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Il sacro come forza collettiva. Esegesi del concetto da Durkheim a Baudrillard.

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA

IL SACRO COME FORZA COLLETTIVA.

ESEGESI DEL CONCETTO DA DURKHEIM A BAUDRILLARD.

Relatore

Candidata Prof. Giovanni Paoletti

Stefania Di Filippo

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Ai miei nonni, per come mi hanno amata sulla terra e per come continuano a farlo da lassù, Ai miei genitori, A Giovanni e Gabriele, A mia nonna Elena, perché mi ha insegnato l’amore incondizionato, la forza e la determinazione per affrontare tutte le prove a cui la vita ci sottopone, A Matteo e Roberta, perché “nessuna guerra è stata vinta mai da un solo uomo”.

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3

Indice

Introduzione

... 5

Capitolo I

Religione e Sacro

I. Concetti generali ... 8

II. Rapporto tra sacro e profano ... 13

III. Collège de sociologie: l’idea di sacro in G. Bataille e R. Caillois ... 17

IV. Il mito in R. Caillois ed il rito in É. Durkheim ... 26

V. La religione totemica e l’idea di mana nell’interpretazione di É. Durkheim ... 32

VI. Il mana secondo le analisi e le ricerche di M. Mauss ... 37

VII. Valore d’uso e valore di scambio ... 40

VIII. L’ideologia e l’importanza del dono ... 43

Capitolo II

Oggetti e sacro, oggetti sacri

I. Contesti e culture: L’influenza dell’ambiente sul modo di intendere le cose sacre .... 46

II. Il simbolismo religioso ... 53

III. Oggetti sacri: feticci e simulacri ... 58

IV. La venerazione dell’immagine ... 65

V. Icone divine: Interpretazioni ... 69

Capitolo III

I diversi ruoli del corpo nelle manifestazioni rituali

I. La personalità sacra ... 73

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4

III. Il sacrilegio ... 89

IV. “Antropologia dei gesti” ... 95

Capitolo IV

Esiste e resiste ancora il sacro nella modernità?

I. Il corpo in se stesso: moderna divinità da adorare? ... 101

II. “Il culto dell’individuo” ... 108

III. “Il mito della crescita” ... 114

IV. “Modelli di serie” ... 118

V. La pubblicità ... 125

Conclusione

... 129

Bibliografia

... 131

(5)

5

Introduzione

Gli ultimi decenni del nostro secolo sono stati profondamente segnati dalla religione, o

meglio, nello specifico, sembrerebbe che la maggior parte degli avvenimenti che hanno

segnato la storia dell’umanità negli anni scorsi sia o da attribuire o da collegare,

eminentemente, ad un discorso religioso. Infatti, è proprio, in alcuni casi, un determinato

credo la giustificazione che si vuole trovare per dare credito o motivo ad alcuni atti ignobili.

Si cerca di nascondersi dietro la religione, la propria credenza, sottolineando come la

sacralità nella quale si ha fede non sia stata rispettata scatenando un’insensata ira. A tale

riguardo, sembra interessante cercare di capire, almeno inizialmente, quale sia il percorso

etimologico dei termini qui presi in considerazione, ossia religione e sacro. Difatti, il primo

capitolo ha come scopo quello di introdurre sia la storia etimologica che ideologica dei due

sostantivi, sia il rapporto che intercorre tra religione e sacro e, il non meno importante,

rapporto tra sacro e profano. A proposito del primo, saranno prese in considerazione le

diverse interpretazioni che intellettuali differenti (sia contemporanei che non) hanno dato

all’argomento. Si cercherà, pertanto, di entrare nel profondo di quello che è, sempre se si

creda ci sia, lo schema basilare di ogni religione. Per quanto concerne quest’ultimo, non si

può che cominciare da un testo fondamentale come Le forme elementari della vita religiosa

di Émile Durkheim, mettendo in risalto l’approccio opposto al problema sviluppato in Il

sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale da parte del

contemporaneo Rudolf Otto. Proseguendo poi con quelle che sono state le influenze

suscitate dal primo sugli studi/sugli studiosi posteriori, partendo da Marcel Mauss,

(6)

6

testi scritti in collaborazione con Henri Hubert. Passando, poi, per gli intellettuali del

Collège de sociologie, in particolar modo Georges Bataille e Roger Caillois e sulle loro

riflessioni su quale sia il rapporto tra il sacro e la società, in particolare, quella nella quale

essi vivono, per spiegarla, per arrivare a Jean Baudrillard e alla sua estremizzazione di tale

rapporto tra società e ideologia, tra società ed individuo. Il secondo ed il terzo capitolo

tendono all’analisi specifica di quei riti, quelle credenze, quel rapporto tra soggetto ed

oggetto che gli autori citati hanno messo in luce nell’arco delle loro riflessioni. Nello

specifico, il primo dei due esamina, partendo dalle influenze dell’ambiente sul modo di intendere le cose sacre il simbolismo religioso e in particolar modo i “feticci” ad esso

ricollegati, peculiari delle società cosiddette “primitive”, passando ad un’analisi dei

simulacri e delle icone per concludere con un paragrafo sulle interpretazioni delle icone

divine. Il secondo, invece, investiga i diversi ruoli del corpo nelle manifestazioni rituali,

divenendo così il trait d’union tra i primi due capitoli e l’ultimo. In questa prima parte si

cercherà, in particolar modo, di dare risposta al quesito seguente: “Il sacro è un fatto sociale e non può essere altrimenti?”. Mentre, l’ultimo capitolo che rappresenta la fase finale di

questo percorso non può non racchiudere i tre precedenti e spingerci oltre, cercando di

capire anche se il sacro, non la religione (si avrà modo di vedere come questi due sostantivi

siano stati, spesso, confusi e come, ai fini dell’argomentazione seguente deve essere sempre

fatta una distinzione), faccia parte della società contemporanea e in quali modi riesca a

manifestarsi, magari, avendo, semplicemente, cambiato forma ed indossando una maschera.

Dunque, attraverso gli scritti di Jean Baudrillard, come Il sistema degli oggetti, La società

dei consumi, Lo scambio simbolico e la morte (solo alcuni dei testi citati nella trattazione),

opere editate più o meno tutte nello stesso periodo e con un accenno ad un’opera più

(7)

7

tenterà di rispondere anche ad un altro quesito ossia se: “Esiste e resiste ancora il sacro nella modernità?”, non a caso titolo dell’ultimo capitolo di questa trattazione.

(8)

8

Capitolo I

Religione e Sacro

I.

Concetti generali

Tutto ciò che è sacro, è stato reso tale. Ma da chi e in che modo? Esiste un tempo stabilito

per il quale una cosa può essere definita e considerata sacra, ed un altro per il quale non lo è

più? La risposta al quesito precedente potrebbe venire spontanea: è la religione a rendere

specifici oggetti e/o persone sacre, attraverso riti e culti stabiliti. Ma anche se ciò che la

parola religione richiama alla mente implica sempre il sacro, non ogni cosa sacra è

collegata inevitabilmente ad una religione. Tanto è vero che, se si comincia la propria

analisi dall’origine del vocabolo in questione si nota come esso pose una questione

interpretativa già nell’antichità. Quest’ultima fu maggiormente influenzata dalla diffusione

del cristianesimo, il quale tendeva ad assegnare al termine, tra le due interpretazioni

possibili, quella che ne riconduceva l’etimologia a ligàre, ossia all’unione tra un gruppo di

uomini ed una divinità e non a lègere, ossia ad una relazione tra diversi gruppi di uomini.

«Alcuni di quegli autori, come per esempio Cicerone, facevano risalire il termine religio al verbo lègere (che rimanda all’idea di "riunire"), tra i primi autori cristiani, come Lattanzio e Tertulliano, prevaleva invece l’idea che religio derivasse da ligàre, "legare". Riunire e legare (lègere e ligàre) hanno significati simili ma la scelta di uno piuttosto che dell’altro termine era, in questo contesto, dirimente. Infatti, mentre nel primo caso si trattava di riunire degli essere umani, nel secondo caso si trattava, per dichiarazione esplicita di quegli autori, di legare insieme gli esseri umani a una

(9)

9 divinità»1.

Sia che si propenda per una spiegazione piuttosto che per l’altra, ci si trova, in ogni caso,

davanti alla definizione di rapporti, di legami tra soggetti. Differentemente il sacro designa

ciò che è separato, distinto dal resto, intoccabile ed inviolabile perché tutto ciò che viene

designato come tale, sia esso un individuo o un oggetto, innesta nel credente un sentimento

di riverenza e di subordinazione che permette la costruzione di relazioni non paritarie. A

questo punto, però, ci si potrebbe chiedere da dove nascano sia la religione che il sacro e

che cosa, soprattutto, da un punto di vista sociologico, esse rappresentino. Su questo tema

si interrogarono, tra la metà e la fine dell’800 ed oltre, diversi intellettuali, che seguirono la

scia dei pensatori illuministi, considerando la religione da un punto di vista antropologico e

scegliendo di analizzare le diverse credenze da un’angolazione che le ritenesse un prodotto

della cultura2. Tra di essi spiccarono, soprattutto per le interpretazioni opposte che diedero dell’argomento: Émile Durkheim (1858-1917) sociologo francese nonché fondatore della

prima rivista incentrata sulla sociologia, ossia L’Année Sociologique (1898) e Rudolf Otto

(1869-1937) teologo e storico delle religioni tedesco. Il primo espose la sua teoria al

riguardo ne Le forme elementari della vita religiosa3, opera nella quale la religione viene così definita: «Una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose

sacre, cioè separate, interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata

Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono»4. L’idea dello studioso francese è che la religione sia qualcosa di intrinsecamente collettivo (avendo notato che il concetto di religione non può

essere scisso da quello di chiesa) e di conseguenza egli crede ed afferma che la religione sia

1 Fabietti U., Materia Sacra, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014, p. 25. 2 Un esempio ne è la “religione civile” di J.-J. Rousseau.

3 Bisogna tener presente che la prima edizione del testo è stata pubblicata nel 1912.

(10)

10

un fatto sociale, che permette il mantenimento e la coesione della comunità, attraverso la

divisione del mondo in due aree distinte e contrapposte: il sacro e il profano. Il sacro

deriva da una forza, uno spirito, un mana5, che precede la religione (intesa come l’insieme di culti e credenze stabiliti), la quale reputa sia una rappresentazione della comunità, che

amministra il sacro aiutando l’unione e la coesione della società stessa. In un modo quasi

del tutto opposto si approccia, invece, a questo argomento Rudolf Otto. La sua riflessione,

infatti, non può non risentire della sua esperienza di teologo, tanto è vero che nel suo Il

sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale (1917) egli scrive:

«Mi sono fatto forza per parlare con te, io, che sono terra e cenere.

Ecco un sentimento di dipendenza che si professa tale da se stesso, ciò che è pure molto di più e nello stesso tempo tutt’altra cosa qualitativamente, da tutti i sentimenti di dipendenza. Cerco una denominazione per la cosa e dico: sentimento di essere

creatura – il sentimento della creatura che s’affonda nella propria nullità, che

scompare al cospetto di ciò che sovrasta ogni creatura. Si vede facilmente che neppure questa espressione dà una spiegazione concettuale della cosa. Quel che infatti risulta qui non è soltanto ciò che la nuova denominazione può esprimere, il momento cioè dell’annientarsi e del riconoscere la propria nullità in confronto di una qualsiasi super-potenza, bensì di trovarsi al cospetto di una tale super-potenza»6.

Per lo studioso tedesco bisogna considerare il sacro una propensione aprioristica ed

interiore ad ogni essere umano, che permette alla religione di sussistere ed esistere. Il

mondo è per Otto semplicemente il luogo nel quale il sacro si manifesta attraverso la

religione, non quello dal quale ha origine.

5 Si rimanda al paragrafo La religione totemica e l’idea di mana nell’interpretazione di É. Durkheim di questo testo per una trattazione approfondita dell’argomento.

6 Otto R., Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 113.

(11)

11 «Il sacro pertanto nel pieno significato del vocabolo, è per noi una categoria composita. I momenti che la compongono sono le sue parti costitutive razionali e irrazionali. Ma in entrambi i momenti – il che va solennemente proclamato contro ogni sensualismo e ogni evoluzionismo – costituisce una categoria puramente a priori»7.

Dunque, differentemente da Durkheim, il sacro è, qui, descritto ed inteso come un

sentimento misterioso ed inesplicabile pienamente a parole ed essenzialmente individuale.

Anche se entrambi danno un’importanza centrale all’esperienza e affermano esserci una

differenza imprescindibile tra sacro e religione. Infatti, quest’ultima presuppone il sacro,

dal quale, peraltro, emana. Il sacro diviene dunque la linea guida morale non

semplicemente del singolo, ma dell’intera comunità, attraverso e grazie ai precetti religiosi.

«Si deve ammettere che agli inizi dello sviluppo storico-religioso stanno singolari fenomeni i quali sanno assai poco di religione nel senso moderno della parola, ma che preludono ad essa come un atrio, e da allora in poi non cessano di operare profondamente in essa. Tali: la credenza nei morti e il loro culto, credenza e culto degli spiriti, magia, saghe e miti, venerazione degli oggetti naturali, terribili o mirabili, nocivi o vantaggiosi, la strana idea del “potere” (orenda), il feticismo e il totemismo, culto delle piante e degli animali, il demonismo e il polidemonismo. In tutti questi fatti, per quanto eterogenei fra loro e per quanto lontani dalla vera religione, si agita riconoscibile un comune momento, un numinoso in virtù del quale essi possono dirsi di essere l’atrio della religione»8.

Il sacro, perciò, è altra cosa rispetto alla religione e può essere spiegato e descritto, alla luce

della sua natura, solo attraverso l’ambiguità che lo contraddistingue.

«In sacer, vi è esclusivamente la nozione di un’area distinta che è attribuita al divino. Il

7 Ibidem, p. 113. 8 Ibidem, pp. 117-118.

(12)

12 senso di sacer si chiarisce per opposizione a profanus ‘al di fuori del fanum’. L’area del sacer è un’area separata dalla disposizione stessa dei luoghi. Rendere sacer consiste in una specie di separazione, di esclusione dall’area dell’umano a causa di una dedica al divino»9.

È impossibile, allora, descrivere il sacro senza un accenno al suo contrario, ossia il profano,

essendo intrinsecamente legati, tanto che l’uno definisce e delimita l’altro. Potrebbero

essere classificati, apparentemente, come antagonisti, opposti senza nessuna possibilità di

continuità, in realtà, così non è.

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13

II. Rapporto tra sacro e profano

Scrive Durkheim: «Il sacro ed il profano sono stati sempre e ovunque concepiti dallo spirito

umano come generi separati, come due mondi tra cui non c’è nulla in comune»10. Essi non si limitano, semplicemente, a definirsi reciprocamente, ma le cose appartenenti all’una e

all’altra sfera possono subire una trasformazione e smettere di appartenere ad un ordine per

essere ammesse nell’altro. Ma com’è possibile questo cambiamento? Quali sono e come si

svolgono i processi in esso implicati? Le caratteristiche appartenenti all’una o all’altra sfera

non sono intrinseche alle cose stesse, ma provengono dalla cultura e dalla società alla quale

si relazionano, quindi, non esiste nessuna cosa che sia in sé stabilmente profana o sacra,

anche se si è portati a pensare queste due categorie come saldamente separate, o meglio,

contrapposte. Qual è, dunque, il processo che porta un oggetto, un individuo a far parte di

un insieme, piuttosto che dell’altro? Rosati asserisce, su questo argomento, che:

«L’esistenza dei riti, e dunque di un complesso meccanismo di regolamentazione dei rapporti tra sacro e profano, testimonia indirettamente di un rapporto tra le due sfere di non assoluta esclusività reciproca. Ciò che oggi rappresenta una dimensione sacra, può domani trasformarsi in profano - e viceversa, naturalmente - pur passando attraverso una complessa rete di trasformazioni qualitative»11.

Difatti è possibile trovare un riscontro di ciò nei riti di iniziazione. Tali riti sono una

caratteristica peculiare delle civiltà australiane, oggetti di studio dei lavori di Émile

Durkheim ed in particolare del testo qui preso in considerazione. «L’iniziazione è una lunga

serie di cerimonie che hanno lo scopo di introdurre il giovane nella vita religiosa: egli esce,

10 Durkheim É., op. cit., pp. 88-89.

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14

per la prima volta, dal mondo totalmente profano in cui si è svolta la sua prima infanzia per

entrare nell’ambito delle cose sacre»12. Gli appartenenti ad un gruppo o ad un altro vengono non solo trasportati da una sfera all’altra attraverso delle cerimonie e dei rituali, che fanno

parte di quella determinata cultura e che, di conseguenza, sono socialmente accettati e nei

quali si crede fermamente, ma altresì tutto ciò che riguarda queste sfere viene,

automaticamente, collegato ad aggettivi, che possono essere, in una precisa area, positivi, in

un’altra negativi. Infatti, agli individui e agli oggetti in questione viene assegnato un

diverso aggettivo di qualità e, dunque, di valore ma non bisognerebbe dimenticare, per

l’appunto, che si è portati a collocarli e pensarli in questo modo grazie a giudizi, o meglio,

pregiudizi che sembrano appartenere alle cose stesse, ma che dipendono,

fondamentalmente, dalla società con cui si rapportano. Ebbene, ogni società ha le proprie

caratteristiche distintive ed è da queste che derivano anche le regole sociali e morali che la

caratterizzano. La divisione tra sacro e profano è stata, anche dopo Durkheim e grazie alle

sue riflessioni, ripresa, analizzata, studiata ed approfondita anche da autori posteriori come

Roger Caillois (1913-1978) sociologo, critico letterario e scrittore francese, il quale ha

definito la dualità composta da sacro e profano come l’origine e soprattutto, la base

dell’ordine cosmico che viene a riflettersi anche sugli oggetti concreti e materiali. A questo

proposito è bene osservare che, durante le costruzioni di nuove città, per esempio, gli

uomini tendono ad unirsi e ad edificare attorno o vicino ai luoghi di culto.

«Attraverso lo studio della costruzione dello spazio da parte delle società (e dello spazio urbano in particolare), Caillois mette in evidenza come la distinzione tra sacro e profano abbia una funzione ordinatrice cosmica e morale, come stabilisca cioè le coordinate all’interno delle quali si muovono le categorie elementari delle forme di

(15)

15 organizzazione sociale (e anzi da cui queste ultime derivano)»13.

Anche per Caillois è il rapporto tra società e religione ad influenzare e a stabilire quali

siano gli oggetti, gli individui, gli organismi che fanno o meno parte di una delle due sfere e

quale sia il modo per effettuare un cambiamento in tal senso. A tale riguardo i percorsi da

intraprendere per passare da una sfera all’altra comprendono anche due ulteriori categorie:

il tempo e lo spazio.

«La vita religiosa e la vita profana non possono coesistere in uno stesso spazio. Affinché la prima possa svilupparsi, bisogna dunque assicurarle un luogo speciale, da cui l’altra venga esclusa. Da ciò ha origine l’istituzione di templi e santuari: essi rappresentano porzioni di spazio riservato alle cose e agli esseri sacri e che servono loro di dimora esclusiva; perché essi possono stabilirsi sul terreno soltanto a condizione di appropriarsene completamente in un raggio determinato (...) Analogamente, la vita religiosa e la vita profana non possono coesistere nelle medesime unità di tempo. È dunque necessario assegnare alla prima giorni o periodi determinati in cui tutte le occupazioni profane siano bandite. È così che hanno avuto origine le feste»14.

A questo punto si può asserire che, sia nella riflessione di Durkheim che in quella di

Caillois, non esiste nessuna cosa che sia in sé stabilmente profana o sacra.

«Ne risulta subito una conseguenza importante per le nozioni di puro ed impuro: esse appaiono squisitamente mobili, intercambiabili, equivoche. Infatti se una cosa possiede per definizione una natura fissa, una forza, al contrario può essere portatrice di beni o di mali a seconda delle particolari circostanze in cui via via si manifesta. È buona o cattiva non per la sua natura, ma per l’orientamento che assume o le si dà. Perciò non bisogna aspettarsi che le qualifiche di puro e impuro marchino in modo immutabile o esclusivo un certo essere, oggetto o stato a cui si riconosce una certa efficacia religiosa.

13 Ibidem, p. 46.

(16)

16 L’una e l’altra gli sono attribuite di volta in volta, a seconda che quell’efficacia si sviluppi in senso benefico o malefico: prima di allora, le si attanagliano entrambe»15.

(17)

17

III. Il Collège de sociologie: l’idea di sacro in G. Bataille e R. Caillois

Il Collège de sociologie formatosi a partire dal Novembre del 1937 a Parigi, fu un gruppo

di intellettuali che si riunì due volte al mese fino al 193916. Ne fecero parte, tra gli uomini di cultura del tempo, Georges Bataille, filosofo, antropologo e scrittore francese e il già

citato Roger Caillois17. Essi si diedero come scopo l’analisi e la ricerca degli elementi che

assicurano l’esistenza e il perpetrarsi delle società e, sulla scia del pensiero di Durkheim18, arrivarono alla conclusione che l’elemento in questione si trovasse nella dimensione del

sacro19. Diversamente da quest’ultimo, però, essi si concentrarono sulle trasformazioni del sacro nella società a loro contemporanea e non sulle società cosiddette primitive. Infatti, dal

momento che le attività del gruppo ebbero inizio a ridosso dello scoppio della seconda

guerra mondiale sembrò naturale agli appartenenti incanalare le proprie riflessioni verso ciò

che era loro più vicino e che gli avrebbe permesso di comprendere i cambiamenti ai quali

stavano assistendo. Tanto è vero che quest’idea era presente anche nel “manifesto” del

Collège scritto da Bataille, il quale recitava come segue:

«Il Collegio di Sociologia riconosce il proprio ruolo nella valutazione spassionata delle

16 «Sabato, 20 Novembre 1937. Seduta inaugurale delle attività del Collegio di Sociologia che si appropria dei locali in cui, due volte al mese, per due anni accademici, tornerà a riunirsi: il retrobottega delle Galeries du livre, una libreria (cattolica, a quanto pare) che si trovava al 15, rue de Gay-Lussac» Il collegio di sociologia (1937-1939) a cura di D. Hollier, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 91.

17 L’elenco completo di coloro che relazionarono durante le riunioni, oltre i già citati Bataille e Caillois, è il seguente: D. de Rougemont, M. Leiris, A. Kojève, P. Klossowski, A. Lewitzky, R. Guatalla, H. Mayer, J. Paulhan, G. Duthuit.

18 «Siamo comunque concordi nel considerare, al seguito di Durkheim, il fatto sociale come qualcosa di diverso dalla somma delle azioni individuali. Personalmente, nel corso delle varie relazioni che mi è toccato svolgere, ho tentato di rappresentare la società come un campo di forze, di cui possiamo, è vero, reperire in noi l'azione, ma che risultano comunque esterne ai bisogni e alla volontà cosciente di ogni singolo individuo» Bataille G., in D. Hollier, op. cit., p. 195.

19 Rosati descrive il Collège come segue: «Nella loro riflessione il sacro si configura, da una parte, come un sostantivo, cioè come quell'elemento che lega l'individuo alla società facendolo, durkheimianamente, “uscire da se stesso”, come un fattore di convivenza e sociazione; dall'altra, il sacro è un aggettivo più che un sostantivo, indica una relazione, un processo duplice, di attrazione e di repulsione». Rosati M., op. cit, p. 44.

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18 reazioni psicologiche collettive suscitate dall’imminenza della guerra (…) Il Collegio di Sociologia non è un organismo politico. I suoi membri professano le opinioni che vogliono. Né tantomeno si ritiene tenuto a considerare gli interessi particolari della Francia nell’avventura. Il suo ruolo è quello di trarre dagli avvenimenti la lezione che ritiene di doverne trarre, e di farlo prima che sia troppo tardi, cioè prima che ci si persuada del tutto di aver effettivamente mostrato, durante la prova, sangue freddo, dignità e risoluzione. Il Collegio di Sociologia considera l’assenza generale di reazioni vivaci davanti alla guerra come un segno di svirilizzazione dell’individuo. Non esita a vederne la causa nel rilassamento degli attuali legami della società, nella loro quasi inesistenza, dato lo sviluppo dell’individualismo borghese. (…) Il Collegio di Sociologia si è definito essenzialmente come un organo di ricerca e di studio. E continua ad esserlo. Ma, alla sua fondazione, si era riservato la possibilità di essere anche dell’altro, potendo: un focolaio di energie20».

L’obiettivo del Collegio, come esplicitamente affermato da G. Bataille in una della sue

relazioni, è quello di una sociologia sacra, che si differenza da una sociologia religiosa in

quanto:

«La questione della natura della società è nondimeno inerente a ogni scienza sociale e in particolare al campo che abbiamo designato con il termine di sociologia sacra (...) Dovendola definire, si può dire che essa studia non solo le istituzioni religiose ma l’insieme del movimento comuniale della società; in tal senso riconosce fra l’altro come suo oggetto specifico il potere e l’esercito, e prende in considerazione tutte le attività umane- scienze, arti e tecniche- in quanto esse abbiano un valore comuniale nel senso attivo del termine, in quanto esse siano, cioè, creatrici di unità. Tornerò in successive conferenze sul carattere sacro, specifico appunto di tutto ciò che nell’esistenza umana è comuniale»21.

Per Bataille, dunque, come del resto per Durkheim, bisogna prendere in considerazione

tutto ciò che riguarda l’esistenza comune, perché il sacro è intrinsecamente legato alla

20 Ibidem, pp. 57-58.

(19)

19

collettività, è, infatti, un’esperienza immanente alla società. «Fin dall’inizio ho tracciato la

direzione di questo tentativo indicando che il sacro costituiva per me precisamente il fatto

specifico del movimento comuniale della società»22.Nel pensiero di Bataille, essa ha come nucleo centrale il rapporto che intercorre tra le due parti nelle quali il sacro, nell’ottica degli

intellettuali del Collège, viene diviso. Nello specifico per il filosofo francese l’ambivalenza

all’interno del sacro può essere descritta attraverso gli aggettivi di destro e sinistro. Il primo

racchiude l’insieme degli ideali comunitari che contraddistinguono una società, il secondo

racchiude in sé, invece, tutto ciò che crea disgusto e/o sdegno. «In altri termini, l’identità di

una società è data dal modo in cui organizza le due sfere del sacro sinistro e del sacro

destro»23. Allo stesso modo, considerato il sacro il nocciolo della società, Bataille non può che considerare la religione come lo strumento attraverso il quale essa stessa non può che

autoregolarsi e trasformarsi. «Ogni religione è stata modificata proprio da quella insensata e

angosciosa vita che alla religione è ricorsa per trasformarsi. La religione è stata solo capace

di introdurre delle regole morali che frenassero in qualche modo lo scempio che l’uomo fa

dell’universo»24. La religione è il catalizzatore di questa enorme forza che è il sacro, il quale, essendo incommensurabile per l’individuo in sé, riesce ad essere filtrato e a filtrare le

pulsioni umane attraverso regole di condotta e credenze che proiettano il sacro fuori

dall’ambito umano, creando con esso un legame, che permetta all’uomo di usufruirne e

trarne benefici.

«Il sacro (...) è come luogo di raccolta di ciò che è sfuggito alla ragione, è l’invisibile. L’immanenza, rappresentata dal sacro, è il primo tentativo di dominio dell’invisibile inafferrabile. La morte, invisibile, è sacra e la vita, poiché viene rappresentata nelle

22 Ibidem, p. 101.

23 Rosati M., op. cit., p. 45.

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20 concatenazioni delle opere utili, fa parte del mondo visibile e profano»25.

Pertanto, come si è visto, sacro e profano non possono essere separati del tutto, soprattutto

nell’ambiente del Collège. Nella riflessione di Caillois, invero, le nozioni antagoniste

facenti parte del concetto di sacro hanno un loro importante spazio, poiché, secondo

l’autore, solo la reintroduzione del sacro potrebbe dare un freno all’autodistruzione verso la

quale sta tendendo la modernità. «Il sacro e il profano disegnano, secondo Caillois, una

vera e propria "geografia sociale del puro e dell’impuro", ma i confini di questa mappa

sociale sono mobili, non fissati una volta per tutte, sono cioè reversibili»26.È, allora, la lotta tra le due tendenze che costituiscono il sacro a mantenere l’ordine del mondo e questa

dualità, questo bilanciamento delle forze che animano il cosmo è manifesto in modo

analogo, anche ed in modo eminente, nelle fratrie27:

«Ciascuna metà della società corrisponde a una delle due serie complementari la cui unione mantiene e conserva l’esistenza dell’universo organizzato. Essa deve vigilare sulla conservazione e l’integrità della serie che rappresenta e tenerla sempre a disposizione della frazione sociale in cui si incarna l’altra serie e che, per questo motivo, ha bisogno per sussistere della presenza della prima. Si presume che gli esseri o le cose che rientrano in una stessa classe mistica abbiano in comune una sorta di identità sostanziale. I membri del clan hanno tra di loro, con il loro totem, con tutto ciò che è sistemato sotto la sua rubrica, una fraternità che, mentre non coincide con loro, pesa però sugli altri legami»28.

Dunque è grazie all’alternanza e al predominio di uno dei due aspetti del sacro sull’altro

che è possibile mantenere la stabilità del mondo. Ma in che modo è possibile ciò? «È

25 Ibidem, p. 12.

26 Rosati M., op. cit., pp. 45-46.

27 «Si chiama fratria un gruppo di clan uniti tra loro da vincoli particolari di fratellanza. Normalmente, una tribù australiana è divisa in due fratrie, tra cui sono ripartiti i diversi clan» Durkheim É., op. cit., p. 160. 28 Caillois R., L’uomo e il sacro, op. cit., p. 65.

(21)

21

merito di Durkheim aver riconosciuto che le feste, a fronte dei giorni lavorativi, gettano una

luce decisiva sulla distinzione tra sacro e profano»29. Secondo Caillois, l’attenzione va innanzitutto posta sulle interdizioni, o meglio, sull’alternanza tra i periodi nei quali esse

valgono e quando non valgono più (nei periodi di festa tutto ciò che non era permesso lo

diviene)30.

«Insieme, e per le stesse ragioni, incubo e paradiso, l’età primigenia appare proprio come il periodo e lo stato di forza creativa da cui è uscito il mondo presente, soggetto alle vicissitudini del logorio e minacciato dalla morte. Rinascendo e ritemprandosi in quell’eternità sempre attuale come in una fontana della giovinezza dalle acque sempre vive, il mondo ha dunque la possibilità di ringiovanire e di ritrovare la pienezza di vita e di forza che gli permetterà di affrontare il tempo di un nuovo ciclo. Tale è la funzione della festa»31.

Il tempo di festa, però, osserva Caillois, non è più quello a cui, sappiamo, erano abituati gli

antichi. Nella modernità, la festa coincide, precisamente, con la vacanza. Tuttavia, essa non

può soddisfare completamente la necessità dell’intera comunità di manifestare liberamente i

sentimenti che le regole sociali le impongono di reprimere, poiché è compressa in un arco

di tempo controllato, stabilito e soprattutto ristretto. Il quale, secondo Caillois, non è

sufficiente a fare in modo che il sacro, essendo una forza sociale indistinta che ha bisogno

di questo periodo per rigenerarsi, ci riesca.

«Tuttavia fin dai primi passi della civiltà, con l’inizio della divisione del lavoro, e ancor più con la nascita delle città e dello Stato, le feste perdono la loro importanza. Sempre meno presentano l’ampiezza, il carattere totale che facevano delle antiche

29 Ibidem, p. 91.

30 Per un’analogia tra guerra e festa rimando a Caillois R., Guerra e Sacro in L’uomo e il sacro, op. cit., p. 157 e seguenti.

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22 effervescenze una sospensione completa del gioco delle istituzioni e un’integrale messa in questione dell’ordine universale. Una società più complessa non può tollerare nel suo funzionamento una simile soluzione di continuità. Si assiste allora al progressivo abbandono dell’alternarsi delle fasi di atonia e di parossismo, di dispersione e di concentrazione, di attività regolata o sregolata, che scandisce lo sviluppo nel tempo di una vita collettiva meno differenziata. Si può interrompere il lavoro privato, ma i servizi pubblici non sopportano nessuna pausa. Un disordine generale non è più consentito: al massimo se ne tollera il simulacro»32.

La festa, sacro di dissoluzione, è, dunque, il periodo di rigenerazione delle forze, sia

umano, che conseguentemente del mondo in sé. «È in questi casi che il sacro di coesione si

contrappone al sacro di dissoluzione. Il primo conserva e fa durare l’universo profano; il

secondo lo minaccia, lo scuote, ma lo rinnova e lo salva da un lento deperimento»33. Tuttavia, la genesi che ha subito la festa in sé, o meglio, il modo di intenderla e viverla

nelle società complesse, ha fatto sì che non si potesse più dedicare uno spazio di tempo

enorme a questi periodi portando il sacro ad avere uno spazio sempre più interiore

all’individuo, lasciandone l’amministrazione e l’occupazione ad un numero ristretto di

persone.

«Le molteplici necessità della vita profana tollerano sempre meno che tutti dedichino al sacro contemporaneamente gli stessi istanti. Così il sacro si sbriciola, diventa faccenda di una setta che conduce un’esistenza semiclandestina o, nel migliore dei casi, di un gruppo che celebra i propri riti in disparte, che può restare ancora a lungo ufficiale o ufficioso, ma il cui divorzio dal corpo dello Stato sarà sancito prima o poi dalla separazione tra spirituale e temporale. A questo punto la Chiesa non coincide più con la Città, né le frontiere religiose con quelle nazionali»34.

32 Ibidem, p. 122. 33 Ibidem, p. 119. 34 Ibidem, pp. 122-123.

(23)

23

Nell’opinione di Caillois i risvolti e le conseguenze di questa trasformazione del periodo di

festa sembrano avere effetti sia sulla società sia sul modo di vivere ed intendere il sacro.

Infatti, la religiosità viene vissuta, in questo contesto, da parte dell’individuo non più come

esperienza collettiva, bensì individuale ed interiore che lo porta lentamente all’isolamento.

«Ben presto la religione dipende dall’uomo e non più dalla collettività; è universalista, ma anche, parallelamente, personalista. Tende ad isolare l’individuo in modo da lasciarlo solo di fronte a un dio che egli conosce non più grazie ai riti, ma a un’intima effusione da creatura a creatore. Il sacro diventa interiore e ormai interessa soltanto l’anima. Si vede crescere l’importanza della mistica e diminuire quella del culto»35.

Perché, dunque, la festa continua ad avere la stessa importanza? La risposta che

sembra trovare spazio nella riflessione dell’intellettuale francese è che l’uomo sente

ed ha un bisogno naturale di liberare le sue pulsioni senza temere di ricadere in

sanzioni, tanto è vero che:

«È evidente che la festa, essendo un tale parossismo di vita e contrapponendosi così radicalmente alle piccole incombenze dell’esistenza quotidiana, appaia all’individuo quasi un altro mondo, in cui egli si sente sostenuto e trasformato da forze che lo travolgono. L’attività giornaliera- raccolta, caccia, pesca o allevamento-semplicemente occupa il suo tempo e provvede ai suoi bisogni immediati. Certo, egli vi si dedica con attenzione, pazienza, abilità, ma vive a un livello più profondo nel ricordo di una festa nell’attesa di un’altra, giacché per lui, per la sua memoria e per il suo desiderio, la festa rappresenta il tempo delle emozioni intense e della metamorfosi del suo essere»36.

Anche se il sacro viene relegato in momenti determinati ed associato a gruppi ristretti esso,

secondo Caillois, non smette di insinuarsi in altri modi in aspetti differenti della società

35 Ibidem, p. 123. 36 Ibidem, p. 90.

(24)

24

moderna. Pur cambiando forma e modi di presentazione/rappresentazione il sacro si ritrova

anche in altri ambiti della vita dell’individuo, che non concernono soltanto la religione.

Tanto è vero che, in questo processo di trasformazione rimangono presenti la dedizione, il

sacrificio, l’adorazione proprie di una religione (intendiamo qui riferirci a tutte quelle che presentano una serie di culti e “dogmi” stabiliti) ma che riguardano altre categorie come

l’etica, per esempio ed altri valori/dei/cose ai quali dedicarsi in toto.

«È certo, d’altra parte, che queste nuove condizioni del sacro lo hanno indotto a presentarsi sotto nuove forme: invade l’etica, trasforma in valori assoluti nozioni come quelle di onestà, fedeltà, giustizia, rispetto della verità o della parola data. In fondo, tutto accade come se, per rendere sacri un oggetto, una causa o un essere, fosse sufficiente considerarli dei fini supremi e consacrare loro la propria vita, dedicare loro cioè il proprio tempo e le proprie forze, i propri interessi e le proprie ambizioni, sacrificare loro, all’occorrenza, la propria esistenza»37.

Tale conversione non può non avere conseguenze anche sul rapporto sacro e profano e sullo

scopo che, nella riflessione di Caillois, essi hanno rispetto all’ordine del mondo, al suo

mantenimento e alla sua rigenerazione, infatti, conseguenza di ciò è la distruzione di questi

aspetti.

«(…) In questi casi, la ripartizione tra il sacro e il profano non risulta più legata all’idea dell’ordine del mondo, al ritmo del suo invecchiamento e della sua rigenerazione, all’opposizione tra le cose, neutre e inerti, e le energie che le ravvivano o le distruggono, concedono o sottraggono loro l’essere. Niente di tutto ciò è sopravvissuto a quelle trasformazioni della vita sociale che hanno provocato la crescente indipendenza dell’individuo, liberandolo da ogni costrizione fisica e offrendogli delle garanzie contro le altre costrizioni»38.

37 Ibidem, p. 125. 38 Ibidem, p. 125.

(25)

25

Dunque, come può, Caillois, affermare che il sacro continua a sussistere anche in altri aspetti della società? Se si “spoglia” il sacro del suo (apparente) indissolubile legame con

una religione (intesa qui come religione positiva), per l’autore esso si può trovare e sembra

essere, nella versione di base, tutto ciò che incute rispetto e che riesce ad essere stimolo e

forza sia per quanto riguarda il singolo, che la comunità e grazie al quale, qualunque sia il

valore assoluto al quale ci si dedichi e ci si subordini, la società riesce a trovare slancio e nuova “linfa vitale”, infatti:

«Tuttavia il sacro sussiste nella misura in cui questa liberazione è incompleta, ossia ogni volta che qualche valore si impone come ragione di vita a una comunità, e persino a un individuo, giacché allora quel valore si rivela immediatamente fonte di energia e focolaio contagioso. Il sacro resta quindi ciò che induce rispetto, timore e fiducia. Infonde forza, ma impegna l’esistenza»39.

(26)

26

IV. Il mito in R. Caillois ed il rito in É. Durkheim

Sia gli intellettuali del Collège sia Durkheim hanno dovuto affrontare, nel corso dei loro

studi sul sacro, il rapporto che questa categoria ha con quelle del mito e del rito ad essa

collegate. Caillois dedica un intero libro alla questione, dal titolo Il mito e l’uomo, nel quale

sia il mito che il rito vengono concepiti e descritti come intrinsecamente legati, poiché

l’uno aiuta l’altro a sopravvivere. Secondo questa concezione i riti permettono, attraverso la

loro pratica, il mantenimento e il rinvigorimento delle credenze, in altre parole, dei miti.

«Il rito realizza il mito e permette di viverlo. Proprio per questo li si trova così spesso legati: in verità, la loro unione è indissolubile e, di fatto, il loro divorzio è sempre stato la causa della loro decadenza. Separato dal rito, il mito perde se non la sua ragion d’essere, almeno il meglio della sua forza di esaltazione: la sua capacità di essere vissuto»40.

Secondo Caillois questo legame deve essere messo in relazione, in maniera imprescindibile,

con la collettività e di conseguenza con il sociale e la società. È per quest’ultima, infatti,

che il mito esiste, anzi è grazie a quest’ultima che esiste. Ma cosa spinge un individuo a

credere al mito? Da dove arriva lo stimolo morale che lo spinge a tenere un comportamento

rispetto ad un altro?

«Il carattere collettivo della immaginazione mitica garantisce abbastanza che essa sia di sostanza sociale, esistendo grazie alla società e in suo favore. Certo, è questo il suo essere proprio, questa la sua funzione specifica. Ma la sua innervazione, per così dire, è di essenza affettiva e rinvia ai conflitti primordiali suscitati qua e là dalle leggi della vita elementare. Il mito rappresenta alla coscienza un’immagine di un comportamento

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27 di cui essa avverte la sollecitazione»41.

Questo impulso, nell’ottica dell’autore per la quale lo scopo del sacro e della sua

amministrazione è il mantenimento dell’ordine cosmico, viene “gestito” attraverso i

momenti di festa e gli interdetti ad esse collegati, di cui si è già avuto modo di parlare.

«La società e la natura si devono fondare sul mantenimento di un ordine universale, protetto da molteplici divieti che assicurano l’integrità delle istituzioni e la regolarità dei fenomeni. Tutto ciò che sembra garantire la loro integrità, la loro stabilità, è considerato santo; tutto ciò che sembra comprometterla, sacrilego. La mescolanza e l’eccesso, l’innovazione e il cambiamento sono temuti allo stesso modo. Si presentano come elementi di logorio o di rovina. I vari tipi di riti tendono a espiarli, ossia a restaurare l’ordine che hanno turbato e ad accoglierli anch’essi in quell’ordine, neutralizzandone la forza pericolosa, la virulenza già manifesta nella loro intrusione, nella loro eruzione in un mondo che cerca soltanto di preservare nel proprio essere, e che rassicura soltanto in quanto immobile»42.

È, soprattutto, l’ambiguità del sacro ad avere le maggiori conseguenze, poiché non

essendoci uno schema fisso di cose che appartengono o meno a questa categoria tutto può,

in potenza, diventare o meno tale: oggetti, persone, organismi. In tal modo bisogna sempre

riequilibrare le forze che permettono l’ordine sociale per evitare che una prevarichi

sull’altra.

«La mitologia contrappone spesso, in una forma o nell’altra, questi elementi antitetici del sacro, che sembrano raffigurare l’uno la tentazione della passività, l’altro quello dell’attività. Tale appare, per esempio, la distinzione che fanno i Canachi tra totem e dei. I primi sono regolatori della vita. Per compiacerli si rispettano gli interdetti e ci si piega a una disciplina necessaria. (…) In un certo senso, i totem sono i guardiani delle

41 Ibidem, p. 47.

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28 regole e delle limitazioni che gli dei spingono a trasgredire (…) L’antagonismo mitico corrisponde a un antagonismo sessuale e sociale»43.

Dunque i riti, sia quelli positivi che quelli negativi, permettono l’introduzione in una o

nell’altra sfera, per tale ragione l’autore di tale opera dà molta importanza alle interdizioni,

ai tabù, al sacrificio e all’ascetismo, che permettono il mantenimento di tale ordine.

«Data l’ambiguità fondamentale del sacro, occorre vedere in che modo esso si contrapponga nel suo insieme al mondo profano. Ci si avvede subito che essa si sovrappone ad altre partizioni, ad altre dicotomie: quelle di gruppi o di principi ugualmente complementari e opposti, la cui opposizione e collaborazione (la

concordia discors) permette il funzionamento stesso del gruppo sociale. Tale appare,

ad esempio, la coppia formata dalle fratrie nelle società a potere diffuso, dal principe e dalla massa nelle società a potere concentrato»44.

Le fratrie sono tra loro contrapposte, tutto ciò che è permesso ad una, non lo è all’altra e

grazie anche agli interdetti sociali, un esempio può essere quello dell’incesto, un atto che

compromette, non semplicemente l’organizzazione della comunità, ma ad un livello più

alto, quella del mondo intero, riesce a mantenere l’ordine.

«Le fratrie formano un sistema. Esse possiedono in proprio e rappresentano virtù complementari che collaborano e si contrappongono. Ognuna assume funzioni ben definite, partecipa di un principio preciso, si trova associata in modo permanente a una direzione dello spazio, a una stagione dell’anno, a uno degli elementi naturali che sembrano costituirla. Direzioni, stagioni ed elementi che sono sempre antagonistici. La personalità di ogni fratria è incarnata dal suo totem. Esso fa riferimento a uno degli aspetti cosmici fondamentali, sia direttamente, come in genere avviene nell’America del Nord, sia con la mediazione di un animale che ne fornisce un comodo emblema,

43 Ibidem, p. 120. 44 Ibidem, p. 53.

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29 come accade più spesso in Australia»45.

Anche nella riflessione di Durkheim i riti, in special modo quelli di passaggio46, servono alle religioni per mantenere, rafforzare ed incrementare il loro potere, la loro influenza e, di

conseguenza, la coesione sociale che ne deriva. Essi hanno, quindi, un ruolo fondante e

fondamentale. Ma come si fa a riconoscere un rito? Quali sono le sue caratteristiche?

Nell’opinione del sociologo francese, il rito si riconosce dalla sua connessione con l’ambito

del sacro e con l’interdizione ad esso connessa, dividendosi, in relazione al rapporto che ha

con ognuna di esse in: culto negativo e culto positivo.

«Ogni culto presenta un duplice aspetto: l’uno negativo, l’altro positivo. Certamente, nella realtà, le due specie di riti che denominiamo in questo modo sono strettamente associate; e vedremo che si presuppongono reciprocamente. Ma non cessano di essere diverse e, non fosse altro che per comprenderne i rapporti, è perciò necessario distinguerle»47.

Con la prima accezione, ci si riferisce a tutti quei riti che prescrivono l’astensione, sia essa

il non toccare un determinato oggetto (interdizioni di contatto), non mangiare uno specifico

animale se è considerato sacro, o al contrario, considerarlo profano e quindi adatto a

determinate categorie considerate tali, come le donne. Infatti, a queste ultime, per esempio,

in alcuni casi, è proibito anche posare lo sguardo sulle cose sacre, se non da lontano, stessa

cosa vale anche per la parola, ai profani è proibito rivolgerla a coloro i quali vengono

considerati sacri. Tali interdizioni non riguardano solamente i comportamenti da evitare,

ma anche luoghi e tempi. «L’interdizione religiosa implica necessariamente la nozione del

45 Ibidem, pp. 58-59.

46 Sotto tale definizione vanno considerati i riti di iniziazione, preghiera, purificazione. 47 Durkheim É., op. cit., p. 359.

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30

sacro; essa deriva dal rispetto che l’oggetto sacro ispira, e ha il fine di impedire che si

manchi a questo rispetto»48. Ma se il culto negativo ha come caratteristica peculiare quella di proibire, dunque, di rendere inattivo il soggetto, qual è il suo fine? Non potrà essere,

unicamente, la sottomissione dell’individuo a proibizioni precise che non hanno nessun

risvolto positivo sulla sua persona. Anche perché non è così semplice allontanare gli

uomini che, naturalmente, fanno parte del mondo profano per portarli nella sfera del sacro,

soprattutto perché questi riti ai quali si sottopongono sono altresì dolorosi, sia in generale

che per una specifica parte del corpo, ossia quella che si crede il rito abbia la capacità di

rafforzare e alla quale si pensa dia maggiore vitalità.

«Il culto negativo è quindi, in un certo senso, un mezzo in vista di un fine: esso è la condizione per accedere al culto positivo. Non si limita a proteggere gli esseri sacri contro i contatti volgari; agisce sul fedele di cui modifica positivamente lo stato. L’uomo che è sottomesso alle interdizioni prescritte non rimane quello che era prima. Prima, era un essere comune che, per questa ragione, era obbligato a restare a distanza dalle forze religiose. Dopo, è più vicino al loro livello; infatti egli si è avvicinato al sacro per il solo fatto di essersi allontanato dal profano; è diventato più puro e più santo in quanto si è distaccato dalle cose basse e volgari che appesantivano la sua natura»49.

Il culto negativo, però, è incompleto se ad esso non si affianca il culto positivo. Tale culto,

invece, vede attivamente protagonista l’individuo che può, sempre secondo le leggi della

comunità a cui si rapporta, parteciparvi ed in tal modo rafforzare, attraverso, soprattutto,

l’istituzione del sacrificio50, per esempio, il potere del suo totem51.

48 Ibidem, p. 361. 49 Ibidem, p. 369.

50 Rimando al paragrafo Il sacrificio di questo testo per una trattazione più approfondita.

51 Come si è già avuto modo di dire, le tribù australiane sono state oggetto del lavoro di Durkheim preso in esame.

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31 «Qualsiasi importanza rivesta il culto negativo e per quanto produca indirettamente effetti positivi, non ha la propria ragion d’essere in sé; introduce alla vita religiosa, ma la presuppone più che costituirla. Se prescrive al fedele di fuggire il mondo profano, è per accostarlo al mondo sacro. L’uomo non ha mai pensato che i suoi doveri verso le forze religiose potessero ridursi a una semplice astensione da ogni rapporto, e ha invece sempre considerato di avere con esse rapporti positivi e bilaterali che un insieme di pratiche rituali ha la funzione di regolare e di organizzare. A questo particolare sistema di riti diamo il nome di culto positivo»52.

Per Durkheim non solamente i riti, ma anche le credenze sono parte integrante delle

religioni e delle loro forme elementari:

«Benché, in linea di principio, il culto derivi dalle credenze, esso reagisce su queste; il mito si modella spesso sul rito allo scopo di renderne conto, soprattutto quando il senso non è o non è più apparente. Inversamente, vi sono credenze che si manifestano chiaramente soltanto attraverso i riti che le esprimono»53.

Il ruolo del mito è, dunque, posteriore a quello del rito, poiché serve solo ad interpretarlo e

a rendere accettabili quelle che sono le tradizioni delle cerimonie rituali, tanto è vero che:

«Per quanto riguarda i miti, soltanto procedendo secondo un metodo critico piuttosto sommario si può attribuire loro tanto facilmente un valore di documenti storici. In genere, essi hanno lo scopo di interpretare i riti piuttosto che di commemorare eventi passati; sono una spiegazione del presente molto più che una storia»54.

52 Durkheim É., op. cit., p. 387. 53 Ibidem, p. 153.

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32

V. La religione totemica e l’idea di mana nell’interpretazione di É. Durkheim

Oggetto di Le forme elementari della vita religiosa di Durkheim è la religione totemica.

Tale religione ha come caratteristica distintiva, che può essere già desunta dal nome con il

quale viene designata, la costruzione e la regolamentazione della vita sui totem da parte dei

diversi clan. I totem sono animali, piante ed in alcuni casi, anche persone, le quali, secondo

determinati usi e miti, meritano deferenza e rispetto e sono considerati sacri, ma non solo:

«(…) il totem non è solo un nome o un emblema. È durante le cerimonie religiose che il totem, nel momento in cui rappresenta un’etichetta collettiva, assume un carattere religioso. Le cose, infatti, vengono classificate in sacre e profane in rapporto a lui. Egli è il tipo stesso delle cose sacre»55.

Dunque il totem è anche e soprattutto, durante i rituali, una rappresentazione collettiva ed è

proprio per questo che, secondo Durkheim, è possibile trovare nelle cerimonie rituali di

questa religione le fondamenta di tutte le altre. Le basi sociali di ogni religione possono

trovarsi in essa poiché essa stessa è il primigenio esempio di rappresentazione simbolica,

che permette la tenuta sociale. Il clan è un micro-gruppo sociale, formato da individui che

credono di discendere dallo stesso totem, che può essere un animale mitico nello specifico,

ma la cui specie continua ad esistere nella realtà. Sia il totem mitico nello specifico che la

specie alla quale appartiene vengono considerati sacri alla stessa stregua, tanto è vero che

esistono delle proibizioni alimentari sul consumo della carne di animali appartenenti a

questa precisa specie.

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33 «Alla base delle tribù australiane, troviamo un gruppo che occupa nella vita collettiva un posto preponderante: si tratta del clan. (...) Gli individui che lo compongono si considerano uniti da un legame di parentela, che è però di natura molto particolare. Questa parentela non deriva dal fatto che essi abbiano tra loro relazioni definite di consanguineità; essi sono parenti per il solo fatto di portare uno stesso nome. (...) Il nome che esso porta è anche quello di una specie determinata di cose materiali con cui crede di avere rapporti particolari (...) si tratta comunque di rapporti di parentela»56.

Come già detto pure gli appartenenti al clan possono essere considerati sacri e con essi

anche gli oggetti, o meglio, nello specifico, gli strumenti utilizzati durante i cerimoniali.

«Le immagini totemiche non sono però le sole cose sacre. Esistono esseri reali che sono,

anch’essi, oggetti di riti in virtù del loro rapporto con il totem: si tratta, in primo luogo,

degli esseri della specie totemica e dei membri del clan»57. Si è abituati a pensare che

l’essere umano, le cose, le piante facciano parte del mondo profano, ma si deve tener

presente che il modo in cui si percepisce, si categorizza il reale dipende dalla cultura alla

quale si appartiene, infatti:

«Noi siamo inclini, per tutto un insieme di abitudini acquisite e per la forza stessa del linguaggio, a considerare l’uomo comune, il semplice fedele, come un essere essenzialmente profano. Potrebbe benissimo darsi che questa concezione non fosse vera alla lettera in alcuna religione; in ogni caso, non si applica al totemismo. Ogni membro del clan è investito di un carattere sacro che non è significativamente inferiore a quello riconosciuto all’animale. La ragione di questa santità personale è che l’uomo crede di essere, insieme a uomo nel senso abituale della parola, un animale o una pianta della specie totemica. Infatti, egli ne porta il nome, e si ritiene che l’identità del nome implichi l’identità della natura»58.

56 Ibidem, p. 154. 57 Ibidem, p. 181. 58 Ibidem, p. 187.

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Il totem acquisisce agli occhi dell’indigeno una sacralità, un rimando a qualcos’altro che

non fa parte del mondo profano/terrestre, che lo proietta in una dimensione che è al di là del

mondo che gli appartiene, ma che su di esso, se non viene rispettato, scatena la sua ira. Ma

da dove derivano queste credenze? Quali sono i motivi che portano una determinata fratria

a scegliere un determinato animale come proprio totem? Come vengono utilizzati? Quali

sono i loro usi durante i rituali e quali sono i divieti ad essi collegati? Qual è il potere che

ad essi viene assegnato dal soggetto e in che cosa consiste?

«Poiché tutte queste cose sono sacre allo stesso titolo, per quanto non in eguale misura, il loro carattere religioso non può derivare da alcuno degli attributi particolari che le distinguono le une dalle altre. Se una certa specie animale o vegetale è oggetto di un timore reverenziale, ciò non avviene in ragione delle sue proprietà specifiche, perché i membri umani del clan godono, sia pure a un grado leggermente inferiore, dello stesso privilegio, e perché la semplice immagine59 di queste piante o di questo animale ispira un rispetto ancora più profondo. I sentimenti simili che queste diverse specie di cose risvegliano nella coscienza del fedele e che costituiscono la loro natura sacra possono evidentemente derivare solamente da un principio che sia comune indistintamente a tutte, agli emblemi totemici come ai membri del clan e agli individui della specie che serve da totem. È a questo principio comune che si rivolge, in realtà, il culto. In altri termini, il totemismo è la religione non già di certi animali, o di certi uomini, o di certe immagini, ma di una forza anonima e impersonale, che si trova in ciascuno di questi esseri, senza per altro confondersi con alcuno di essi. Nessuno la possiede interamente e tutti vi partecipano»60.

È questo principio invisibile che invade tutti gli oggetti e le cose sacre, che li rende tali, che

infonde la sua forza. Per definirlo si potrebbe impiegare un termine usato dalle popolazioni

della Melanesia e della Polinesia61, ossia mana. Esso indica la forza, l’energia spirituale che

59 Si rimanda al paragrafo La venerazione dell’immagine per una trattazione approfondita dell’argomento. 60 Durkheim É., op. cit., pp. 245-246.

61 Sono due delle quattro regioni, insieme alla Micronesia e all’Australia e Nuova Zelanda, a formare l’Oceania.

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gli abitanti di queste regioni credono possa appartenere, per un periodo di tempo

determinato, sia ad oggetti che a persone, che li precede e non ha nessun luogo preciso di

residenza. «In altre parole, il wakan (perché di questo si tratta) va e viene attraverso il

mondo, e le cose sacre sono i punti in cui si è posato»62. Questa idea non trova riscontro solamente nelle tribù della Melanesia, ma anche in altre, un esempio, ne sono infatti, il

wakan dei sioux e l’orenda degli irochesi, come mostra Durkheim nelle sue pagine.

«In alcune isole della Melanesia (…) si ritrova, sotto il nome di mana, una nozione che è l’equivalente esatto del wakan dei sioux e dell’orenda degli irochesi. Ecco la definizione che ne dà Codrington:

I melanesiani credono nell’esistenza di una forza assolutamente distinta da ogni forza materiale, che agisce in tutte le maniere, sia per il bene sia per il male, e che l’uomo ha grande interesse a mettere sotto il suo potere e a dominare. Si tratta del mana. Io credo di comprendere il senso che ha questa parola per gli indigeni (…) È una forza, una influenza di ordine immateriale e, in un certo senso, soprannaturale; ma è attraverso la forza fisica che essa si rivela, oppure mediante ogni specie di potere o di superiorità che l’uomo possiede. Il mana non è affatto fissato su un oggetto determinato; può essere indirizzato verso ogni specie di cose (…). Tutta la religione del melanesiano consiste nel procurarsi del mana sia per trarne egli stesso profitto, sia per avvantaggiarne altri. Non è forse la stessa nozione di forza anonima e diffusa di cui scoprivamo il germe nel totemismo australiano?»63.

Questa forza dunque si insinua in ogni cosa trasformandola in sacra. Per quanto riguarda le

tribù australiane, essa è, infatti, una qualità specifica degli oggetti usati durante le cerimonie

religiose. A questi oggetti viene riservato un particolare trattamento, il quale consiste, tra le

altre cose, anche nel racchiuderli tutti insieme in un luogo preposto, considerato anch’esso

sacro.

62 Durkheim É., op. cit., p. 257. 63 Ibidem, pp. 251-252.

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36 «Le tribù dell’Australia centrale, soprattutto gli arunta, i loritjia, i katish, gli unmatjera, gli ilpirra, si servono sempre nei loro riti di certi strumenti che, presso gli arunta, sono chiamati, secondo Spencer e Gillen, churinga, oppure, secondo Strehlow, tjurunga. Si tratta di pezzi di legno o di pietra liscia, di forma molto varia, ma generalmente ovali o allungati. Ogni gruppo totemico ne possiede una collezione più o meno importante. Orbene, su ognuno di essi è impresso un disegno che rappresenta il totem di questo

stesso gruppo. (…) Ogni churinga64, infatti, quale che sia lo scopo per cui è adoperato, figura tra le cose più eminentemente sacre, e non ve ne è alcuna che lo superi per dignità religiosa»65.

64 Si rimanda al paragrafo Oggetti sacri: feticci e simulacri di questo testo per un approfondimento. 65 Durkheim É., op. cit., pp. 171-172.

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VI. Il mana secondo le analisi e le ricerche di M. Mauss

Marcel Mauss (1872-1950) antropologo, storico delle religioni e sociologo francese,

nonché nipote di É. Durkheim, studiò e scrisse durante la sua vita diverse opere su temi

quali il dono, il sacrificio e la magia. Una parte importante, se non fondamentale e filo

conduttore della sua riflessione su questi tre argomenti fu l’idea di mana. Tale concetto non

viene, semplicemente, da Mauss messo in relazione con il sacro, infatti, ampliando rispetto

allo zio la cerchia di cose ad esso collegate, egli lo considera il fondamento del pensiero

magico, dei rapporti sociali e delle gerarchie presenti nelle comunità. Bisognerebbe, però,

per prima cosa, capire cosa sia esattamente il mana, nello specifico per Mauss, che nel suo

Teoria generale della magia lo descrive come segue:

«Il mana è, innanzitutto, un’azione di un certo tipo, cioè l’azione spirituale a distanza, che ha luogo tra esseri simpatici. È parimenti una specie di etere, imponderabile, comunicabile, e che si diffonde da se stesso. Il mana è, inoltre, un ambiente o, più esattamente, agisce in un ambiente che è mana. È una specie di mondo interno e speciale, in cui tutto avviene come se solo il mana fosse in gioco. È il mana del mago che agisce attraverso il mana del rito sul mana del tindalo, il che dà impulso ad altri

mana, e così via. In queste azioni e reazioni non entrano altre forze ad eccezione del mana. Esse si producono come in un cerchio chiuso in cui tutto è mana e che è, esso

stesso, necessariamente il mana, se così si può dire»66.

Dunque il mana così descritto è quella forza, secondo Mauss, il minimo comune

denominatore tra religione, magia e gerarchia. Tanto è vero che, osserva l’autore:

«La situazione eccezionale degli individui che hanno nella società una autorità particolare può farne, all’occasione dei maghi. In Australia, presso gli Arunta, il capo

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38 del gruppo locale totemico, il suo maestro di cerimonie, è, nello stesso tempo, stregone. Nella Nuova Guinea non esistono uomini influenti ad eccezione dei maghi; è da credere che, in tutta la Melanesia, essendo il capo un individuo dotato di mana, cioè di una potenza spirituale, in relazione con gli spiriti, abbia poteri sia magici che religiosi»67.

Ma in che modo può il mana influenzare le gerarchie e i rapporti di potere? A questo

proposito lo studioso dedicò un’intera opera al rito del dono68 dove tale scambio,

apparentemente privo di significati profondi, viene descritto e definito da Mauss un fatto

sociale totale, che permetterebbe la costruzione e il consolidamento di rapporti e relazioni.

«Inoltre, ciò che essi si scambiano non consiste esclusivamente in beni e ricchezze, in mobili e in immobili, in cose utili economicamente. Si tratta, prima di tutto, di cortesie, di banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste, di fiere, di cui la contrattazione è solo un momento e in cui la circolazione delle ricchezze è solo uno dei termini di un contratto molto più generale e molto più durevole. Queste prestazioni e contro-prestazioni si intrecciano sotto una forma, a preferenza volontaria, con doni e regali, benché esse siano, in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di una guerra privata o pubblica. Abbiamo proposto di chiamare tutto questo il sistema

delle prestazioni totali»69.

Il campo di influenza del mana non si estende semplicemente alle cose, dunque, ma anche

ai comportamenti, agli scambi di potere e alle dimostrazioni di forza e di egemonia dei

clan. Il mana, secondo Mauss, permea diversi livelli della vita sociale invadendo ed

influenzando anche le relazioni che compongono la vita di ogni individuo del clan e in

generale del clan stesso.

67 Mauss M., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965, p. 25.

68 Saggio sul dono. Pubblicato per la prima volta sull’«Année sociologique», serie II, 1923-1924. 69 Mauss M., Saggio sul dono in Teoria generale della magia e altri saggi, op. cit., p. 161.

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