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La definizione del sostantivo “sacrilegio” è la seguente:

«È la profanazione sia d’un atto del culto, sia d’un oggetto o d’una persona, i quali siano santi per natura o santificati da una consacrazione o dal loro uso religioso. Nelle gerarchie dei peccati, stabilite dalle diverse religioni, è senza dubbio il più grave: poiché, se tutti i peccati sono offese alla divinità, alla cui volontà contravvengono, il sacrilegio offende la divinità più direttamente, la colpisce in ciò che le appartiene in proprio e che in una certa misura partecipa del suo stesso essere; è per eccellenza il peccato contro la religione»156.

Dunque il sacrilegio non ha senso di esistere se non collegato a qualcosa/qualcuno di reale,

anche se con l’evoluzione dei culti religiosi e delle religioni positive, come noi le

conosciamo, esso ha cominciato a riguardare anche la parola. Infatti, anche la bestemmia è

considerata tale, proprio comeè considerato sacrilegio qualunque uso di formule al di fuori

del contesto per le quali esse sono finalizzate. Il sacrilegio è correlato anche alla

profanazione di luoghi considerati sacri, siano essi gli spazi di una cerimonia rituale alla

quale non è permesso assistere, siano essi luoghi a cui non è permesso accedere per altri

motivi. Un altro modo di commettere un sacrilegio è quello che riguarda il mancato rispetto

delle forme e delle formule dei riti o nell’utilizzo di strumenti non ritenuti degni per tali

scopi, poiché l’inadeguatezza di tali mezzi invaliderebbe il rito e, soprattutto, offenderebbe

la divinità. Il sacrilegio è, altresì, come dimostrato da Mauss e Hubert da mettere in

relazione con il sacrificio. Di quest’ultimo essi dicono, invero, che faccia parte poiché i

credenti del culto in questione lo percepiscono come tale nel momento più importante del

156 Enciclopedia Treccani online, http://www.treccani.it/enciclopedia/sacrilegio_%28Enciclopedia- Italiana%29/, consultato il: 27/02/2017.

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rituale, ossia il sacrificio della vittima, la quale grazie ai processi ai quali è stata sottoposta

è pregna nel modo più eminente possibile di sacralità e del dio, infatti:

«Ha inizio un crimine, una sorta di sacrilegio. Per questo, mentre la vittima veniva condotta sul luogo dell’uccisione, alcuni rituali prescrivevano libagioni ed espiazioni. Si chiedevano scuse per l’atto che si stava per compiere, si piangeva la morte dell’animale, lo si compiangeva come un parente. (…) Influenzati dalle stesse idee, capitava che si punisse, si percotesse, si esiliasse l’autore dell’uccisione. (…) I riti dell’uccisione erano estremamente variabili, ma ogni culto esigeva che fossero scrupolosamente osservati. Modificarli era generalmente una eresia funesta, punita con la scomunica e la morte»157.

Parte integrante del rito del sacrificio riguarda, come già mostrato dall’analisi dei due

autori, non soltanto la trasformazione che permette al singolo individuo di divenire sacer in

modo tale da poter officiare il culto, bensì anche il processo contrario che gli permette di

ritornare nella sfera profana. Il sacerdote uccide la vittima, la sacrifica, ma non può non portare su di sé la macchia di questa “colpa” la quale deve essere “lavata” attraverso

un’ulteriore rituale di conversione. È proprio in tale passaggio che è possibile trovare la

nozione di sacrilegio. «(…) le purificazioni alle quali era sottoposto il sacrificatore dopo il

sacrificio, erano simili all’espiazione del criminale»158. Ma non è soltanto l’individuo a subire le conseguenze di ciò, per esempio, ad Atene, durante il sacrificio delle Bufonie, era

il coltello che era stato usato per il rituale ad essere gettato in mare perché condannato per

l’atto, era, quindi, in questo caso l’oggetto ad avere una parte importante. A proposito della

connessione tra sacrificio e sacrilegio, tra trasgressione e festa, Caillois nel suo L’uomo e il

157 Mauss M., Hubert H., Saggio sul sacrificio, op. cit., p. 38. 158 Ibidem, p. 38.

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sacro, riferendosi al sacrilegio, nella sua opinione base fondante e fondamentale della festa

e della trasgressione ad essa collegata, asserisce che:

«Cibarsi del totem e trasgredire la legge esogamica sono violazioni parallele di una medesima legge, quella che separa per ciascun gruppo il sacro dal profano. Nella coscienza degli indigeni, esse destano le stesse risonanze, suscitando il medesimo orrore. Spesso sono identificate. Le indica lo stesso nome»159.

Gli eccessi che caratterizzano la festa, infatti, non sono altro che sacrilegi. Tutto ciò che viene “permesso” in questi periodi non lo era fino al giorno precedente e ritornerà a non

esserlo alla fine di tale periodo. Nell’opinione dell’autore, però, in accordo con la sua idea

di quale sia lo scopo del sacro, senza questi “sacrilegi legittimati” la comunità non potrebbe

rinnovarsi e mantenere il proprio equilibrio, dimostrazione di ciò sembrerebbe essere la

credenza di tali comunità indigene della necessità di tali azioni per far sì che i loro riti

funzionino. Un esempio di ciò sono le messe a morte dell’animale ritenuto sacro da un

determinato clan, tra le società australiane, cibarsi di tale animale è, generalmente,

considerato sacrilegio, ma se il capo clan rifiutasse di cibarsene questo suo atteggiamento

avrebbe conseguenze nefaste, sia per lui, poiché non potrebbe più celebrare la festa, sia per

l’animale che non si riprodurrebbe più. Ma, come si è già detto, cibarsi del totem e

trasgredire la legge esogamica sono atteggiamenti che vengono definiti con lo stesso nome,

perché creano la stessa indignazione. Durante la festa, però, i rapporti con donne dello

stesso clan sono permessi, anzi, sono quasi obbligatori, mentre di norma, al contrario, tali

atteggiamenti vengono puniti con la condanna a morte. Dunque cosa li rende santi e sacri,

tanto quanto le interdizioni che quotidianamente li circondano? Essi hanno l’onore/l’onere

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di dare nuova vita alla specie a cui appartiene l’animale totemico, dal quale dipende tutta la

comunità. Tanto è vero che il ruolo di questi eccessi, secondo Caillois, è vitale per la

società totemica in sé, perché le permette di ritornare ad una situazione stabile, quando

questa comincia a non esserlo più ed ha bisogno di rigenerarsi. Bisogna tenere a mente che

il sacrilegio è collegato indissolubilmente ad una credenza, qualunque essa sia e, di

conseguenza, non può essere scisso nemmeno dal senso comune. Tanto è vero che, come

Durkheim stesso afferma nella sua opera, sono le idee ad essere consacrate, nel senso più

letterale del termine. Difatti concepire e pensare determinati uomini come sacrileghi è

retaggio di credenze e idee che, nel fondo, non variano tra le società più semplici e quelle

più complesse.

«Esattamente come gli uomini, la società consacra le cose, e soprattutto le idee. Se una credenza è unanimemente condivisa da un popolo, allora (…) è proibito toccarla, cioè negarla o contestarla. Ma la proibizione della critica è una proibizione come le altre e dimostra che siamo di fronte a qualcosa di sacro. Anche oggi, per quanto sia grande la libertà che ci accordiamo a vicenda, un uomo che negasse completamente il progresso, che irridesse all’ideale umano al quale le società moderne sono attaccate, darebbe l’impressione di essere un sacrilego»160.

Dunque è ritenuto sacrilego qualsiasi atteggiamento che non si adegui con quello ritenuto

consono da un determinato gruppi di soggetti/credenti.

«Durante le mestruazioni, e soprattutto al loro primo apparire, le donne sono impure; in questo momento, quindi, sono rigorosamente sequestrate; gli uomini non devono avere con loro alcun rapporto. I bull-roares, i churinga non sono mai a contatto con il morto. Il sacrilego è escluso dalla società dei fedeli; l’accesso al culto gli è interdetto.

93 Sicché ogni vita religiosa gravita intorno a due poli contrari tra i quali c’è la stessa opposizione esistente tra il puro e l’impuro, il santo e il sacrilego, il divino e il diabolico»161.

La diversità delle proibizioni in ciascuna tribù, è un esempio di quanto detto, anche se, di

fondo, la conseguenza nefasta, l’illegalità e il senso di colpa misto al disgusto accomunano

tutte le violazioni di tali interdetti e da questo stato d’animo non sono escluse nemmeno le

violazioni talora consentite, infatti:

«Esistono anche delle tribù in cui è proibito cacciare per proprio conto l’animale del quale si porta il nome, e in cui però è consentito ucciderlo per conto d’altri. Ma in genere, il modo in cui l’atto è compiuto indica chiaramente che c’è qualcosa di illecito. Ci si scusa, come di una colpa; si dimostra un sincero rincrescimento e la ripugnanza sentita. Presso i basoutos “bisogna purificarsi dopo aver commesso tale sacrilegio”, e si prendono le precauzioni necessarie perché l’animale soffra il meno possibile»162.

Ma quanto possono dirsi “naturali” queste interdizioni? O meglio, quanto esse vengono

percepite dagli indigeni come ordinarie e come, invece, vengono percepite le attenuazioni

che caratterizzano lo sviluppo delle società? Da come si evince sempre da Le forme, tali “attenuazioni” non riescono ad imporsi liberamente, tanto è vero che, se pur piccole, delle

proibizioni continuano a permeare i totem.

«Tuttavia, se la proibizione è formale in un gran numero di tribù (…) è indubbio che essa tenda ad attenuarsi man mano che la vecchia organizzazione totemica è più scossa. Ma le stesse restrizioni che allora persistono dimostrano che queste attenuazioni non sono state ammesse senza difficoltà. Per esempio, dove è permesso mangiare la pianta o l’animale che fa da totem, non lo è però in piena libertà; se ne può

161 Ibidem, p. 474. 162 Ibidem, p. 185.

94 consumare soltanto una piccola quantità per volta. Passare la misura costituisce una colpa rituale che ha gravi conseguenze»163.

Ma tali comportamenti, tali gesti da dove derivano? Quali sono le loro fondamenta e qual è

lo strumento che deve essere usato? Il corpo, gli oggetti, le cose? E in che modo essi

debbono essere utilizzati e, nel caso specifico del corpo, come quest’ultimo deve essere

educato?

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