Ne Le forme elementari della vita religiosa, Durkheim, come si è già avuto modo di
affermare, per spiegare quale fosse l’origine, il principio del totemismo, sottolineò come gli
oggetti, in quanto tali, non siano nulla in se stessi, ma abbiano un ruolo importante per
quanto riguarda ciò che rappresentano. Tali simboli, siano essi religiosi o meno (per
esempio la bandiera che rappresenta la patria) sono, naturalmente, diversi e differenti per
ogni singola cultura o credenza, ma il loro compito precipuo, il loro scopo finale è identico.
Infatti, essi sono una rappresentazione visibile di ciò che visibile non è.
«Per simbolo intendiamo un semplice rapporto di rappresentazione tra una cosa o un essere simbolizzato e la cosa o l’oggetto che lo simbolizza; l’operazione simbolica può da questo punto di vista essere scomposta in due processi. Ad esempio nel caso del totem si ha una concettualizzazione (tutti gli individui di una certa specie sono rappresentati da una figura comune, come nel linguaggio) e si stabilisce un rapporto tra l’animale totem così concettualizzato e un gruppo sociale (anch’esso identificato come opponibile ad altri gruppi): propriamente parlando, è questo mettere in rapporto a costituire l’atto della simbolizzazione»91.
Si deve tenere presente che il simbolo religioso contiene sempre in sé una parte misteriosa,
che vela il dio o l’autorità ed un’altra che ne rende manifesta la presenza e la potenza.
Dall’inconoscibile deriva il rispetto ed il timore che provano verso di lui i credenti del
culto. Tale inconoscibile è chiamato da Rudolf Otto numinoso, sostantivo creato dall’autore
e usato nella sua opera Il sacro. Con tale vocabolo, il teologo tedesco denomina
l’esperienza di una presenza invisibile e potente, che riesce sia ad attirare che ad incutere
timore nei confronti dell’individuo e che, secondo l’autore è il nucleo del sacro.
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Diversamente da ciò che affermava Durkheim, dunque, per Otto il sacro non è un fatto che
ha origine da e insieme alla società, bensì è qualcosa che sembra trascenderla. Ma ciò
sembra alquanto improbabile, poiché la cosa sacra è indissolubilmente legata e dipendente
dal culto. Dato che la storia del simbolo, come quella della religione a cui si rapporta,
subisce l’influenza di ciò che storicamente accade, delle modificazioni all’interno del
pensiero della stessa e delle trasformazioni che vengono messe in atto da piccoli o grandi
gruppi che, soprattutto, nei periodi iniziali di formazione di un credo vengono a formarsi. In
questi casi si può assistere ad un’estrema conseguenza: la scissione da parte del gruppo, che
conduce al decadimento di simboli fino ad allora ritenuti validi o, al contrario, incrementa
un’estenuante difesa degli stessi92, da parte della maggioranza in disaccordo. Ciò è possibile, secondo Durkheim, perché grazie alla partecipazione ai riti da parte degli
individui appartenenti alla comunità, essi percepiscono come esterne le loro
rappresentazioni collettive, anche se esterne esse non sono, per questa ragione, quindi,
possono essere influenzate e trasformate dai cambiamenti che riguardano la comunità in
questione. Nello specifico, a proposito dei simboli rituali, Maurice Bloch (1939)
antropologo inglese di origine francese, nel suo Simboli, canto, danza e caratteristiche di
articolazione. La religione è una forma estrema di autorità tradizionale?93 indaga non semplicemente sui riti, ma, nello specifico, sofferma la sua analisi sui canti, le danze e i
simboli materiali che in esso sono presenti affermando, poiché secondo la sua opinione ai
primi due aspetti, in particolar modo, non è stata data la giusta attenzione, che:
92 Un esempio è la controversia sulle icone di cui si parlerà in modo più approfondito nel paragrafo La venerazione dell’immagine di questo testo.
55 «I simboli materiali sono paragonabili a serie di parole prive (o con una minima parte) di articolazione sintattica. Nel rituale essi non solo si susseguono in un ordine relativamente fisso (se confrontato a quello delle parole nel linguaggio) ma la sequenza stessa è relativamente (sempre in confronto al linguaggio) priva di significato. I simboli materiali sono dunque per loro natura simili alle parole della comunicazione formalizzata. Essi possono soltanto essere parte di un messaggio con forza proposizionale molto debole, ma, come risultato, guadagnano in ambiguità: di qui la loro forza illocutoria ed emozionale»94.
A differenza di quanto ha affermato Malinowski sul significato delle parole all’interno dei
riti magici95, nell’idea dell’antropologo inglese, il linguaggio rituale ha significato e anzi può essere messo in analogia con il discorso politico96. A questo punto si può affermare che un simbolo religioso e, di conseguenza, sacro e con esso ogni sua rappresentazione
corrisponda ad una precisa serie di pensieri e di sentimenti stabiliti dalla cultura e dalle “autorità”, che appartengono alla religione in questione. Difatti, la rappresentazione
simbolica e materiale continua a mantenersi nel tempo e ad essere utilizzata sia nelle
religioni primitive che in quelle che a tutt’oggi esistono nelle società, come afferma Augé:
«Gli dei sono al centro dell’universo simbolico inteso come l’insieme dei sistemi di rappresentazione dell’attività umana: si può passare dall’uno all’altro di questi sistemi, e da una pratica all’altra, solo grazie alla loro mediazione. Contemporaneamente costituiscono il passaggio obbligato per andare dal sé all’altro (per vivere socialmente) e soprattutto dal sé al sé, dal momento che il rapporto con se stessi è più problematico del rapporto con gli altri»97.
94 Bloch M., Simboli, canto, danza e caratteristiche di articolazione. La religione è una forma estrema di autorità tradizionale? In Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, a cura di Carchia G., Salizzoni R., Rosenberg & Sellier, Torino, 1980, p. 205.
95 Lo studioso asseriva che, al di fuori del contesto magico, esse non avessero significato alcuno.
96 A tal proposito si approfondirà tale legame e si tratterà nello specifico della personalità sacra nell’omonimo paragrafo di questa trattazione.
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Tale potere esercitato dagli oggetti/cose/individui sacri sui credenti, viene da Caillois nel
suo L’uomo e il sacro, posto in analogia con il mana («L’uomo che possiede mana è colui
che sa e può farsi obbedire dagli altri»98), in accordo con ciò che affermava Mauss sul rapporto tra potere e mana e sull’influenza che quest’ultimo ha sulle relazioni e sulle
gerarchie all’interno di una comunità. Da ciò si può dedurre che non potrà esserci una
regola generale ed uguale per tutta l’umanità su quale sia la categoria o il gruppo di
categorie che possano o meno venire elevate a quella di simbolo religioso o feticcio, tutto,
dunque, in potenza, può divenire tale. Non essendo la sacralità una qualità intrinseca
dell’oggetto in sé e, pertanto, potendo essere assegnata o decadere in conseguenza ai
cambiamenti dell’ambiente che ne fa uso, si può asserire, con le parole di Augé che:
«Simbolo, feticcio, oggetto: il supporto del simbolo e del feticcio è l’oggetto, la cosa. Ma
l’oggetto può essere diverso: oggetto naturale – pietra, pezzo di legno – o elemento della
natura dotato di vita propria che ne facilita la personalizzazione»99. A tal proposito, diverso ed opposto, era, però, l’approccio di Rudolf Otto su questa questione, infatti, nella sua
riflessione, l’oggetto è considerato, in special modo per quanto riguarda le religioni
primitive, una semplice razionalizzazione del numinoso, che però viene a sparire quando si prova a teorizzare su di esso, o meglio, sui comportamenti dei “primitivi” attraverso teorie
che ne banalizzino il contenuto:
«Già è stato così al più basso stadio del primo crudo irrompere del sentimento numinoso nella religione dei primitivi. Non già che la caratteristica di questo stadio sia che si abbia qui a che fare con “spiriti”, con curiose entità, che non è dato vedere, come vuole l’animismo. Le raffigurazioni degli spiriti e le concezioni affini sono piuttosto tutte forme posteriori di “razionalizzazione”, che tentano cioè di chiarire in una
98 Caillois R., L’uomo e il sacro, op. cit., p. 82. 99 Augé M., op. cit., p. 27.
57 qualsiasi maniera l’enigma del mirum, e hanno da sempre l’effetto di indebolire e assottigliare l’esperienza stessa. Da esse rampolla non già la religione, bensì la traduzione razionale della religione, la quale finisce poi in una così massiccia teoria, con interpretazioni così banali, che il mistero ne è decisamente cacciato»100.
Secondo il teologo tedesco, infatti, l’oggetto religioso non può essere compreso del
tutto ed è stato Platone ad averne dato una spiegazione confacente:
«Egli abbandona il tentativo di trasferire l’oggetto religioso in un sistema conoscitivo, mediante gli oggetti della episteme vale a dire della ratio. In tal modo si fa per lui tale oggetto, qualcosa non più di limitato, bensì di più ampio e alto. E in pari tempo tutto l’aspetto irrazionale dell’oggetto si rivela vivacemente, vigorosamente al suo sentimento e non solo lo sente ma sa esprimerlo. Nessuno ha mai più incisivamente enunciato meglio di questo maestro del pensiero, che Dio è al di là di ogni concepimento razionale, non solamente come l’inafferrabile, ma proprio come l’inconcepibile»101.
100 Otto R., op. cit., pp. 35-36. 101 Ibidem, pp. 99-100.
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