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Per quanto riguarda le icone, soprattutto se sacre, in virtù di ciò che è stato messo in risalto

sull’influenza che hanno i dogmi di ogni culto su ciascun credente e sull’ascendente che

ogni schema di credenza esercita su ogni individuo, non si può che giungere alla

conclusione che l’interpretazione delle icone non potrà essere unanime, anzi. Come tutte le

interpretazioni, anche quelle delle icone divine, grazie alla loro natura non oggettiva, stabile

ed universalmente identica ha portato negli anni a diverse teorie. Una delle quali è quella

esposta nell’opera del 1922 dal presbitero russo Pavel Florenskij (1882- 1937), il quale, al

passo con ciò che stava accadendo nella sua nazione nel periodo in cui visse, spinse la sua

riflessione verso quello che era l’argomento su cui vertevano la maggior parte delle

riflessioni degli intellettuali a lui connazionali, ossia il dogmatismo e l’ortodossia,

conseguenza della ripresa spirituale che permeava la Russia di quegli anni. Scrisse, tra le

altre, un’opera che fu tradotta in italiano con il titolo di Le porte regali. Saggio

sull’icona117. Quest’ultima ha come nucleo fondamentale l’idea per la quale l’icona non è semplicemente un simbolo vuoto, ma collega i due mondi ai quali appartiene, nello

specifico il terreno e lo spirituale. La zona intermedia che congiunge entrambe le parti,

secondo Florenskij, può essere vissuta dall’essere umano (un soggetto che è, naturalmente,

visibile) attraverso la visione onirica, la quale, grazie alle sue particolari caratteristiche,

riesce a metterlo in relazione con l’invisibile:

«Così quelle immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo visibile dal mondo invisibile, e in tal modo congiungono i due mondi. In questo luogo di frontiera delle immagini oniriche si stabilisce il loro rapporto sia con questo mondo sia

70 con quell’altro. In rapporto alle immagini comuni del mondo visibile, in rapporto a ciò che noi chiamiamo ‘realtà’, il sogno è ‘soltanto sogno’, un nulla, nihil visibile - nihil però visibile, un nulla visibile, contemplabile e confezionato con le immagini di questa ‘realtà’. (...) Perciò, benché anch’esso visibile, il sogno è del tutto teleologico ovvero simbolico. Esso ridonda del significato dell’altro mondo - è quasi soltanto significativo dell’altro mondo, che è invisibile, immateriale, non transuente, benché sia manifestabile visibilmente, come se fosse materiale. (...) Il sogno è il limite comune alla serie delle esperienze celesti, la debole frontiera di quaggiù e il baluardo di lassù»118.

Pertanto entrambe queste sfere non possono essere del tutto separate e l’una deve contenere

qualcosa dell’altra, per permettere al simbolo di unirle. L’origine del termine simbolo, tra

l’altro, ha proprio il significato di "mettere insieme", "far coincidere". Nell’opera

sopracitata, l’autore fa partire la sua riflessione dall’esposizione della sua idea, secondo la

quale la vita terrena è il simbolo di quella spirituale. In quest’ottica, dunque, il ruolo del

simbolo è fondamentale, se non prevalente. Ma come è possibile ciò? Attraverso quali

meccanismi? Come si manifesta la vita spirituale all’interno della terrena? Ci sono diversi

tipi di manifestazione e se sì, quali sono esattamente? Una delle manifestazioni di tale

collegamento è il volto, che viene differenziato dall’autore in maschera e sguardo119. Ma il ruolo dell’icona non è semplicemente questo, c’è di più, l’icona permette al credente di

passare dal piano dell’immagine a quello dei modelli. Questi modelli rispettano dei canoni i

quali devono essere considerati non semplicemente nelle loro raffigurazioni, per esempio

quelle dei santi, ma anche dagli artisti nelle proprie vite, le quali, infatti, devono avere

determinate caratteristiche: «Il pittore d’icone deve essere umile, mite, pio, non ciarliero,

non ridanciano, non litigioso, non invidioso, non beone, non ladro, non rapinatore,

118 Florenskij P., Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano, 1977, p. 32.

119 Il volto, secondo Florenskij, solo come sguardo ha senso, perché in tale circostanza è somigliante a Dio e di conseguenza è l’intermediario tra soggetto e oggetto, divenendo simbolo.

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soprattutto deve serbare la purezza spirituale e corporea con ogni cura»120. Per Florenskij l’arte è la personificazione di intricati procedimenti, l’artista da solo non può e non ha la

capacità di mostrare l’invisibile, tanto è vero che è quest’ultimo a manifestarsi nelle opere.

«Nelle rappresentazioni delle icone noi, perfino noi, vediamo gli sguardi benedetti e

sfolgoranti dei santi, e in essi, in questi sguardi è svelata l’immagine di Dio e Dio stesso».

Infatti, Florenskij pone in analogia l’opera d’arte con il sogno perché entrambi hanno

qualcosa di involontario. Al contrario la maschera è un inganno, perché simula la messa in

relazione tra le due sfere, le quali sono tra loro congiunte, perché non è semplicemente il

mondo invisibile ad agire su quello visibile ma anche il contrario. In che modo è possibile

ciò? Attraverso quali simboli, siano essi oggetti e/o persone/personalità? È possibile trovare

risposta in quei particolari individui considerati santi, i quali partecipano di entrambi i

mondi, poiché come essere umani hanno fatto parte della sfera terrena, ma per quello che,

adesso, rappresentano, non ne fanno più parte. Ma grazie a cosa gli individui appartenenti

al mondo terreno possono vedere e “vivere” il mondo invisibile, secondo l’autore? E

attraverso quali oggetti i santi possono guardare al mondo terreno e applicare su di esso la

loro forza? Nell’opinione di Florenskij è l’iconostasi il mezzo grazie al quale è possibile

tutto ciò. Infatti, sulla scia di quello che è stato precedentemente esposto sull’azione

reciproca dei due mondi, l’icona permette, grazie alla partecipazione del fedele, il

passaggio da una sfera all’altra:

«Lo schermo del santuario, che distingue i due mondi, è l’iconostasi. Ma l’iconostasi si può chiamare mattoni, pietre, tavole. L’iconostasi è il confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile e costituisce questo schermo del santuario, rende accessibile alla coscienza la schiera dei santi, la nuvola della testimonianza, coloro che circondano il

72 Trono di Dio, la sfera della gloria celeste, e annunciano il mistero. L’iconostasi è la visione. L’iconostasi è la manifestazione dei santi e degli angeli - un’angelofania, una manifestazione di celesti testimoni, e soprattutto della Madre di Dio e del Cristo nella carne, testimoni i quali proclamano ciò che, visto da quel versante, è carnale. L’iconostasi è i santi»121.

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Capitolo III

I diversi ruoli del corpo nelle manifestazioni rituali

I. La personalità sacra

Henri Hubert e Marcel Mauss nel Saggio sul sacrificio, scritto per l’Année Sociologique nel

1899122, dedicarono una parte della loro riflessione alla figura del sacerdote. Essi videro, infatti, in questa figura una parte importante del rito del sacrificio e affermarono che in esso

si ricongiungevano il mondo del sacro e quello del profano, l’umano e il divino, un po’

come la figura del santo nell’ottica di Florenskij. «Il sacerdote (…) è l’agente visibile della

consacrazione del sacrificio; in una parola, egli si trova sulla soglia del mondo sacro e del

mondo profano e li rappresenta ambedue simultaneamente. Questi due mondi si

ricongiungono nella sua persona»123. Ma il sacerdote, prima di essere riconosciuto come tale, è un uomo come tutti gli altri, quindi ha bisogno di sottoporsi ad un processo che lo

renda sacer:

«Non appena i sacerdoti sono scelti, inizia per il sacrificante tutta una serie di cerimonie simboliche, che a poco a poco lo spogliano progressivamente dell’essere temporale che egli era, per farlo rinascere sotto specie interamente nuove. Tutto ciò che viene in contatto con gli dei deve essere divino; il sacrificante è costretto a diventare egli stesso dio per potere agire su di loro»124.

Pertanto il sacerdote, per poter amministrare il sacrificio non può non subire anch’esso una

preliminare trasformazione che gli permetta di poter agire sulle cose divine, di entrare in

contatto con esse senza subirne conseguenze nefaste. Infatti, se non fosse in tale stato ne

122 Tre anni dopo che i due studiosi si incontrarono per la prima volta all’École Pratique des Hautes Études. 123 Mauss M., Hubert H., Saggio sul sacrificio, Morcelliana, Brescia, 2002, p. 30.

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sarebbe compromessa, non semplicemente, la sua persona, ma il rituale in toto e

conseguentemente tutta la comunità. «Ma non si santificava solo per se stesso; si

santificava anche per la persona o la società in nome della quale egli agiva e tanto più

doveva prendere precauzioni, in quanto esponeva, oltre che se stesso, anche coloro dei quali

era sostituto»125. Anche se bisogna tenere in conto che ogni società ha un proprio modo di rendere o meno sacro il sacrificante nei propri riti, alcune, come quella indiana, per

esempio, non sentono il bisogno di sottoporre (se non in circostanze straordinarie) il

bramino a tale processo, in forza della sua natura già divina. Il sacerdote, nel momento in

cui viene prescelto e nel momento in cui diviene tale, entra a far parte di un meccanismo

simbolico e sociale al quale tutti i partecipanti sottostanno, che comprende non soltanto il

sacrificante, ma anche il sacrificato e in un modo non meno importante sia i luoghi che gli

strumenti utilizzati per tal fine e il linguaggio. Ma sono semplicemente gli oggetti e le

personalità sacre in sé che permettono la buona riuscita del sacrificio o del rito in generale?

Ci sono altre azioni, altri atteggiamenti, altri elementi collegati ad essi? Sembrerebbe

proprio così, infatti, sia nella magia come nella religione si trovano formule, incantesimi,

che permettono l’azione delle autorità sulla massa. «Elemento costitutivo dell’autorità

religiosa (e non solo) è il linguaggio autorevole. La connessione linguaggio-autorità può

essere fatta coincidere, come è naturale, con i contenuti proposizionali del linguaggio:

credi, fai la tal cosa, bisogna obbedire ecc.»126. Nella riflessione del già citato Maurice

Bloch (Simboli, canto, danza e caratteristiche di articolazione. La religione è una forma di

autorità tradizionale?) il rituale è contraddistinto dall’obbedienza che si deve all’autorità tradizionale, ma questa “obbedienza” non può essere considerata libera, né da parte del

125 Ibidem, p. 31.

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credente né da parte di colui il quale rappresenta tale autorità. Anche quest’ultimo, invero,

deve sottostare a delle regole sia per quanto riguarda le formule da usare durante il rito, sia

per quanto riguarda gli strumenti. Il linguaggio dei riti, sulla scia di ciò che l’autore di tale

testo afferma, da ciò che ha potuto dedurre dai suoi studi sulle popolazioni del Madagascar,

si può porre in analogia con il linguaggio politico e del politico. Tanto è vero che gli

anziani che officiano il culto della circoncisione tra i Merina, per esempio, usano all’inizio

del rituale, un tipo di discorso che è similare, sotto certi aspetti, a quello politico:

«(…) vocabolario limitato ed arcaico, l’impiego esclusivo di alcune forme sintattiche, di norma quelle considerate più educate ed impersonali, il ricorso ad una ricca serie di esempi attinti al complesso delle fonti tradizionali: proverbi, storia tradizionale, ecc., l’uso di uno stile espressivo particolare ed infine il ricorso ad una struttura rigida, tradizionale, per l’intero discorso»127.

Per quanto concerne il linguaggio politico esso è, in generale, pur cambiando, di volta in

volta, le comunità di riferimento, sempre «un linguaggio impoverito, in cui molte delle

opzioni a tutti i livelli linguistici sono abbandonate, sicché la scelta di forma, stile, parole e

sintassi è più ridotta che non nel linguaggio ordinario»128, mentre il linguaggio del politico,

secondo le osservazioni di Bloch, è ambivalente, egli infatti si trova a dover usare due

codici linguistici:

«Nel suo linguaggio ci sono due codici alternativamente presenti, che normalmente si distinguono senza difficoltà per le loro caratteristiche formali. Un codice, quello formalizzato, è impiegato per affermare l’autorità tradizionale, ma si intreccia con un altro, del tutto diverso (utilizzato con cautela perché permette la contraddizione),

127 Bloch M., op. cit., p. 187. 128 Ibidem, p. 190.

76 adottato per le manovre di potere. (…) nelle situazioni politiche in cui i giochi devono ancora essere fatti non si può usare pienamente il linguaggio formalizzato»129.

Bisogna sottolineare come il linguaggio del politico deve essere necessariamente ambivalente, perché è proprio questa sua caratteristica che permette la “manipolazione” del

pubblico al quale è rivolto e fa in modo che coloro i quali concorrono alla stessa carica

possano allontanarsi dalla formalizzazione ufficiale e ristretta, per poter guadagnare terreno

rispetto agli avversari. Di fatto, una differenza fondamentale tra l’ambito del discorso

religioso e quello politico viene messa in luce dall’autore, quando afferma che: «Invero si

può dire che un evento si trasforma da politico in religioso quando le lotte per il potere

individuale sono divenute superflue»130. Un’altra discriminante tra i due sembra essere,

secondo l’antropologo inglese che: «(…) la sola differenza osservabile tra comunicazione

religiosa e comunicazione dell’autorità tradizionale è che, per quest’ultima, un codice non

formalizzato è ancora necessario, mentre per la prima esso è stato completamente

abbandonato»131.Tanto è vero che, secondo l’autore entrambi hanno una formalizzazione, un codice al quale non possono sottrarsi, al quale non si possono sottrarre del tutto né

l’autorità in questione né coloro i quali la “subiscono”.

«(…) se l’accettazione di un codice (che controlla, apparentemente, solo il modo di parlare, ma di fatto anche il contenuto del discorso) è, per il superiore, il mezzo con cui condizionare la risposta dell’inferiore, ciò avviene al prezzo della perdita della propria libertà di manipolazione. Egli può utilizzare un modo di parlare che è coercitivo nei confronti degli uditori, ma poiché questo condiziona, al tempo stesso, anche il suo linguaggio, si trova a sua volta limitato in ciò che vuole dire»132.

129 Ibidem, pp. 194-195. 130 Ibidem, p. 208. 131 Ibidem, p. 195. 132 Ibidem, p. 194.

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Tale codice è rispettato e si mantiene in vita perché, in realtà, rappresenta l’autorità

tradizionale che fa da guida alla comunità in questione che aspira ed attua un ordine sociale

desiderabile e desiderato. «L’autorità della religione deriva principalmente dal fatto che

l’adesione ai suoi dettami mira a confermare l’ordine che una società si è data o a cui

aspira»133. Da un punto di vista strettamente religioso, invece, si intende con personalità sacra o con il termine “santo” tutto ciò che ha uno stretto rapporto con il dio, che ne sia una

sua testimonianza o che ad esso è consacrato. Nella religione cristiana, per esempio, un

determinato individuo è inserito nella cerchia dei santi attraverso il rito della

canonizzazione. Quest’ultima è un’esplicitazione attraverso una dichiarazione ufficiale da

parte del Papa134, che in virtù della sua infallibilità (dopo aver esaminato le prove, portate al suo cospetto dai vescovi incaricati di raccoglierle, per corroborare l’ipotesi che un

determinato individuo abbia avuto specifiche qualità) proclama tale individuo, in un primo

momento, beato, in modo tale che egli, successivamente possa, in caso, divenire santo135. Infatti, quest’ultimo, durante la sua vita e con le sue opere, le quali sono state in armonia

con le norme della vita cristiana, può essere un esempio per i fedeli, per i quali egli potrà

intercedere presso Dio. Conseguenzialmente allo status di santo appaiono una serie di icone

e di simboli, spesso veri e propri oggetti, che vengono subito collegati dalla mente del

fedele a quella determinata santità. Analogamente, nelle popolazioni indigene studiate da

Durkheim, il corpo e i simboli totemici su di esso raffigurati hanno una tale dignità e sono

133 Fabietti U., op. cit., p. 47.

134 Nei primi secoli dell’era cristiana questa comunicazione era sottintesa dall’autorizzazione data alle comunità individualmente, da parte delle personalità ecclesiali presenti sul luogo. Questa prassi cambiò in quella da noi oggi conosciuta a partire dal X secolo d.C.

135 Due sono state le riforme a tale riguardo, una operata da Paolo VI nel 1969 ed un’altra da Giovanni Paolo II nel 1983, grazie a quest’ultima e alla semplificazione del processo è stato riscontrato un aumento considerevole del numero di santi e beati durante il pontificato di quest’ultimo.

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così legati fra di loro che alla fine dei riti mortuari gli emblemi totemici vengono disegnati

sul terreno:

«Presso i warramunga, alla fine delle cerimonie mortuarie, si seppelliscono le ossa del morto, in precedenza seccate e ridotte in polvere; a fianco del luogo in cui sono così deposte, viene tracciata sul suolo una figura rappresentativa del totem. Presso i mara e gli anula, il corpo è posto in un blocco di legno vuoto anch’esso decorato con disegni caratteristici del totem. (...) Gli indigeni dell’Alto Darling incidono sui loro scudi immagini totemiche. Secondo Collins, quasi tutti gli utensili sono coperti di ornamenti che verosimilmente hanno lo stesso significato; figure dello stesso genere si trovano sulle rocce»136.

Pertanto, per quanto riguarda le salme esse hanno, insieme agli oggetti a loro collegati riti

esclusivamente a loro dedicati, mentre il corpo vivo (naturalmente, non di ogni singolo

individuo facente parte di una determinata comunità, ma sempre rispettando i canoni

stabiliti per ciascun rituale) diventa la “tela viva” sulla quale il totem può essere inciso,

disegnato e portato con fierezza, anche perché esso, utilizzato in tale maniera, acquista

un’importanza maggiore. Tali tatuaggi sono collegati a delle interdizioni che non

riguardano semplicemente gli individui che possono utilizzarli o meno, ma anche luoghi e

soprattutto tempi per i quali sono consoni. Infatti non è possibile farne uso nel quotidiano,

anche alla luce del fatto che non è particolarmente semplice adornarsene:

«(...) il più delle volte, è sul corpo stesso che viene imposto il marchio totemico: c’è qui un modo di rappresentazione che è alla portata delle società meno progredite. (...) Ma se i tatuaggi effettuati mediante mutilazione o incisione non hanno semplicemente un significato totemico, diversamente accade per i semplici disegni effettuati sui corpi: essi sono, il più delle volte, rappresentativi dei totem. L’indigeno, è vero, non li porta

79 quotidianamente. Quando si dedica a occupazioni puramente economiche, quando i piccoli gruppi famigliari si disperdono per cacciare e pescare, egli non si scomoda con questa usanza che è sempre molto complicata. Ma, quando i clan si riuniscono per vivere una vita comune e occuparsi insieme delle cerimonie religiose, egli se ne adorna obbligatoriamente»137.

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