario dell‘uso deve registrare appunto gli usi cosiddetti ‗normali‘ di una lingua, ossia gli usi (sia scritti sia parlati) normalmente giudicati efficaci e condivisi dai parlanti di una lingua storico-naturale. Come sostiene Tullio De Mauro, un buon dizionario dell‘uso è quello che non affida le parole a un crudo elenco di più o meno felici definizioni delle loro accezioni, ma mette in evidenza i molti fili che si intrecciano in ciascuna parola (cfr. De Mauro, 2006: 10), ossia ne coglie (nella misura in cui può farlo un dizionario) i suoi molteplici usi.

Importanti in questo senso sono le fonti di riferimento di un dizionario e, per quanto riguarda il GRADIT, tali fonti sono innanzitutto il

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(abbreviato GDLI, 1961-2002) e il suo antecedente, il Dizionario

della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini

(Tommaseo-Bellini, 1865-1879), l‘impresa lessicografica più

importante dell‘Ottocento1

. Si tratta di fonti assai significative, in quanto – nonostante all‘epoca in cui apparve il Tommaseo-Bellini l‘italiano parlato non fosse ancora un bene nativo per la maggior parte della popolazione che abitava la penisola italiana – già troviamo una grossa attenzione agli usi parlati.

In questo il Tommaseo-Bellini segue una tradizione già anticipata dal

Vocabolario della Crusca che, fin dalla prima edizione del 1612, si

propone di stabilire un equilibrio fra la presentazione degli usi scritti e di quelli tipici del parlato, come è scritto nella Prefazione: «[…] Deesi parimente avvertire, che oltre alle voci ritrovate negli autori di quel buon secolo, n‘abbiamo nell‘uso moltissime altre […] parendoci bene darne notizia, per non impoverirne la nostra lingua, n‘abbiam registrate alcune» (dalla Prefazione alla I ed. del Vocabolario della

Crusca, ora disponibile anche online sul sito http://www.accademiadellacrusca.it).

De Mauro, infatti, nell‘Introduzione al GRADIT afferma che «il dizionario di una lingua, […] quale che essa sia, parte dal reperire le parole-occorrenze nelle realizzazioni e testimonianze concrete, scritte e parlate, dei discorsi e testi, cioè degli enunziati di e in quella lingua: di quegli enunziati già esistenti e documentati e di quelli possibili e accettabili. Il suo punto di partenza, cui infine la verifica della bontà del dizionario deve tornare, è dato dagli innumerevoli vocaboli dei testi e discorsi in una lingua» (De Mauro, 1999b: XI).

L‘attenzione agli usi scritti e parlati è dunque un dato di partenza affinché nella parola si colga – come dice De Mauro citando Antonino Pagliaro – la «traccia della vita dei parlanti» (De Mauro, 2008: 90), dal momento che – come ha messo in evidenza Ferdinand de Saussure negli Scritti inediti di linguistica generale – ciascuna parola, così come il suo senso, «non esistono fuori della coscienza che noi ne abbiamo […]. Da qualunque punto di vista ci si collochi, una parola

1 A queste si aggiungono il LUI (1968-1981), il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, 11a ed. (Zingarelli, 1983), il VOLIT (1986-1994), il Nuovo

vocabolario illustrato della lingua italiana a cura di Giacomo Devoto e Gian Carlo

Oli (Devoto and Oli, 1987), il Dizionario medico illustrato Dorland (1987) (De Mauro, 1999b: XIII).

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esiste veramente soltanto grazie alla sanzione che riceve di momento in momento da parte di quelli che la usano. È quest‘uso che la rende differente da una successione di suoni e che la fa differire da un‘altra parola, anche se questa pure fosse fatta con la stessa successione di suoni» (Saussure, 2002/2005: 94).

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