Parlato e dizionari. Il trattamento lessicografico degli usi parlati nel GRADIT
3 La rappresentazione del parlato nei dizionari
Render conto degli usi parlati nei dizionari vuol dire in primo luogo render conto degli usi fattuali, ancorando le definizioni dei dizionari ai contesti d‘uso. Come documenta Manlio Cortelazzo (1985), i dizionari solitamente sembrano riferirsi all‘uso orale in almeno tre casi: a) quando di una voce si dice che vive a, come nella definizione di
abbacchio (―agnello morto. Vive a Lucca‖) riportata nel Novo dizionario scolastico di Petrocchi (1892); b) quando si fanno confronti
tra diverse varianti regionali, come accade nel Tommaseo-Bellini (1865-1879) che alla voce Oltre riporta ―a Siena, dicesi per Avanti!
Andate avanti … Nel Padovano Venite oltre, Venite avanti, Verso di
me‖; c) quando si caratterizzano alcune parole o alcuni espressioni come familiari, spie pressoché sicure di oralità, come attesta Tommaseo a proposito di un uso particolare di restare (Quella pittura
resta a sinistra di chi entra, alla destra della porta maggiore) (v.
Cortelazzo, 1985: 446-447).
Nei dizionari correntemente in uso i primi due casi sono piuttosto sporadici, mentre il terzo (anche se la marca d‘uso familiare è solamente una di quelle più usate per attestare gli usi parlati) è quello più frequente.
In particolare, nei dizionari di uso corrente si ricorre solitamente a tre diverse strategie per il trattamento degli usi parlati: a) l‘utilizzo di particolari marche d‘uso; b) formulazioni più discorsive quali nel
parlato, nell‟uso parlato, nella lingua parlata ecc.; c) la presenza di
una fraseologia preparata ad hoc dalla redazione del dizionario per testimoniare l‘uso corrente, concretamente realizzato nel parlato e contemporaneo alla fase di redazione del dizionario.
Analizziamo una per una tali strategie. Per quanto riguarda il ricorso a particolari marche d‘uso, possiamo osservare che nel caso degli usi parlati esiste una situazione poco omogenea, probabilmente dovuta al fatto che il riconoscimento dell‘autonomia della dimensione diamesica – ossia della dimensione condizionata dall‘uso del mezzo scritto o
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orale – tra le varietà dell‘italiano (si considera come punto di partenza Mioni, 1983) è un‘acquisizione recente e non del tutto chiarita in sede teorica. Infatti, se da un lato l‘uso scritto e l‘uso parlato rappresentano indubbiamente due grandi classi di impiego della lingua (e dunque si tratterebbe di un buon argomento a favore del trattamento della diamesia come una sottocategoria della diafasia), d‘altro lato è pur vero che l‘opposizione scritto-parlato taglia trasversalmente tutte le dimensioni rappresentate nello schema delle varietà dell‘italiano elaborato da Gaetano Berruto (cfr. Berruto, 1987: 21) e non è del tutto riconducibile all‘opposizione formale-informale (cfr. Berruto, 1987: 22).
Se consultiamo l‘elenco delle marche diasistematiche riportate da alcuni tra i dizionari italiani maggiormente in uso (GDLI, 1961-2002; De Felice and Duro, 1974; Devoto and Oli, 1987; GRADIT, 1999a; Il
Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, 1987; Palazzi and
Folena, 1992; Passerini Tosi, 1969; Sabatini and Coletti, 1997; Simone, 2003; VOLIT, 1986-1994; Zingarelli, 1983), ossia le notazioni che si riferiscono ai livelli d‘uso delle parole o di loro singoli significati, possiamo osservare che solo lo Zingarelli (11a ed. 1983), accanto a marche quali arc(aico), bur(ocratico), com(une),
disus(ato), eufem(istico) ecc., riporta specificamente quella di parl(ato) (cfr. Aprile, 2005: 181).
Tutti gli altri dizionari fanno solitamente ricorso a etichette funzionali e di registro, tipiche della variazione diafasica, che finiscono per veicolare anche informazioni relative alla varietà diamesica (cfr. Marello, 1996: 139). La varietà diamesica non a caso è quella legata alla situazione comunicativa, all‘argomento trattato, al grado di confidenza che si ha con l‘interlocutore: a partire da questi fattori deriva la scelta di un registro linguistico formale (come l‘italiano aulico usato in certi discorsi solenni) o informale (come l‘italiano di tipo colloquiale usato nel parlato familiare, in situazioni di confidenza con l‘interlocutore ecc.) (cfr. D‘Achille, 2003: 35).
Le marche d‘uso di natura prevalentemente diafasica comunemente usate per riferirsi a usi tipici del parlato sono: a) colloquiale, che indica la varietà tipicamente parlata (indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza) ed è usata nella conversazione ordinaria, nel normale parlare quotidiano, negli usi comunicativi correnti (cfr. Berruto, 1987: 25) indipendentemente dalla variazione diatopica ed è dunque da intendersi come ‗sovraregionale‘ (v. Berruto, 1987: 140),
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come nel caso di farla franca nel senso di ―evitare le conseguenze di una malefatta, non essere scoperto‖; di gabbia anziché prigione,
galera ecc.; b) familiare, utilizzata spesso come sinonimo di colloquiale o informale, ma, in realtà, si riferisce a una varietà di
lingua (tipica della conversazione) caratterizzata dal formarsi presso famiglie o anche gruppi di amici, nuclei di persone che abitano e/o vivono vicine ecc. (cfr. Dubois-Dubois, 1971: 101; Berruto, 1987: 26), come nel caso di al bacio al posto di riuscito perfettamente; di
giustifica anziché giustificazione ecc.; c) scherzoso, che denota alcuni
usi scherzosi (spesso iperbolici) tipici della conversazione parlata, come nel caso di godurioso anziché godereccio; di mina vagante per riferirsi a una persona che, per i suoi comportamenti poco prevedibili, costituisce una minaccia ecc.; d) ironico, che denota quegli usi (tipici della conversazione parlata) con cui intendiamo l‘opposto di ciò che certe strutture linguistiche normalmente significano, come nel caso di
amico nel senso di ―persona nota che non si vuole nominare
esplicitamente: è passato l‟amico tuo ieri sera…‖; di gusto riferito a qualcosa di nessun interesse o spiacevole: sai che gusto passare la
domenica a fare le pulizie di casa! ecc.; e) spregiativo, che denota
parole, espressioni usate per riferirsi a qualcosa, a qualcuno, a un evento con disprezzo, come nel caso di bastardo per designare chi è nato da un‘unione illegittima; dell‘aggettivo libero usato per riferirsi a una donna di facili costumi; di pivello per riferirsi a un giovincello sprovveduto e inesperto, ma anche presuntuoso e saccente ecc.; f)
volgare, che denota parole, espressioni usate per riferirsi in maniera
volgare a qualcuno, a qualcosa, a un evento ecc., come nel caso di
fregola per riferirsi all‘eccitamento, al desiderio sessuale presente
negli esseri umani; di pisciare al posto di orinare; di puttana al posto di prostituta ecc.
Abbiamo poi delle marche d‘uso che sono sì riconducibili alla variazione diastratica, ma che si riferiscono a parole e modi di dire usati prevalentemente nel parlato basso e sub-standard (cfr. lo schema dell‘architettura delle varietà dell‘italiano di Berruto, 1987: 21): g)
gergale, per riferirsi a quelle varietà colloquiali-espressive proprie di
alcune categorie o gruppi di utenti che, oltre a presentare tratti di tipo informale e trascurato, hanno anche un lessico peculiare, funzionale sia per affermare sia per rinforzare il senso di appartenenza al gruppo (cfr. Berruto, 1987: 25), come nel caso di erba al posto di marijuana; di flippato per riferirsi a qualcuno fuori di testa, impazzito,
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specialmente in seguito a un‘esperienza di droga ecc.; h) popolare, che denota una varietà sociale dell‘italiano, situabile in diastratia, usata da /tipica di strati sociali bassi, incolti e semicolti (cfr. Berruto, 1987: 108), come nel caso di dire usato con valore impersonale nel senso di ―pare‖, ―corre voce‖: dice che l‟estate sarà calda; di fettone usato specialmente al plurale per indicare un piede grande e grosso; di
gargarozzo per gola; di presciutto per prosciutto ecc.
Accanto alle marche d‘uso considerate poc‘anzi, nei dizionari possiamo poi trovare formulazioni più discorsive per riferirsi a usi tipici del parlato quali nel parlato, nell‟uso parlato, nella lingua
parlata ecc., come nel caso del pronome gli che, specialmente nella
lingua parlata, compare in usi colloquiali in alternativa a loro, a essi, a
essa/esse; di loro che, specialmente nella lingua parlata, è usato con
valore di soggetto in alternativa a essi/esse ecc.
I dizionari, infine, spesso ricorrono – oltre che alle marche d‘uso e alle formulazioni più discorsive – ad esempi, citazioni ecc., insomma a tutta una fraseologia preparata ad hoc dalla redazione lessicografica per render conto, in maniera più vicina alla realtà dell‘uso, di casi concreti di usi parlati, come nel caso della definizione di casino nel senso colloquiale di ―confusione, disordine‖ (per esempio in questa
stanza c‟è un gran casino!); di lavatrice nel senso colloquiale ―ciclo
di lavaggio effettuato con tale elettrodomestico‖ in cui troviamo
faccio almeno una lavatrice al giorno ecc.
Come abbiamo detto alla fine della Premessa (§ 1), in assenza di un corpus di parlato di riferimento per qualificare determinati usi come tipici del parlato e dunque per costituire il nostro corpus di usi parlati nel GRADIT, ci siamo basate sui criteri tradizionalmente utilizzati dai dizionari per rappresentare il parlato, e dunque in primo luogo sulle marche d‘uso testé riportate e sulle formulazioni discorsive, avvalendoci il più possibile della fraseologia presente nelle singole voci. L‘adozione di questo criterio ha fatto sì che nel nostro corpus siano presenti alcune espressioni, soprattutto fra quelle di basso uso, come bigoncia (―cattedra‖, da cui le espressioni polirematiche
montare/salire in bigoncia nel senso di ―fare il saccente‖), cippettino
(―pokerino‖) che probabilmente facciamo difficoltà a riconoscere di primo acchito come usi tipici del parlato, tuttavia la contemporanea presenza (accanto alla marca BU relativa alla fascia di frequenza di basso uso) di marche di registro quali scherz., fam., colloq. ecc. ci ha fatto propendere a qualificarle tra gli usi parlati, proprio perché –
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come abbiamo già detto poc‘anzi – gli usi scherzosi, familiari, colloquiali ecc. sono avvertiti come prevalentemente tipici del parlato, anche se non possiamo escludere che abbiano potuto trovare una qualche attestazione anche in usi scritti, ma quest‘ultimo aspetto non abbiamo potuto verificarlo.