Il parlato: prospettive cognitive Antonino Pennisi
2 Il parlato come forma ontologica di cognizione
Se vogliamo capire cosa sia la dimensione cognitiva propria del parlato è indispensabile considerare che esso si colloca al centro di una sequenza cronologica, ma anche funzionale, in cui prosodia,
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morfologia, sintassi e semantica vengono prima, mentre la scrittura, e tutte le tecnologie cognitive che ne derivano, vengono dopo.
L‘articolazione linguistico-fonetica che si colloca al centro è la forma specie-specifica della cognizione umana. Essa, da un punto di vista cognitivo, non può, tuttavia, essere studiata in maniera uguale nelle società prive di scrittura e in quelle post-chirografiche. Così come il parlato ha conferito specificità etologica a prosodia, morfologia, sintassi e semantica, così la scrittura ha conferito nuove funzionalità, cioè nuove specificità cognitive all‘articolazione linguistico-fonetica. Sotto questo profilo il modo di pensare il parlato nelle società orali è molto diverso da quello delle società fondate sulle tecnologie mentali della scrittura.
Sarebbe troppo lungo affrontare qui questo tema. Pertanto, per il momento, assumeremo l‘ipotesi di spiegare la pertinenza cognitiva esclusiva del parlato così come noi lo viviamo nelle nostre culture scritte, dotate, quindi, anche di ―immagini visuali‖ delle parole, fissate sotto forma di lessici, dizionari, repertori, manuali e quanto altro pertiene alla memorizzazione fissa e a lungo termine dei concetti (questa non era certamente la condizione iniziale del parlato). Partendo da questa condizione dovremmo cercare di capire in quali ambiti il parlato produca cognizioni irriducibili a quelle di qualsiasi altra forma di pensiero, quanto estesi siano tali ambiti in relazione all‘intero campo conoscitivo della mente umana e quali criteri possiamo adottare per definire in modo formale questo genere di irriducibilità. Detto in altri termini, dobbiamo ancora capire se il parlare produce pensieri di tipo ―speciale‖, quanta parte della cognizione umana prendono questi pensieri ―speciali‖ e come facciamo ad essere sicuri che questa ―specialità‖ non sia solo un‘affermazione speculativa indimostrabile per via sperimentale. Vedremo che non sempre sarà possibile rispondere a tutte queste domande e che spesso le risposte genereranno più problemi di quanti non ne risolvano. Qualcosa, tuttavia, può essere detta.
Cominciamo, intanto, dal capire in che senso la cognizione parlata produce pensieri irriducibili a quelli prodotti da altre forme di cognizione, pensieri ―speciali‖. Immaginiamoci, ad esempio, di pensare a quello che dobbiamo dire dovendo sostenere una discussione su un dato argomento con un altro interlocutore o
nell‘esporre una lezione universitaria ai nostri studenti.
Immediatamente nella nostra mente si manifestano affollati e tumultuosi pensieri silenziosi in attesa di prendere una forma
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articolata, distribuita e stabilizzata. Qui già possiamo riscontrare i primi problemi.
Il linguaggio interiore è una forma di parlato? Cosa produce esattamente il linguaggio interiore umano? Frasi definite pronte ad essere ―ricopiate‖ attraverso la pronuncia o la scrittura? Stringhe sintatticamente ordinate di simboli linguistici? Strutture profonde nel senso chomskiano del termine? Nuclei semantici indicativi ma indefiniti rispetto a un contenuto di pensiero non linguistico?
Ognuna di queste soluzioni ci conduce in un vicolo cieco. Nonostante il loro fascino apparentemente esplicativo, tutte possono essere ricondotte al medesimo errore di fondo: presuppongono la precedenza dei concetti sulle parole e la sostanziale inutilità cognitiva del parlato. Sia ―ricopiare‖ le frasi così come ci vengono in mente, sia trasformare le strutture profonde in strutture superficiali, sia disporre in un ordine grammaticale le unità già dotate di contenuti semantici, significa che stiamo traducendo un pensiero definito in una forma ―esteriormente‖ decodificabile.
Come sappiamo almeno da Saussure e Wittgenstein in poi, il ―dente di arresto‖ (Tomasello, 1999: 24) della semantica contemporanea è la rinunzia definitiva all‘idea nomenclaturistica del significato. Per Wittgenstein non esistono pensieri, idee, concetti a prescindere dal loro atto di costituzione dialogica. Per Saussure dal punto di vista ―psicologico‖ non c‘è nulla di distinto nel pensiero prima del segno linguistico. Il pensiero non linguistico è una massa amorfa e nebulosa. Lo specifico ruolo del linguaggio è di interfacciare pensieri e suoni. In un certo senso, sono questi gli assiomi che hanno sconfitto per sempre quello che Popper chiamava il «dogma positivistico del significato» (1934: 13-20) e che per Ong è il frutto delle culture scritte, dell‘uomo ―chirografico e tipografico‖ che «tende a pensare ai nomi come etichette mentalmente affisse all‘oggetto determinato» (1982: 61) – fatto del tutto estraneo alle culture orali primarie in cui «le parole come tali non hanno una presenza visiva, anche quando gli oggetti che rappresentano sono visibili» (ivi: 59).
Credo, tuttavia, che ciò non può più bastare nella prospettiva attuale delle scienze cognitive. Occorre spingersi oltre verso una teoria del parlato come specifica forma ontologica di cognizione. Essa può scorgersi bene se eliminiamo dai nostri corpora d‘indagine linguistica tutto ciò che è comunicazione fàtica o pura tautologia e puntiamo sull‘analisi dei discorsi complessi – se ci occupiamo, cioè, di quello che Bergson chiamava ―il pensiero che si concentra‖ in opposizione al
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―pensiero che si lascia vivere‖ (1919: 120), il pensiero che non è ancora grammaticalizzato o lessicalizzato, il pensiero dinamico in cerca di un passo di arresto. In questa direzione potremmo forse adottare un‘altra soluzione al problema del linguaggio interiore: il
linguaggio interiore, che positivamente si presenta a noi sotto forma di etichette concettuali, non è ancora il parlato e non può sostituirsi ad esso come forma “conclusiva” di cognizione, poiché, negativamente, esso non è altro che l‟insieme di tutti i divieti, la somma di tutto ciò che noi escludiamo dall‟idea nuova che vorremmo trasmettere.
In questa idea, certo ancora pre-teorica, il ruolo del parlato è quello di muoversi in un contesto agonistico tra il linguaggio interiore e l‘articolazione esplicita. Si tratta di un ruolo attivo e irriducibile a qualsiasi altra procedura mentale. Essa ci impone implicitamente di muoverci non in conformità con le credenze – come normalmente si pensa – ma in costante conflitto con esse. Nella fisiologia ontologica della cognizione parlata ciò che bisogna attentamente valutare è il ―peso‖ agonistico che assumono per noi le parole: non ciò che asseverano, ma ciò che, intanto, negano. Ogni parola incapsulata nei discorsi non corrisponde a una verità-credenza, ma ad un insieme di pesi e limitazioni di svariata natura, che per ora ci accontentiamo di chiamare ―ontologica‖. Quando le articoliamo nel parlato ci sforziamo di costruire cognizioni fortemente limitate da questo insieme di pesi, ma non tanto da impedire alla frase di venire fuori, cioè di affermare più che la sua corrispondenza alla ―verità‖ il suo aspirare o tendere verso essa.
Veniamo al punto, ovvero cosa significa ―peso e limitazione ontologica‖, come possiamo determinare la natura delle limitazioni che spontaneamente avvertiamo quando parliamo. Non col principio di verità, che si concretizza nell‘idea ―patologica‖ (Pennisi, 1998) secondo cui enunciando un dato stato di cose contemporaneamente ne affermiamo sempre la corrispondenza a una credenza apofantica (ovvero assertoria). Ma neppure con la sua negazione, cioè con l‘esclusione programmatica della precisabilità del dicibile. La natura ontologica del peso che avvertiamo quando parliamo è piuttosto attribuibile ad una specie di ―principio di realtà‖ (Janet, 1903). Bisognerebbe, insomma, supporre che la natura dei limiti che avvertiamo quando ritagliamo lo spazio del dicibile sia più determinato dalla consapevolezza di ciò che escludiamo si possa affermare che non da ciò che includiamo in ciò che è espresso.
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L‘ontologia del parlare, d‘altro canto, non è programmabile: si realizza solo nel momento in cui si parla, né prima né dopo. Per questo è un‘attività cognitivamente ―speciale‖, diversa anche dal linguaggio interiore. In un certo senso, diversamente dalla metafora saussuriana, secondo cui parlare è come ritagliare con le forbici una forma da un foglio di carta, da un punto di vista cognitivo parlare assomiglia di più a scolpire con la punta di uno scalpello un blocco amorfo trasformandolo in un oggetto dotato di un suo senso. La precisione delle direzioni e dei contorni delle forbici sulla carta sono predicibili e in un certo senso programmabili (si pensi alle tecniche dei giochi di ritaglio o degli origami). Il colpo di scalpello, anche quando è dato da un ottimo scultore, non può avere lo stesso genere di precisione. Ciò che accade quando il martello colpisce lo scalpello è che una parte della materia di quel blocco è esclusa, non fa più parte del blocco stesso. L‘insieme di tutti i colpi di scalpello produce una massa di residui che stanno alla base dell‘oggetto prodotto e che non ne fanno più parte. La statua non è mai quella madonna, quel discobolo, quel trampoliere che avevamo in mente. Meno che mai è la madonna, il discobolo o il trampoliere in sé, un loro prototipo, una loro immagine. È semplicemente la risultante di tutti gli spezzoni esclusi, di tutte le scaglie pietrose che non fanno più parte dell‘idea di quella madonna, di quel discobolo, di quel trampoliere. È il trionfo dei limiti e dei pesi che ostacolano la libertà di pensare. Per dirla con Wittgenstein:
la frase, l‘immagine, il modello sono, in senso negativo, come un corpo solido che restringe la libertà di movimento degli altri; in senso positivo, come lo spazio, limitato da una sostanza solida, ove un corpo ha posto (Wittgenstein, Tractatus: 4.463).
Ecco, questo è il parlato come forma ontologica di cognizione.