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Software di analisi etnomusicologica: modelli di pensiero

3. HOLLERS AL MICROSCOPIO

3.1 La Documentazione

Gli hollers sono dei canti a voce sola, a tema primaria- mente profano, in uso tra cantori strettamente afroame- ricani nel Sud degli Stati Uniti fino alla metà del secolo scorso. Erano canti utilizzati durante le pause dal lavoro o per comunicare a distanza nei campi, ed erano mezzi di espressione e condivisione dei pensieri, delle sensa- zioni, dei timori esistenziali, in generale della situazione del cantore stesso. Probabilmente di largo uso nel mon- do relativamente chiuso delle comunità afroamericane impiegate nei lavori agricoli prima dell’abolizione della

schiavitù,8 scomparirono assieme al contesto economico

in cui venivano usati a causa delle migrazioni verso nord, della meccanizzazione dei lavori agricoli e dei profondi cambiamenti sociali avvenuti nel periodo delle due guerre mondiali. Rimasero però in uso, non a caso, in ambienti che per certi versi riproducevano la situa-

zione ottocentesca: nelle State Farms9 e nei Levee

Camp,10 dove continuarono a trovare un contesto, per

così dire, favorevole al loro utilizzo fin verso gli anni ’60. Questi canti vennero registrati per la prima volta

all’inizio del secolo scorso da H. W. Odum,11 su dischi

andati perduti. La maggior parte della documentazione su questi canti viene dai viaggi di ricerca di John e Alan Lomax, che li registrarono a più riprese, dagli anni 30’ ai primi anni ’60.12

8 La documentazione antecedente all’abolizione della schiavitù ri-

guardante le pratiche private e profane delle comunità afroamericane è a dir poco parca di informazioni. Alcune informazioni frammentarie si possono derivare dalle interviste agli ex-schiavi del Federal Wri-

ters’ Project, in cui effettivamente si fa riferimento all’uso di “hol-

lers” all’interno delle comunità. Tutta la documentazione del Federal

Writers’ Project è depositata alla Library of Congress di Washigton, e

consultabile online all’indirizzo [31]

9 Le State Farms erano prigioni di Stato dove i carcerati erano costret-

ti a lavorare ampi appezzamenti terrieri in circostanze non dissimili da quelle delle piantagioni del secolo precedente. La più famosa tra esse era denominata Parchman Farm. Per approfondire l'argomento, vedi gli articoli di Tannenbaum reperibili gratuitamente all’indirizzo [30].

10 I Levee Camp erano campi di lavoro per la costruzione degli argini

dei fiumi, in particolare quelli del Mississippi. In questi luoghi la manodopera nera veniva asservita economicamente attraverso un sistema di indebitamento nei confronti dei proprietari bianchi che gestivano la manutenzione dell’argine. Per una descrizione di prima mano dell'ambiente dei Levee Camp si veda l'intervista a Broonzy, Chatman, Williamson [2]. Per un'analisi molto approfondita e ben documentata dell'ambiente dei Levee Camp, attraverso documenti scritti e orali, consiglio l'ottimo articolo [8].

11 Il risultato delle ricerche di Odum, svolte assieme ad H.W. John-

son, è stato pubblicato nei volumi [17, 18].

12 Alcuni documenti contenenti holler provengono dalla spedizione di

Herbert Halpert del 1939 nel Sud degli Stati Uniti, quella di Harry Olster del 1959 alla Angola State Prison, e quelle di Harold Courlan-

3.2 Canti Liberi

In ambito accademico gli holler sono parzialmente sotto osservazione da più di un secolo.

Senza discutere nel dettaglio le teorie proposte a ri- guardo, mi preme soffermarmi più che altro sulle osser- vazioni strettamente tecniche storicamente svolte su questi canti. Diversi autori hanno infatti sostenuto che questi canti siano: liberamente intonati,13 a tempo libe-

ro,14 privi di struttura o di contenuto testuale stringen-

te.15 Nessuna di queste ipotesi fondamentali è stata con-

fermata o smentita su base documentaria, nemmeno nei lavori più recenti sull’argomento.16 Insomma, tutte de-

scrizioni che, muovendosi per assoluti e ragionando per negazione, in realtà non dicono nulla dell’oggetto a cui fanno riferimento.

Gli holler hanno un’intonazione effettivamente estremamente cangiante, con linee melodiche molto mobili. Ma siamo così sicuri che siano intonati libera- mente e a tempo libero? Osserviamo due spettrogrammi di due moduli in un holler: si tratta del modulo introdut- tivo alle strofe usato da Henry Ratcliff in Louisiana [22]:

Figura 1. Modulo melodico di introduzione, da

00:13.6

Figura 2. Modulo melodico di introduzione, da

00:55.5

Ho volutamente lasciato le immagini spoglie di anno- tazioni o elementi grafici aggiuntivi, fatto salvo per la

der nelle medesime zone nei primi anni ’60. Tutti questi materiali sono depositati alla Library of Congress di Washington.

13 [7, 19, 20, 23, 25]. 14 [12, 21]. 15 [1, 6, 20]. 16 [3, 5, 24].

griglia a barre orizzontali che segnala le distanze in se- mitoni dall’altezza fondamentale su cui si adagia la fina-

lis del modulo, per lasciare che l’immagine parli da sé.

Se dovessimo discutere del grado di libertà ritmica su cui fa affidamento il cantante, guardando queste imma- gini di due riproduzioni dello stesso modello melodico dovremmo concludere che essa è pari a zero. Le due immagini, al netto di microvariazioni, sono ritmicamen- te sovrapponibili. Certo sarebbe complesso spiegare su che tipo di ritmo si basino, intendendo per ritmo una suddivisione ciclica di pulsazioni forti e deboli. Sarà uno schema ritmico complesso, aperto a variabilità, stra- tificato quanto si vuole, ma che uno schema esista è difficile metterlo in dubbio.

Un discorso simile andrebbe fatto per le altezze rag- giunte dalla voce durante il canto. Il cantante è davvero libero di intonare a piacimento il suo canto? O non sta forse seguendo uno schema anche su questo piano? Le due immagini appaiono sovrapponibili anche rispetto a questo aspetto. Certo, vi sono alcune differenze minori, come l’imperfezione della cuspide verso il basso che spezza centralmente il modulo, o l’attacco vagamente diverso alla prima arcata, o le microscopiche variazioni nella gestione del vibrato sulla finalis, ma immagino si possa concordare che, data anche la rapidità dell’evento acustico (l’immagine mostra circa 3.2 secondi di regi- strazione), e tenendo conto del fatto che Henry Ratcliff non era un cantante professionista, ma un carcerato in una prigione dove viveva in condizioni prossime a quel- le di schiavitù, qualche leggera sfasatura nella gestione del percorso melodico può anche essere considerata come ininfluente.

Che il cantante si stia affidando a degli schemi fissi non è per nulla sorprendente:17 gli holler appartengono

all’ambito delle musiche di tradizione orale, nelle quali lo sfruttamento di strutture formulaiche è perfettamente

funzionale all’esposizione del contenuto musicale.18 Ma

la forza con cui queste immagini ci mostrano la presen- za di queste formule non sarebbe raggiungibile in modo efficace con nessun tipo di descrizione verbale o trascri- zione su pentagramma. Il senso di chiarezza che si ot- tiene accostando queste immagini deriva dal modo in cui le immagini stesse ci parlano dell’oggetto musicale, ovvero dalle peculiarità dello stesso strumento di analisi informatico.

3.3 Blue Notes

Una delle descrizioni (solo apparentemente) più tecni- che e stringenti date di questi canti è che utilizzino scale

17 Chiaramente questi schemi o formule contengono certo grado di

variabilità applicativa, tale da permetter loro di essere sfruttati in più situazioni, con testi differenti, o magari riprodotti cambiando qualche piccolo elemento. Spesso nelle formule stesse sono in qualche modo prescritti i limiti stessi di questa variabilità, rilevabili attraverso un confronto minuzioso di un numero sufficientemente grande di casi. Questo tipo di discorso esula dall’argomento qui in esame.

18 Mi riferisco qui al significato di “formula” come è ampiamente

accettato e utilizzato in campo etnomusicologico (e non solo) fin dal pionieristico lavoro di Lord [13].

melodiche fortemente pentatoniche, con largo uso di “blue notes”.19

Concetto dalla tortuosa e non sempre limpida sto-

ria,20 indicherebbe note “ad altezza variabile”,

all’interno di un range in cui la libertà di selezione è, per l’infinita divisibilità dello spazio, infinita essa stes- sa. Si noti inoltre come nel concetto di “blue note” sia sottinteso quello di “note”: l’unione dei due concetti produce uno strumento epistemologico tutt’altro che intuitivo. Per usarlo dovremmo postulare che all’interno di uno spazio indefinito ma dai confini definiti vi sia un oggetto musicale indefinito la cui definizione matemati- ca dovrebbe essere obbligatoriamente negoziata volta per volta in maniera del tutto soggettiva dal cantante.

Sarebbe del tutto fuori dall’argomento qui in discus- sione provare a dirimere la questione se il concetto di “blue note” sia o meno epistemologicamente efficace nel descrivere alcunché. Soffermiamoci però sul caso specifico degli holler.

Come esempio si potrebbero prendere alcuni fram- menti dal brano Levee Camp Holler di Johnny Lee Moore [15]. Il modulo in questione è quello usato dal

cantante per chiudere la prima sezione. 21

Figura 3. Modulo melodico di chiusura, da 1:32:8

Com’è possibile vedere, questo modulo si compone di due brevi arcate complesse; la prima sale all’altezza di una settima minore dalla fondamentale, scarta quindi con una rapida cuspide all’ottava, torna alla settima minore, quindi scende verso la fondamentale, fermando- si per un attimo in un rapido vibrato. L’altezza di questo vibrato ritorna anche nella seconda breve arcata: dal grafico è osservabile come questi vibrati si muovano sostanzialmente tra le altezze di terza minore e quarta, ovvero con un baricentro su una terza maggiore. Lo stesso scarto di semitono sopra e sotto al baricentro per il vibrato torna d’altronde anche a colorare la finalis, muovendosi attorno all’altezza del tratto che separa le due arcate.

A mio parere in questa immagine non esiste quasi nulla che possa assomigliare al concetto di “nota”: al massimo il concetto potrebbe essere applicato alla lunga

19 [7, 20, 25].

20 Sull’argomento, suggerisco lo stimolante articolo [28].

21 Per avere un’idea delle durate, l’immagine riprende 5 secondi e 4

decimi del brano.

stasi di chiusura. La voce del cantante, che pure, come si può evincere all’ascolto, come Henry Ratcliff non era chiaramente un professionista e non aveva particolari abilità di intonazione o gestione timbrica, si muove flui- damente tra le altezze creando arcate i cui punti fonda- mentali (picchi, avvallamenti, più o meno brevi stasi) coincidono, con ragionevole margine di errore, con quelle tipiche di una scala temperata. Persino il rapidis- simo vibrato del cantante può essere ragionevolmente ricondotto ad un’oscillazione attorno ad un punto cen- trale “intonato” con la tradizionale scala temperata. Ri- sulta perciò difficile sostenere che il cantante usi delle note ad altezza variabile.

Il problema è che queste non sono note intonate, ma punti di passaggio, picchi, centri di vibrazione. In realtà la voce del cantante non si sofferma veramente su nes- suna delle altezze descritte: le raggiunge, le sottintende appoggiandovi la sillaba (visibile tralaltro per il virare verso il rosso all’aumento dell’ampiezza di segnale pro- prio in corrispondenza di queste altezze), solo per ab- bandonarle immediatamente dopo.

Per quanto riguarda la variabilità di scelta delle al- tezze di questi punti particolari, confrontiamo tra loro tre versioni, dallo stesso brano, della prima arcata del modulo, tratte da tre ripetizioni della stessa identica formula melodica usate in posizioni funzionali identiche rispetto al testo:

Figura 4. Primo elemento ad arcata dei moduli melo-

dici di chiusura (da sinistra) a 1:23.4, a 1:32.8, ovvero quella della fig. 3, e a 2:27.5

Ho ritagliato le immagini alla sola parte dell’arcata e lasciato solo le linee che segnalano le altezze di settima minore e ottava dalla fondamentale. I profili melodici delle tre strutture ad arcata, per quanto complessi e al netto di minori variazioni comunque legate anche alle necessità di enunciazione del testo, sono sostanzialmen- te identici. Diventa allora ragionevole sostenere che il cantante non stia pensando ad un movimento suddivisi- bile in singoli oggetti ad altezze definite, come potrebbe suggerire una riduzione di questo passaggio ad una tra- scrizione su pentagramma con tre note sul settimo, otta- vo e settimo grado di una scala, ma stia invece ragio- nando in base ad un'unica struttura formulare, affrontata sempre con lo stesso metodo. Vorrei sottolineare tra l’altro che questa particolare forma di arcata torna all’interno del brano solo per introdurre moduli della stessa forma e in posizioni linguistiche identiche rispetto

al flusso testuale. Ciò, se verificato su ampia scala,22

sarebbe segnale di un forte grado di connessione tra il materiale musicale utilizzato e il contenuto verbale esposto, a dimostrazione che questi canti non sono, co-

me alcuni sostengono, “privi di struttura”.23

3.4 Visualizzare la Formulaicità

La particolare forma ad arcata della figura 4 potrebbe perciò esser pensata come un unico elemento melodico sostanzialmente formulaico, che come tale può quindi trovare anche altri impieghi. Ad esempio, il cantante utilizza nell’arco dell’intero brano diversi altri elementi simili a quello che introduce questo modulo. Confron- tiamone alcuni:

Figura 4. Elementi ad arcata dei moduli melodici (da

sinistra) che iniziano a 1:32.8 (di nuovo quello di pri- ma, come confronto), a 1:15, a 1:26, a 2:22, a 2:53,7

Ho semplificato ulteriormente la visualizzazione ri- muovendo la griglia perché vorrei che quest’immagine venisse osservata non tanto sul dettaglio delle altezze raggiunte dal canto, quanto sul piano della morfologia dell’elemento interessato.

Tutti questi elementi, ognuno singolarmente riutiliz- zato più volte nel brano, fanno riferimento allo stesso tipo di movimento melodico, alla stessa formula, diver- samente coniugata in forme più o meno complesse. Ac- corgersi della questione apre ovviamente una serie in- terminabile di domande: in che modo queste tipologie sono in relazione con un modello fondamentale? E’ il modello a prevedere una variabilità tale da potersi co- niugare in diverse forme rimanendo lo stesso, oppure queste forme condividono con il modello solo il profilo, e vanno intese in realtà come oggetti funzionalmente diversi? Per rispondere a queste domande non dovrem- mo anche capire che relazione intercorre tra i testi enun- ciati in questi punti e la loro posizione rispetto alla for- ma generale del discorso?

Molte di queste domande dovranno attendere il com- pletamento di studi più approfonditi a riguardo, e non è nemmeno certo che sia possibile rispondere a tutte. Quel che importa, per la discussione qui in essere, è che que- ste osservazioni, nonché soprattutto queste domande, le quali aprono la strada a nuovi possibili gradi di interpre- tazione dei materiali in analisi, sono emerse grazie so- prattutto al tipo di manipolazione della traccia audio permessa dal software.

22 Per averne la certezza dovremo attendere l’esito degli studi di ricer-

ca avviati.

23 Vedi nota 16.