Il parlato: prospettive cognitive Antonino Pennisi
3 Il parlato come embodied cognition
Sinora ci siamo attenuti alla formulazione filosofica del problema, che non è, tuttavia, accettabile nei termini stringenti di un modello cognitivista. Tuttavia, si tratta di un‘idea irrinunciabile che val la pena di ricondurre a regole formalizzate.
Se, infatti, il parlato è una forma di cognizione specifica, deve fare i conti con tutte le prescrizioni metodologiche che le scienze cognitive
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impongono preliminarmente a qualsiasi altra forma di cognizione. Chiedersi, quindi se:
è dominio-specifica? è modulare? è innata? è etologicamente specie-specifica?
è biologicamente specie-specifica? ha una spiegazione evolutiva?
può essere indagata con metodi sperimentali? Ecc.
Si tratta di una serie di interrogativi troppo complessi per avere qui (o anche in altri luoghi) una risposta esauriente. Si può solo dire che su questo punto si sta giocando una partita decisiva all‘interno delle scienze cognitive in cui serpeggia un‘anima antilinguistica assolutamente non trascurabile. Poiché all‘interno di questo panorama la mia resta una posizione fortemente ancorata alla centralità della funzione linguistica nella ricostruzione della forma cognitiva specie-specifica dell‘homo sapiens, cercherò di sintetizzare, del tutto sommariamente, una serie di risposte alle enormi domande qui poste, con un occhio rivolto alla dimostrabilità sperimentale di quanto vado dicendo, assumendomi le responsabilità di queste opinioni.
Il parlato si fonda su strutture morfologiche periferiche e centrali biologicamente ed etologicamente specie-specifiche (Lieberman, 1975; 1984; 2002; 2003; 2006; 2007; 2008). Il tratto vocale del
sapiens è ―tecnicamente‖ specializzato nel fornire alle strutture
cerebrali corticali e subcorticali un hardware esecutivo adatto alla funzione ontologica che abbiamo prima descritto. Tale adattività è basata sulla rapidità del sistema di controllo senso-motorio del linguaggio; dal suo particolare interfacciamento fisiologico con tutti i sistemi di ricognizione parallela dei sistemi percettivi (Friederici-Kotz, 2003a; 2003b; Pinel, 2006); dalla sua adeguatezza nei processi di ottimizzazione dell‘attenzione condivisa nei rapporti culturali con i conspecifici (Edelmann, 1992; Bruner, 1983; Tomasello, 1999). Se consideriamo la scrittura una exaptation del parlato, dobbiamo allora includere tra le caratteristiche etologicamente specie-specifiche del parlato anche i processi di cumulazione irreversibile del social
learning e l‘innovatività che ne consegue e che ha reso possibili lo
sviluppo delle tecnologie e dei sistemi di comunicazione e, quindi, l‘estendersi della complessità dei sistemi sociali (Boyd-Richerson, 2005; Diamond, 1992-6; 1997; 2005).
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Da un punto di vista evolutivo bisogna distinguere tra le strutture e le funzioni del parlato:
Le strutture si sono indubbiamente evolute a partire da un processo di evoluzione graduale rispetto ai primati e, più in generale, ai mammiferi. Sia i tratti genetici sinora individuati come responsabili del coordinamento motorio oro-buccale (FOXp2, cfr. Enard et al, 2002; Scharff and Haesler 2005; Falzone, 2004a; 2004b; 2006), sia quelli morfologico-centrali come l‘asimmetria emisferica (Crow, 2000; Pennini, Plebe and Falzone, 2004), o le componenti sub-corticali (Lieberman, 2003; 2006; 2007; 2008), sia quelli morfologico-periferici come l‘abbassamento della glottide (Fitch, 2000a; 2000b; 2002; Fitch and Reby, 2001) e, forse, la struttura dell‘osso ioide (Arensburg et al, 1989), si sono riscontrati anche in fasi e specie più antiche.
Per quanto riguarda le funzioni, i dati di cui disponiamo sino ad oggi non possono che far propendere per l‘ipotesi chomskyana di un salto evolutivo (ma non a-specifico come vorrebbe Lenneberg, 1967). Tali dati si riferiscono in maniera schiacciante ai tempi di sviluppo delle tecnologie, dell‘arte e delle altre forme di cultura simbolica evolutesi in maniera rapidissima negli ultimi centomila anni, dopo milioni di anni di stasi. Naturalmente, non è affatto scontato, o, perlomeno, deve ancora essere dettagliatamente dimostrata la relazione tra la forma cognitiva specifica del parlato e lo sviluppo di: 1) forme di scrittura; 2) forme di saperi logico-matematici; 3) tecnologie; 4) religioni; 5) sistemi di codificazione legislativa di norme; 6) forme di creatività artistica. Non si può, tuttavia, trascurare, il dato cronologico che fa coincidere l‘origine di queste forme con la presenza di forme di comunicazione parlata (Leroi-Gourhan, 1964; Tattersall, 1998). La forma evolutiva tecnica di questo improvviso sviluppo di funzioni e forme di conoscenza superiori dovrebbe essere quella dell‘exaptation. Dal punto di vista dell‘architettura mentale della forma cognitiva parlata, essa riflette quanto abbiamo detto relativamente ai suoi processi evolutivi.
Sotto il profilo dell‘architettura filogenetica, le strutture del parlato sono certamente innate. Tuttavia, questo è un dato scontato che, semmai, diventa interessante considerato nella visione della biologia
evoluzionista. La lezione più grande dell‘evoluzionismo
contemporaneo è infatti proprio questa: sono gli organismi che si adattano, gli individui, non le loro strutture prese isolatamente, quasi fossero autosufficienti. Studiare il tratto vocale che può produrre
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―tecnicamente‖ il parlato, oppure studiare il cervello asimmetrico di una specie significa studiarne anche i rapporti con i piedi e le mani, con l‘apparato muscolo-scheletrico, con la struttura dell‘impianto circolatorio, respiratorio, digerente, nervoso: insomma con tutto l‘insieme delle strutture che hanno fissato nel corso della storia evolutiva la tipologia fisiologica della specie.
Lo stesso vale sul piano delle funzioni. Un animale capace di parlare non solo comunica in modo diverso, ma percepisce in modo diverso, ragiona in modo diverso, ricorda in modo diverso, desidera in modo diverso, si emoziona e agisce in modo diverso, si rapporta con i suoi conspecifici in modo diverso: ed è pervenuto a tutto ciò grazie all‘inesorabile interazione tra il caso e la selezione naturale operanti nel corso di quelle che Giambattista Vico chiamava le ―sterminate antichità‖.
Si va ad aggiungere, infine, a questa già complessa architettura, il peso della sociogenesi che proprio il parlato introduce in maniera irreversibile nella specificità dell‘animalità umana. Nessun‘altra forma, infatti, di social learning si manifesta attraverso l‘introduzione di un format interattivo tra i conspecifici basato sull‘esplicitazione parlata dei rapporti consapevoli o meno di apprendimento. La valorizzazione dell‘ontologia del parlato trascende di molto l‘attenzione condivisa su cui insiste Michael Tomasello.
In primo luogo, perché si tratta di un‘interazione che a livello delle strutture prosodiche e quindi della scoperta della semantica soprasegmentale si determina già a livello pre-natale, come dimostrano una quantità ormai sterminata di studi (Eimas et al, 1971; Evrard-Lyon and Gadisseux, 1984; Fernald and Simon, 1984; Fernald, 1989; Fernald and Mazzie, 1991; Mehler, 1989; Mehler et al, 1978; 1986; 1988; Mehler and Dupoux, 1990; 1996; Tomatis, 1972; 1981; 1987; 1991; Trehub, 1990). Si tratta di una embriogenesi specie-specifica, che determina una sorta di ―formattazione‖ cognitiva uditivo-vocale nella specie umana (Granier Deferire and Lecanuet, 1987; Pennisi, 1994). Oggi questo aspetto è studiato anche in prospetta filogenetica (Falk, 2009).
In secondo luogo, nonostante le strutture filogenetiche siano intatte, i bambini umani hanno bisogno di ―ascoltare‖ il parlato umano per attivare la funzione linguistica. Sappiamo, infatti, che gli enfants
sauvages non solo non parlano ma addirittura neppure camminano
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modo devono sentire il parlare dei consimili per poterli imitare (Pennisi, 2006).
In terzo luogo, attraverso la turnistica introdotta dalla pratica del parlare, il rapporto di ―attenzione congiunta‖ si trasforma in una disciplina interiorizzata che Tomasello, giustamente, connota come evolutivamente basata: (a) sull‘azione che si sta facendo in quello specifico momento; (b) sull‘inversione continua dei ruoli della comunicazione; (c) sul raggiungimento della condivisione degli scopi; (d) sull‘intersoggettività della comprensione contestuale. Senza la specificità della cognizione parlata niente di tutto ciò sarebbe possibile.
C‘è, infine, da considerare che la specificità della cognizione parlata come ―social learning‖ è connessa ormai per la quasi totalità delle culture alla forma scritta, che può essere certamente considerata la sua derivazione formale. Tale forma ha una duplice valenza etologica: a) contribuisce in modo definitivo alla cumulatività delle conoscenze e della loro trasmissibilità indipendente dai soggetti che la esprimono; b) cambia il modo stesso di esercitare la funzione cognitiva orale, potendo usufruire di una ―memoria infinita‖ (dizionari, manuali, banche dati ecc.).
In ogni caso, l‘architettura funzionale della mente ―parlata‖ non può che fondarsi su un ―modularismo debole‖ verso cui convergono oggi molte correnti del cognitivismo contemporaneo. Non si tratta più di capire – come sostiene qualche filosofo della mente – «in che modo certe funzioni cognitive che non hanno una natura prevalentemente linguistica mediano l‘esercizio della funzione linguistica presa in esame» (Perconti, 2006: 22), ma, esattamente al contrario, in che modo la specie-specificità della funzione linguistica riconverte in un nuovo organismo mentale l‘insieme delle funzioni cognitive che non hanno una natura prevalentemente linguistica. Il parlato, a questo proposito, è una forma di attività cognitiva specifica onnipervasiva e onniformativa (Hjelmslev, 1943). I problemi matematici, i contenuti creativi, le forme artistiche, le attività interazionali, la vita sentimentale e quella più strettamente razionale, le decisioni etiche, le credenze religiose, politiche, le ―fedi‖, possono anche avere ―antecedenti evolutivi‖ o nascere come risposte a problemi di natura evolutiva (riproduzione, difesa, raggiungimento della fitness), ma da quando li ricreiamo continuamente superandoli nell‘attività cognitiva agonistica del parlare, finiscono col perdere ogni precedente parentela e si costituiscono come nuovi oggetti epistemici emergenziali.
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L‘ontologia cognitiva del parlato è, in potenza, interamente dimostrabile per via sperimentale in quanto non connessa ad alcuna ipotesi dualistica. Naturalmente, ciò costituisce allo stato di fatto un progetto di ricerca, tra i più interessanti delle attuali scienze cognitive del linguaggio. Per il momento si possono segnalare solo alcuni filoni di ricerca (tra i tanti).
Gli studi di Hagoort (2005, Hagoort et al, 2004) sui processi di integrazione tra le conoscenze semantiche e le conoscenze sul mondo
(Word Meaning and World Knowledge in Language Comprehension)
fondate sulla neurofisiologia dei potenziali evocati:
- quelli di Grodzinsky (2000; 2006; Grodzinsky et al, 2003; Grodzinsky and Amunts, 2006) sulla nuova teoria dell‘area di Broca; - i nuovi studi di psicobiologia sui circuiti della parola, fondati sulle ipotesi non cerebro-centriche attorno alla neurofisiologia delle vie di trasmissione dei dati sensoriali affermatisi ormai dagli anni ottanta (ma ancora ignorati dai linguisti); cfr. Pinel (2006) e Friederici-Kotz (2003a);
- gli studi sulla temporalità nei processi neurobiologici e sulle loro strane patologie, che hanno preso il via dalle ricerche di Libet (2007); - gli studi sugli ambiti dominio-specifici del linguaggio emersi dalle ricerche di genetica molecolare della scuola di La Jolla in California (Arshavsky, 2006).
4 Conclusioni
Naturalmente, quello che vi ho qui presentato non è che una carrellata di problemi e questioni tutte da affrontare che ha solo lo scopo di fare chiarezza per proporre ed organizzare una serie di futuri programmi di ricerca. La direzione della ricerca nelle scienze cognitive è d‘altro canto oggi più che mai incerta. L‘idea che i processi cognitivi possano essere interamente simulati da procedure algoritmiche appartiene, infatti, alla preistoria della disciplina. Ci sono, tuttavia, molte ragioni per credere che quest‘idea sopravviva sotto altre forme sia nelle neuroscienze sia nella neuropsicologia sia nella stessa filosofia della mente. La crisi del computazionalismo classico non ha del tutto cancellato la concezione secondo la quale esisterebbero pensieri trascendenti, percezioni indipendenti, operazioni e procedure universali, stati mentali di natura psicologica. Analogamente, l‘ideale modulare che sta alla base dell‘ingegneria del software non ha smesso di esercitare il suo fascino nei teorici della cognizione. Il
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computazionalismo ha trasmesso alle neuroscienze l‘idea di un cervello-monade che si articola in aree-monadi producendo funzioni-monadi e alla filosofia della mente l‘idea che l‘insieme di tutte le monadi di cui è composto il nostro sistema cognitivo sia a sua volta una meta-monade inconsapevole.
Con questi residui artificialisti e antropocentrici si sta misurando negli ultimi venti anni la biologia evoluzionista che ha cercato di spostare ancora l‘obbiettivo finale collocando il cervello – la metafora ascendente delle attuali scienze cognitive – dentro l‘organismo vivente. La lezione più grande dell‘evoluzionismo contemporaneo è, infatti, proprio questa: sono gli organismi che si adattano, gli individui, non le loro strutture prese isolatamente, quasi fossero autosufficienti. Questa lezione ha spinto a rinsaldare l‘indagine sui fondamenti biologici del linguaggio, che trovano nella centralità del parlato uno dei punti di svolta del futuro programma di ricerca
bisogna riuscire ad includere la biologia nelle teorie della conoscenza e del linguaggio [...] sviluppare un‘epistemologia dai fondamenti biologici, una descrizione che spieghi alla luce dei fatti dell‘evoluzione e della biologia dello sviluppo come conosciamo e come abbiamo consapevolezza (Edelman, 1992: 390).
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