• Non ci sono risultati.

I Saraceni sulle Alpi: una storia da riscrivere

Aldo A. Settia, pur non avendo scritto una monografia complessiva riguardante i Saraceni di

Fraxinetum, ricopre un ruolo da protagonista nella storiografia riguardante questo argomento,

perché con i suoi articoli e saggi completa certe lacune degli autori precedenti su argomenti specifici come sulla dottrina e le tecniche militari alto-medievali e sulla organizzazione amministrativa delle marche del regno d'Italia.

Si preoccupa inoltre di “sfrondare” la benevola accettazione di tradizioni folcloristiche locali e infine riesce a rimettere in discussione le tesi ispirate dalla più “lacrimosa” storiografia ecclesiastica, specialmente di osservanza benedettina, che scaricavano tutte le responsabilità dei malori e delle sventure di questo angolo d'Europa, nell'alto Medioevo, che stiamo studiando, sulle spalle dei Saraceni.

Detto questo si può passare a constatare come il nostro autore abbia affrontato i punti più controversi sulla presenza dei briganti saraceni in territorio piemontese.

La critica alle tradizioni locali

Secondo le invitte tradizioni folcloristiche locali, nelle zone che videro lo scorrazzare dei briganti musulmani, si ergevano, e ancor oggi si ergerebbero, numerosi edifici e rovine a loro riconducibili: centinaia di torri d'avvistamento o castelli a loro attribuite, ma che in effetti sono di epoca assai più tarda e che non videro mai l'opera di muratori arabi, se non nei restauri compiuti dalle nostre generazioni.

Per il nostro autore questa innegabile fortuna e diffusione secolare dell'aggettivo “saraceno” sarebbe dovuta all'abitudine, da parte di occhi inesperti, di catalogare in questa categoria tutto ciò che avesse un aspetto vagamente esotico, oppure che fosse di origine antica, ma difficilmente attribuibile a culture chiaramente identificate.

Inoltre il Settia lancia il definitivo affondo dichiarando che è scientificamente provato che anche insediamenti saraceni di lunga, pluridecennale, durata come quelli di Fraxinetum e del Garigliano, non poterono avere alcuna rilevante conseguenza sul piano linguistico, e che gli arabismi che si possono riscontrare sono dovuti alle lunghe relazioni mercantili intrattenute nell'arco dei secoli tra le diverse sponde del Mediterraneo.

Altrettanto nulla sarebbe l'influenza araba diretta sulla toponomastica e ciò viene spiegato con il fatto che sarebbe estremamente forzato pretendere che dei volgari pirati e briganti importassero con

loro dal califfato le conquiste culturali della superiore civiltà del loro paese d'origine.

Ricapitolando, per Aldo A. Settia le incursioni saracene da Fraxinetum verso il Nord-Ovest della nostra penisola avvennero indubitabilmente, anche se posteriori alle date fornite da fonti imprecise, ma furono solo espressioni violente votate al saccheggio, e non ebbero altre conseguenze se non aspetti negativi e lasciarono solo delle vaghe tracce indirette256.

Su questi argomenti non si può non constatare l’influenza che ha avuto sul Settia la storiografia francese del ‘900, notamentei lavori del Duprat e del Latouche.

La questione dell’inizio delle incursioni

Il Settia riporta che la storiografia francese più recente e qualificata ha concluso che le incursioni saracene, dopo aver devastato la Provenza orientale passarono ad insidiare i passi alpini, ma non prima del 921257: questa è una critica esplicita delle fonti fornite da Liutprando, riguardanti il primo attacco saraceno ad Acqui, situato intorno al 905, e contro la contraddittoria datazione fornita dalla Cronaca della Novalesa, che pone la fuga dei monaci a Torino nel 906.

● La data fornita per l'attacco ad Acqui non sarebbe da prendere per buona, secondo l’autore, e addiritura Liutprando potrebbe essere incappato in un equivoco confondendola con Aix-en- Provence, dato che in latino il toponimo Aquae era comune ad entrambe le città258. Quindi vi è una sola certezza: “Sarebbe grande imprudenza trarre qualunque conclusione probante da una notizia sulla quale gravano incertezze di tal peso”259.

● Un'analisi rigorosa viene da lui fatta anche sulla fuga dei monaci dall'abbazia della Novalesa, sotto l'abate Donniverto, quindi tra il 912 e il 920 e dunque posteriore alla data comunemente proposta. Ma la responsabilità, in buona o malafede, dell'errore di data del

Chronicon Novalicense, ha condizionato per secoli le redazioni storiografiche subalpine,

almeno quelle riguardanti le incursioni dei pirati musulmani di Fraxinetum, ed è per questo motivo che il Settia si è imposto di rivedere l'eccessiva importanza attribuita in passato ai danni causati dai Saraceni nel teatro subalpino del X secolo.

Con questo argomento il Settia dunque concluderebbe che tutti i misfatti attribuiti in Piemonte ai Saraceni, nei primi due decenni del X secolo, debbano andare a gravare sulle spalle di altri briganti, o incursori, o potenti cattivi cristiani dalla vocazione usurpatrice.

Infatti ricorda che nella documentazione dell'epoca i Saraceni, gli Ungari, i Normanni o gli Slavi venivano spesso “promiscuamente” identificati con il generico termine di “pagani” 260.

256 Ibidem, p. 201.

257 Settia, I Saraceni ...cit., p. 245. Si constata che l’autore posticipa ancora l’arrivo dei Saraceni sulle Alpi. 258 Ibidem, p. 246, nota 4; p. 247, nota 7; p. 248 nota 9.

259 Ibidem, pp. 246-247.

Coerentemente con la prudenza raccomandata poc'anzi, l'autore si chiede, seguendo la traccia della rigorosa critica positivistica non puntualmente ascoltata,sopraffatta da “una certa pigrizia mentale” che ha portato a continuare ad accettare queste datazioni come per buone, se siano dei dati cronologici veramente attendibili: a suo, e non solo, avviso, tutto il testo di Liutprando è “cronologicamente incerto e non esente da incongruenze”261.

La presenza saracena sulle Alpi e nell’area subalpina

Analizzando le fonti pervenuteci sulle incursioni di “pagani”, il nostro autore afferma perentoriamente che quelle avvenute fino al secondo decennio del X secolo sono di sicuro opera degli Ungari, mentre vi é largo consenso nell’affermare che quelle dopo la metà del secolo sono sicuramente da attribuire ai Saraceni, causa annientamento della concorrenza ungara.

Per un lungo periodo, che va dal 921 al 972, l’autore ritiene che i colli alpini siano stati da loro occupati in permanenza, ed accetta le devastazioni della Novalesa, come quella del monastero di Oulx, ma ritiene che la loro presenza in altre parti del Piemonte sia stata occasionale, ed addirittura l'attacco subito da Acqui intorno al 936, viene da lui ritenuto possibile iniziativa dei Saraceni “africani” sbarcati per saccheggiare Genova nel 934-935, che si sarebbero spinti fin sotto le mura di Asti nel 937 e avrebbero messo al sacco l'abbazia di Giusvalla.

Non ci sono fornite prove per queste ultime intuizioni, ed anche per le prossime, quindi le si trasmette con il beneficio del dubbio.

Il problema dell'attribuzione delle responsabilità nei trent'anni intermedi tra il 920 e il 950, è in effetti insoluto, perché di fatto nella zona subalpina le incursioni degli Ungari si sono spesso intrecciate o sovrapposte a quelle saracene e non facilita un miglior discernimento il fatto che si inserissero nel contesto anche una terza specie di aggressori non meno pericolosi: i “cattivi cristiani” o i “cattivi uomini”, a cui sono esplicitamente attribuite numerose azioni di brigantaggio nell'Italia Nord-Occidentale del X secoli.

Per il Settia, a differenza di qualche storico che abbiamo già trattato come il Poly, costoro non erano alleati o collaboratori diretti degli invasori stranieri, e nemmeno bande di malviventi in agguato sulle vie di grande passaggio, o sovversivi e disperati spinti ad una sorta di lotta di classe da una aristocrazia oppressiva: questi “cattivi cristiani” erano gli avversari politici delle fazioni vincenti che detenevano il potere, e che ci hanno tramandato attraverso le fonti scritte le loro versioni della storia; talvolta i “cattivi cristiani” potevano identificarsi anche negli usurpatori dei beni ecclesiastici o sperperatori dei beni delle Chiese, attraverso una interessata e pessima amministrazione dei patrimoni a loro affidati262.

261 Ibidem.

262A.A. Settia, Castelli e villaggi nell'Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XII secolo, Liguori

In effetti in alcuni casi, approfittando della confusione dell'epoca, si è appurato che distruzioni e saccheggi furono attribuiti ai Saraceni per successive ragioni ideologiche e di propaganda, mentre i reali responsabili erano “cattivi cristiani”.263

Per numerosi storici, che vi siano stati ripetuti passaggi di Saraceni nella zona delle Langhe e del Roero potrebbe farlo pensare la decisione del 969 dell'assorbimento della diocesi di Alba da parte di Asti: questa fusione nel 982 non era stata ancora implementata e quando lo fu, restò vigente solo per poco tempo, in quanto nel 992 la si ritrova con la sua autonomia. Anche in questo caso il Settia ipotizza che questa fusione sia stata forse propiziata non dalla desolazione provocata dai ripetuti saccheggi, ma per la volontà di dominio del vescovo di Asti, Rozone, che strumentalizzando il pericolo saraceno avrebbe convinto il concilio episcopale ad assegnarli in complemento la diocesi di Alba.

Vi è una notizia tramandata dalla Cronaca della Novalesa, che vi fosse una banda saracena accantonata in una foresta nei pressi di Vercelli, ai tempi del vescovo Ingone, dunque tra il 961 ed il 974, e quindi in un'epoca in cui non vi era più possibilità di confusione con gli altri “pagani”, gli Ungari, che regolarmente correvano per le aree subalpine, eda quel tempo già debellati da Ottone I. Per il nostro autore, che in questo caso accetta una ipotesi del Patrucco, non sarebbe da escludere che si trattasse di “predoni di Fraxinetum” assoldati da re Adalberto nel suo ultimo sussulto di riscossa contro Ottone I nel 964-965264.

È accertato che re Adalberto si recò e soggiornò a Fraxinetum, creando uno scandalo clamoroso, è quindi molto probabile che si fosse recato per organizzare una controffensiva contro i Sassoni, per recuperare il suo trono, assoldandone i residenti come mercenari.

Purtroppo il Settia non apporta le prove aggiuntive inconfutabili della presenza di re Adalberto nei boschi vercellesi con una truppa musulmana al suo soldo, e questo aspetto, pur essendo un'ipotesi plausibile e verosimile, non possiamo accettarlo, come tanto lui ha rifiutato al Patrucco.

Queste posizioniallontanano il Settia da quelle del Sénac che vede in Fraxinetum qualcosa in più e di diverso di un nido di briganti, e che aveva interpretato la presenza di Adalberto in loco come una possibile manifestazione di una simbiosi comunitaria che avrebbe potuto spiegarne la longevità. La storiografia dei falsari in area subalpina

Il lavoro compiuto dal nostro autore nell'abbattimento di teorie e storie di altri autori, non fondate solidamente su dati incontrovertibili, oppure addirittura su documenti dalla dubbia redazione, se non proprio falsi, è continuato con altri articoli, tra cui quello intitolato: Adversus Agarenos et

Mauros. Vescovi e pirati nel secolo IX fra Po e mare, in cui si oppone e stronca l'uso fatto da Pietro

263 Settia, I Saraceni sulle Alpi, cit., p. 260. 264 Settia, I Saraceni ...cit. pp. 258-259.

Daquino, studioso della storia di Asti a noi contemporaneo265, del Memoriale di Raimondo

Turco266.

Per il Settia “lo pseudo memoriale è stato da lungo tempo e sicuramente conosciuto come un falso267, dunque non è accettabile riciclarlo come autentico, e farne passare il suo autore, Raimondo Turco, come un cronista reale ed attendibile; il problema sussiste nel fatto che nel Memoriale viene riportato l'insediamento e l'espansione degli attacchi dei Saraceni di Fraxinetum, fino alle loro incursioni in Piemonte, passando dal Colle di Tenda, e la conseguente reazione dei vescovi di Asti e Torino, messisi a capo delle forze che, in assenza e latitanza delle autorità civili e militari, contrastarono le loro incursioni.

Il racconto pretenderebbe essere stato redatto nell'XI secolo sulla base di fonti scritte e di testimonianze orali di persone partecipi ai fatti: il testo in effetti si è basato principalmente sulle fonti fornite dall' Antapodosis di Liutprando e dalla Cronaca della Novalesa.

Questa critica merita a mio avviso di essere riportata, non solo perché il Memoriale tratta dei Saraceni, ma per la metodologia critica utilizzata nell'analisi del racconto, ed é indubitabilmente un esempio del miglior Settia: per quanto riguarda le fonti medievali, ci fa sapere che se un cronista dell'epoca cita la consistenza di un esercito, normalmente parte nell'elenco dai cavalieri, per rispetto alla loro nobiltà, e solo in seguito passa a trattare della consistenza delle fanterie; invece nel

Memoriale vengono citati prima i fanti e solo in seguito i cavalieri, e per di più esprime un

quantitativo preciso delle fanterie, mentre lascia nell'incertezza riguardo al numero dei cavalieri, ed usa il termine milites per i soldati generici, mentre nell'XI secolo questo termine era di spettanza per i cavalieri.

Inoltre l'autore utilizza il termine Pedemontium per indicare il “Piemonte”, termine che risulta impiegato solo a partire dal 1193, proprio in un famoso documento astigiano del Codex Astensis268,

aggiungendo che il mare di Nizza viene definito “nostro” e Niciam Provinciae, ovvero Nizza di Provenza serve a distinguerla dalla piemontese Nizza del Monferrato. Questi sono tutti indizi che portano il Settia a stimare che il documento sia stato redatto dopo la metà del XVI secolo, quando Asti era ormai già parte integrante del ducato di Savoia, come pure la contea di Nizza, e quindi che sia opera di un falsario, individuato nell'abate Malabayla: e la si può reputare un'opera da tenere

265 P. Daquino, I Saraceni in Piemonte, F. Malabaila e R. Turco,in Il Platano, XV (1990), pp. 50-79; Id., L'abate Malabaila e il memoriale di R. Turco, in Il Platano, XIII (1988), pp. 218-220. Il Platano è una rivista dedicata allo

studio della cultura e della civiltà astigiana (n.d.r).

266 Memoriale Raymundi Turchi civis Astensis, in I. Pasino-A. Rivautella-F. Berta, Codices manuscripti Bibliothecae regii Taurinensis Athenaei per linguas digesti et binas in partes distributi, II, Taurini, 1749, p. 199. Si veda anche

Settia, I Saraceni... cit., pp. 250-251.

267A. A. Settia, Santa Maria di Vezzolano. Una fondazione signorile nell'età della riforma ecclesiastica, Torino, 1975,

pp. 33-70, con la bibliografia ivi citata.

268Codex Astensis qui de Malabayla communiter muncupatur, a cura di Quintino Sella, Roma, 1880, doc. 909 del 3

solo in considerazione per i testi riportati di alcune fonti riguardanti le operazioni militari coordinate in funzione anti-saracena da Claudio, vescovo di Torino.