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Dell’origine del termine feticcio si è già parlato, ma per un’idea su ciò che esso

essenzialmente designi da un punto di vista metodologico bisogna aspettare fino al 1760,

quando Charles de Brosses102 pensò di trovare nel feticismo il fulcro primigenio di ciascuna religione primitiva. Anche se, come sottolinea Iacono nel già citato Teorie del feticismo:

«Quando nel 1760 uscì il libretto di de Brosses, la parola feticcio era (…) già diffusa da tempo, non soltanto per designare una pratica religiosa dell’Africa occidentale, ma anche come punto di riferimento comparativo per le indagini e le congetture sulle religioni dei popoli ai primordi dell’umanità e su quelle dei «selvaggi» sparsi nel mondo»103.

Tale analisi comparativa è l’esempio di quale fosse, tra il XVII e il XVIII secolo, il clima

degli studi sulla religione, il quale era permeato, infatti, dai tentativi di spiegazioni razionali

di questo fenomeno. Secondo la spiegazione di de Brosses, ad esempio, il feticismo era il

fulcro primigenio di ciascuna religione primitiva e con esso doveva essere messo in

relazione e così fu, almeno, in un primo momento. Difatti, il feticismo venne considerato come “sintomo” di arretratezza mentale e quindi, sembrava, di conseguenza, l’unico modo

che poteva permettere agli indigeni (in mancanza dello sviluppo della facoltà di astrazione)

di rendere le idee sacre attraverso la mediazione di oggetti materiali visibili e tangibili.

Iacono afferma a tal proposito che:

102 «Osserva Manuel a proposito di Turgot: «Per epoca teologica, Turgot – che scriveva nella tradizione di Fontenelle e parallelamente alle opere dei suoi amici Hume e de Brosses sulla storia naturale della religione primitiva – intendeva la propensione dell’uomo ad assegnare una forza divina intelligente ad ogni sorta di oggetti e forze naturali». Questa propensione che rientrava nel primo stadio dei progressi dell’umanità, è esattamente quella che de Brosses identificherà col termine feticismo» Iacono A. M., Teorie del feticismo. Il problema filosofico e storico di un «immenso malinteso», Giuffrè, Milano, 1985, p. 99.

59 «(…) l’idea di arbitrarietà degli oggetti-feticcio, invece di rimanere un punto interrogativo per la ricerca, per molto tempo fu la conferma della primitività del culto di popoli le cui menti erano ‘semplici’ e non sviluppate; pronte dunque a fermarsi alle prime spiegazioni dei fenomeni e degli eventi con cui avevano a che fare. Sotto questo aspetto, era l’osservatore europeo che si fermava sulle prime e più superficiali spiegazioni, e ciò in quanto la sua osservazione si legava ad un presupposto comparativo che se da un lato coglieva la conformità tra ‘selvaggi’ e ‘selvaggi’ e tra ‘selvaggi’ e antichi, dall’altro arrivava a questa importante conclusione a partire da due presupposti: il primo era quello della superiorità della sua cultura; il secondo era quello secondo cui questa sua cultura era legata filogeneticamente a quelle primitive»104.

Questa idea ha avuto modo di radicarsi nell’etnologia fino a quando non si sono

approfonditi gli studi sulle culture indigene. Tale passaggio non fu chiaro e lineare, anzi,

creò dei problemi e della confusione sull’uso del vocabolo. Tale diatriba venne idealmente

conclusa da Marcel Mauss, che nel 1907, in un commento ad un’opera di Dennett, affermò

che la categoria di feticismo, così intesa, era semplicemente un malinteso tra due culture

differenti, nello specifico quella europea e quella africana. «Essa non corrisponde che ad un

immenso malinteso tra due civiltà, l’africana e l’europea; non ha altro fondamento che una

cieca obbedienza all’uso coloniale, alle lingue francesi parlate dagli Europei nella costa

occidentale»105. Pertanto gli europei convinti di essere superiori agli africani, convinzione dalla quale derivava quella di doverli colonizzare, ritenevano tale culto primordiale106. Per Mauss, invece, i “feticci” dovevano essere considerati in relazione al contesto al quale

appartenevano e dal quale dipendevano, tanto se si trattasse di un contesto religioso quanto

di un contesto magico. «Quando Marcel Mauss proporrà di bandire il concetto di feticismo

104 Ibidem, p. 27. 105 Ibidem, pp. 137-138.

106 Bisogna tenere a mente che il contesto storico nel quale questa querelle ebbe luogo è intriso di pregiudizi razziali, che implicano e sottintendono anche quelli di inferiorità verso le popolazioni non europee.

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dal vocabolario etnografico, lo farà in nome di un altro modello dell’osservazione (…)

Spostando cioè il campo dal primato del rapporto uomo-natura al primato del rapporto

uomo-società»107. Tanto è vero che la nozione di feticcio, nell’opinione dello studioso francese doveva svanire dalla scienza perché non correlata a nessuna descrizione oggettiva

ed imparziale. Tale mancanza, persisteva ancora nel XIX secolo, periodo nel quale si

continuava a domandarsi quale fosse la descrizione più adatta a tale termine e quale fosse il

rapporto tra gli oggetti-feticci e gli idoli, ad esempio:

«Per quel che riguarda il rapporto tra feticci e idoli, ancora nel XIX secolo John Lubbock, classificando per stadi le credenze religiose, sottolineerà che il feticismo appartiene ad una fase di assenza di idoli, mentre agli inizi del ‘900 Wundt parlerà del carattere arbitrario dei feticci. Ma Bosman dice qualcosa di più: in effetti se è implicita l’arbitrarietà della scelta degli oggetti feticci, è pur vero, come egli afferma, che ogni feticcio viene assegnato a ciascun individuo o quanto meno a ciascuna famiglia. Nel XIX secolo McLennan distinguerà il feticismo dal totemismo, proprio per il carattere classificatorio sociale che possiede quest’ultimo». La definizione di feticcio, dunque, si

presenta costantemente come problema, anzi si può dire che il problema del feticcio è il problema della sua definizione. Cosa significano tutti quegli oggetti che sono

raggruppati sotto il nome di feticcio?»108.

A causa della dinamicità che contraddistingue la categoria dei feticci e dei simulacri, nel

tempo, si sono create discordie tra istituzioni religiose differenti, e persino, in alcuni casi,

all’interno di una medesima istituzione religiosa. Esempio ne è il differente atteggiamento

che caratterizzò, fino al VII secolo, la chiesa Orientale e quella Occidentale per quanto

riguarda le reliquie. La prima delle due, infatti, non ebbe nessuno scrupolo a traslare le

spoglie sacre; al contrario, per la seconda, non era possibile profanare tali spazi, pertanto il

107 Iacono A. M., op. cit., p. 132. 108 Ibidem, pp. 15-16.

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sepolcro doveva rimanere chiuso ed integro, perché in tal caso si sarebbe commesso un

sacrilegio. Solo in un secondo momento, quando la traslazione di reliquie, divenne cosa

comune anche per la chiesa di Roma nacque l’abitudine di considerare e usare come

reliquie anche le ossa dei santi, staccandole, quindi dal resto del corpo. Le ossa vennero poi

messe in reliquiari che venivano esposti all’interno delle chiese, un po’ come i churinga

vengono racchiusi nello stesso luogo sacro fino al giorno in cui debbano essere onorati od

utilizzati per i loro specifici riti. In ogni caso, la materia, sia che si tratti di società semplici

o meno, non può non avere un incredibile potere sul genere umano.

«Il dibattito su idoli, feticci, immagini, amuleti, totem, simulacri, reliquie ecc. (un insieme disordinato di “cose” situate a diversi livelli di realtà, storica, geografica, culturale) è antico come il monoteismo, e nasce innanzitutto dalla consapevolezza (seppur rimossa) che la lotta contro tutte queste cose che sembrano ridurre la spiritualità a materia (sia che si tratti di materia plasmata da mano umana sia che si tratti di materia informe) nasce dalla incancellabile sensazione che la materia ha comunque, sugli esseri umani, uno straordinario potere di fascinazione»109.

Tale potere di fascinazione della materia e lo sviluppo del culto dei santi e delle loro

reliquie, vennero analizzati dallo storico irlandese, Professore emerito all’Università della

California, Peter Brown (1935) in Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova

religiosità (1981). In questo testo l’autore espose il percorso storico-sociologico, che ha

portato alla nascita e alla diffusione di tale culto, di quello dei martiri e dei luoghi dove essi

vissero e, in modo particolare, di quelli in cui furono sepolti e all’adorazione delle loro

reliquie affermando che:

62 «(...) l’origine del culto dei santi fu avvertita dai contemporanei senza incertezza come una rottura di gran parte dei confini immaginari che gli uomini antichi avevano posto tra cielo e terra, tra divino e umano, tra vivente e morto, tra la città e il suo opposto. Mi stupisce che sia ancora possibile considerare questa esplicita rottura connessa al sorgere e al pubblico articolarsi del culto dei santi, come null’altro che schiuma che affiora alla superficie del pigro oceano della «credenza popolare». Il culto dei santi infatti implicò cambiamenti nell’immaginazione che appaiono senz’altro corrispondenti a quelli intervenuti nei modelli delle relazioni umane all’interno della società»110.

Le reliquie, possono, dunque in qualche modo, essere messe in analogia con i churinga

australiani per quanto riguarda l’adorazione che in entrambi i casi i credenti riservano a tali

oggetti, ma la differenza che intercorre tra i due è nell’atteggiamento e nella considerazione

che si ha di questi. Infatti, per gli indigeni essi sono magici, li proteggono, sono amuleti che

attraverso il contatto o l’ingestione li rendono partecipi delle qualità ad essi assegnati. Al

contrario, per i cattolici essi non lo sono in quanto tali, bensì perché appartenuti ad una

persona che vale la pena imitare per il suo rapporto con la divinità. Di fatto, essi hanno

partecipato della grazia divina e ne hanno “impregnato” sia i loro corpi sia gli oggetti

materiali di cui erano proprietari, attraverso di essi, dunque, i fedeli possono partecipare

della stessa. Un atteggiamento di reverenza analogo e corrispondente è quello che si ha

verso le immagini sacre. Il culto della venerazione dei martiri cristiani si basa sulla

considerazione che, grazie alla testimonianza data durante le loro esistenze, essi suscitano nel credente. Inizialmente la parola “reliquia” veniva usata per designare i corpi dei defunti

o le loro ceneri, in questa accezione venne adoperata dai primi cristiani, anche se poi

cominciò ad essere utilizzata anche per riferirsi a cose venute in contatto con il cadavere dei

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santi o con i loro resti. Dal IV secolo in poi, tale vocabolo iniziò ad essere impiegato per

riferirsi anche agli utensili che furono usati per i martiri, agli indumenti dei santi e anche a

tutti gli oggetti che ne avevano, semplicemente, toccato la tomba. Infatti, ad essi furono

riservati lo stesso rispetto, la stessa venerabilità attribuita al tribolato:

«Da ciò la forza emotiva che fa assumere rilievo alle tombe dei martiri: qui per lo meno erano sepolti defunti eccezionali. Essi erano morti in modo speciale e giacevano nelle tombe in un modo speciale. Questo fatto era dimostrato dal modo in cui si poteva pensare che nelle loro tombe e persino (o soprattutto, forse, come vedremo) in frammenti staccati dei loro cadaveri fossero concentrati tutti gli aspetti più piacevoli e animati della vita tardoantica»111.

Alla luce di ciò si può dedurre che il culto delle reliquie nacque contemporaneamente a

quello dei martiri, all’inizio il culto si concentrò soprattutto sui luoghi, in particolar modo,

nei sepolcri di questi uomini. Con le persecuzioni dei cristiani ne venne difficile

l’adorazione e, conseguenzialmente, se ne crearono altri derivanti dai continui atti di

violenza a fronte dei perseguitati. Questi ultimi volevano portare con sé parti ed oggetti di

questi martiri, di questi sacrifici. Bisogna tenere a mente, però, che all’inizio queste furono

delle decisioni indipendenti dalle autorità ecclesiastiche, le quali, anzi, non ammettevano

tali atteggiamenti e li accetteranno solo dal IV secolo in poi, quando cominciarono ad

essere costruite chiese e cappelle dove giacevano i resti dei santi. Infatti già dal III secolo si

commemorava liturgicamente e privatamente il loro sacrificio e si implorava la loro

intercessione. Ma questi riti ebbero una così grande eco che vennero erette delle chiese in

nome dei tribolati anche in altre località ed anche in esse si chiedeva una “presenza” del

Santo in questione. Tanto è vero che alcune reliquie cominciarono ad essere traslate da una

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città all’altra (IV secolo). Questo atteggiamento ebbe una risonanza così grande che in tutto

il periodo a venire non si fondava più una chiesa senza cercare di avere delle reliquie, a

maggior ragione se tale costruzione fosse stata dedicata ad un solo santo. Difatti nei secoli

VIII e IX il Concilio di Nicea proibì di consacrare un altare senza che esso contenesse delle

reliquie e proibì, altresì, di celebrare l’Eucaristia in un altare che dentro non ne contenesse.

In tali secoli, anche la chiesa di Roma cominciò a trasportare le reliquie dei santi all’interno

delle città, poiché l’invasione dei Longobardi aveva favorito lo spopolamento delle

campagne e di conseguenza, le chiese erette sulle tombe fuori dalle città vennero

abbandonate. Come si è già detto, non furono semplicemente i corpi dei santi ad essere

onorati, ma anche parti dei luoghi considerati tali, un esempio ne sono i piccoli pezzi della

Croce di Gesù a Gerusalemme. Tali reliquie furono deposte dentro gli altari delle chiese e

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