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L’identità dell’impresa sociale: dal servizio all’impresa

Elisa Chiaf

volontariato 1.649.216.820 399.834.477 2.049.051.297 80,5 Cooperazione e solidarietà

3.6 L’identità dell’impresa sociale: dal servizio all’impresa

Per rappresentare il valore dell’impresa sociale, come si è visto, è necessario considerare, oltre ai dati oggett ivi su numerosità, entrate, numero dipendenti, anche il contenuto del suo operato, il suo ruolo per il benessere di una comunità. A ciò si aggiunga la funzione che hanno oggi le imprese sociali nel dare risposta alla collett ività e, nello specifi co, ai più vulnerabili. Nella rifl essione sull’impresa sociale, quindi, il focus sui servizi è quasi immediato e naturale. Tutt avia, mentre è ovvio che quando si guarda ad un’impresa in generale la si valuti per quello che “fa”, nel caso delle imprese sociali è necessario andare oltre il contenuto dell’operare e la mission esplicita per concentrarsi sull’identità imprenditoriale di questa forma organizzativa.

Questa rifl essione è nata durante un seminario in cui moderavo un tavolo di lavoro tra dirigenti della Pubblica Amministrazione (un Comune capoluogo di provincia con un sistema di welfare ben strutturato) e rappresentanti di impre- se sociali che con quel Comune operavano, in ott ica di co-programmazione e co-progett azione dei servizi. Riferendomi ad un servizio sul territorio del Comu- ne, chiesi “di chi fosse il servizio” e all’unisono risposero entrambi con “è nostro”. Era un servizio comunale, gestito tramite regolari procedure di affi damen- to da una cooperativa sociale. Una situazione oggi molto diff usa. E quindi, di chi sono i servizi organizzati in questo modo? Si pensi ad un asilo nido di titolarità comunale, in cui la proprietà dell’immobile è dell’ente locale, ma la totale gestio- Ciò dett o, una parte importante di imprese sociali, tutt avia, opera su disagi spe-

cifi ci. Si tratt a forse del volto più noto e riconoscibile dell’impresa sociale, che ne ha delineato i tratt i negli ultimi vent’anni sopratt utt o att raverso l’operato della cooperazione sociale.

Più di 37 mila realtà lavorano con e per le persone con disabilità, circa 18 mila per coloro che vivono una diffi coltà economica, circa 15 mila nell’assistenza agli anziani, 14 mila sono le organizzazioni che operano con chi soff re di disagio psico-sociale, 12 mila quelle che lavorano per i minori e 10 mila quelle che si oc- cupano di immigrati e minoranze etniche (Figura 3.6).

Familiari e persone con disagio Malati (inclusi traumatizzati, sieropositivi e malati in fase terminale)

Persone vitt ime di calamità naturali Persone detenute e/o ex detenute Persone vitt ime di discriminazione, violenza, tratt a

Immigrati e minoranze etniche Minori

Anziani (65 anni e più) autosuffi cienti (es. in condizione di solitudine) Anziani (65 anni e più) non autosuffi cienti

Persone con comportamenti devianti (inclusi bullismo e vandalismo) Persone con dipendenze patologiche (alcolisti, tossicodipendenti, ludopatici)

Persone aff ett e da patologia psichiatrica

Persone con disagio psico/sociale Persone con disabilità fi sica e/o intellett iva

Persone senza dimora o con disagio abitativo

Persone in diffi coltà economica

6.760 7.481 628 3.414 4.052 10.466 12.657 8.505 7.374 3.370 4.383 7.120 14.232 4.235 18.746 37.841 0 5.000 10.000 15.000 20.000 25.000 30.000 35.000 40.000

Figura 3.6 Organizzazioni non profi t orientate al disagio per categoria di disagio. Anno 2015. Valori

Se guardiamo all’imprenditorialità come strumento di sviluppo personale ed economico, dobbiamo analizzare la scelta imprenditoriale come espressione di una visione creativa, che realizza innovazione, porta al raggiungimento di obiett i- vi, crea ricchezza materiale e valore. È all’interno di questa visione che si devono collocare gli imprenditori sociali. Anche se tenuti a rispett are vincoli normati- vi che nulla hanno a che fare con l’imprenditività, la potenza trasformatrice e l’innovazione, questa è senza dubbio una sfi da continua e diffi cile. Per tutt e le imprese sociali che operano negli strett i vincoli normativi, che erogano servizi “per conto di”, che sott ostanno a standard qualitativi, funzionali, organizzativi (il minutaggio per ospite, i metri quadrati per ogni stanza, ecc.), dove è possibile creare e crearsi un’identità? Dove si colloca la propria cultura organizzativa?

È molto importante che le imprese sociali ripartano dalla loro origine e ricostruiscano la relazione con le comunità (anche, ad esempio, le grandi coo- perative sociali che operano su più territori, su più regioni, in servizi domiciliari o sul territorio), rigenerando la propria identità organizzativa (dell’organizzazione e nell’organizzazione).

Tra coloro che si occupano di studiare l’identità delle organizzazioni, Albert e Whett en [1985] defi niscono il concett o di identità organizzativa come un insie- me di credenze, valori ed obiett ivi percepiti collett ivamente dai membri di una organizzazione, che tenderebbero a soddisfare tre criteri: centralità, distinzione e durevolezza. Centralità legata alla natura e al successo dell’impresa, distinzione come capacità di diff erenziarsi dalle altre realtà che off rono servizi simili e dure- volezza intesa come att itudine nel mantenere tali caratt eristiche nel tempo. Qual è l’idea imprenditoriale che “vi caratt erizza”? Cosa rende il vostro operato diverso da quello di altre imprese sociali del sett ore? Rispondere compiutamente a que- ste domande resta una chiave per essere un’impresa sociale di successo.

Ed è per questo motivo che non convincono per nulla le misure “aggiu- stative” come le clausole sociali che spesso si trovano nei bandi e negli affi da- menti di servizi pubblici. Pur comprendendone la fi nalità tutelante nei confron- ti dei lavoratori, occorre chiedersi cosa signifi chi per un lavoratore cambiare azienda al termine del periodo di affi damento. Cambia l’operatore del servizio domiciliare, l’ente pubblico fa un nuovo affi damento, il personale grazie alle clausole sociali trasla dal vecchio al nuovo aggiudicatario. Ma in questo modo, cosa si sta scegliendo? Il singolo operatore o l’impresa fornitrice? E in base a cosa la si sceglie? A meri indicatori quantitativi (ad es. costo orario) o in base alla qualità del servizio che la stessa può erogare? Ma la qualità del servizio non può prescindere dalla cultura organizzativa che in quell’impresa si respi- ra, non deve essere scollegata da identità e appartenenza del personale alla propria impresa, sopratt utt o nel sociale dove il personale è l’elemento deter- minante la quantità e la qualità dell’off erta del servizio. Eppure, in alcune realtà ne del servizio è in carico ad una cooperativa sociale. Fin dove arriva l’identità

di quel servizio? Chi “fa” il servizio? Sono gli operatori che vi lavorano? Sono i soggett i che lo att ivano, anche se poi non lo gestiscono? Sono le risorse che vi vengono immesse? Sono le “titolarità” dell’esercizio?

Il discorso si potrebbe ampliare a innumerevoli altri esempi, e purtroppo, una risposta univoca non c’è, non tanto da un punto di vista formale (è ovvio che nell’esempio precedente si è in presenza di un servizio pubblico comunale dato in gestione ad un ente privato, quindi la principale titolarità formale è pubblica), quanto rispett o all’identità imprenditoriale che viene agita all’interno del contesto.

In molti servizi alla persona, educativi, sociali, sociosanitari ecc. a titola- rità pubblica, l’impresa sociale deve innanzitutt o att enersi alle richieste e alle indicazioni dell’ente pubblico, ma quello che caratt erizza il servizio e la gestione dovrebbe essere la cultura aziendale di quell’impresa sociale. È fondamentale quindi che ogni impresa sociale riesca a costruire una propria identità imprendi- toriale e aziendale che vada oltre il servizio, il progett o o il programma.

Non è semplice, sopratt utt o quando si opera “per conto di”, quando i vin- coli di gestione sono talmente stringenti da limitare ogni libera iniziativa e le ri- sorse così scarse da impedire ogni ulteriore miglioria.

Se si fa riferimento all’idea di cosa signifi chi “fare impresa”, utilizzando la competenza imprenditoriale come defi nita dal Consiglio dell’Unione Europea nel 2018,5 essa è defi nibile come la “capacità di agire sulla base di idee e oppor-

tunità e di trasformarle in valori per gli altri. Si fonda sulla creatività, sul pensiero critico e sulla risoluzione di problemi, sull’iniziativa e sulla perseveranza, nonché sulla capacità di lavorare in modalità collaborativa al fi ne di programmare e ge- stire progett i che hanno un valore culturale, sociale o fi nanziario”.

Questa defi nizione vale pure per gli imprenditori sociali oggi, in Italia. Anche laddove fortemente “legata” da vincoli derivanti da contratt i, appalti, regole, accre- ditamenti, è fondamentale che l’impresa sociale si determini e auto-determini, evi- denziando la propria creatività e il proprio approccio nella risoluzione dei problemi. Questo già accade in moltissime situazioni, ma resta il nodo fondamen- tale del ruolo dell’impresa sociale nella collaborazione con la Pubblica Ammi- nistrazione per la realizzazione del bene comune. Parte rilevante delle att ività di fondazioni, associazioni, cooperative sociali riguarda servizi il cui coordina- mento e controllo è della Pubblica Amministrazione. Quanta autonomia, quanta identità imprenditoriale si riesce ad innestare in tali dinamiche? È fondamentale che l’impresa sociale determini il senso del proprio essere, anche e sopratt utt o in tali ambiti.

5 Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente.

sone – quale messaggio, quale impostazione e quale approccio si sta in questo modo promuovendo.

Per queste ragioni va visto molto favorevolmente il nuovo modo di impo- stare i rapporti tra pubblico e terzo sett ore defi nito dall’art. 55 del Codice del Ter- zo sett ore e confermato dalla sentenza 131 della Corte costituzionale del 26 giu- gno 2020. Aff erma la Corte che “tra i soggett i pubblici e gli ETS, in forza dell’art.

55, (si instaura) un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profi tt o e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progett azione» e il «par- tenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si confi gura- no come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico. Il modello confi gurato dall’art. 55 CTS, infatt i, non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispett ivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiett ivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progett azione, in comune, di servizi e interventi diret- ti a elevare i livelli di citt adinanza att iva, di coesione e protezione sociale, secon- do una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico.”

Con questa dirompente novità [Pellizzari e Borzaga, 2020], vengono elimi- nati gli alibi delle diverse tipologie di imprese sociali, affi nché possano legitt i- mamente concentrarsi sulla costruzione o ridefi nizione della propria identità, della propria cultura organizzativa, e possano trasformarla in marchio distintivo, in brand, in agente catalizzatore di risorse umane ed economiche da destinare al perseguimento dell’interesse generale.

Servono imprenditori sociali che operino a pieno titolo il proprio ruolo, mantenendo saldi i valori fondanti che li hanno spinti a operare nel e con il socia- le, ma sviluppando le competenzeimprenditoriali [Lee et al., 2016] da cui dipendo- no le performance delle imprese: competenze di opportunità (tra cui riconoscere, sviluppare e valutare le opportunità att raverso l’intuizione); competenze ammi-

nistrative (tra cui l’operare bene e avere capacità amministrative); competenze relazionali (tra cui il creare fi ducia nei rapporti con i collaboratori, le capacità di

comunicazione e conduzione di una buona cultura aziendale); competenze per-

sonali (che si traducono nel comportamento dell’imprenditore); competenze di impegno (perseveranza e tenacia, anche davanti a situazioni incerte).

In conclusione, quindi, si ribadisce l’importanza che ogni impresa socia- le lavori sempre più per costruire una cultura dell’imprenditoria sociale che sia propria, che resista oltre il singolo servizio, che si traduca in culture organizzati- ve intrise nell’operatività, caratt erizzanti un “marchio” e un “brand sociale” e che questo possa alimentare il senso di appartenenza tra gli operatori e la fi delizza- zione degli utenti o dei committ enti.

tale prerogativa sembra venire dopo il focus sul servizio, e spesso la normativa alimenta tale circolo vizioso.

Dopo due decenni di continua crescita è questo l’invito da rivolgere a tutt e le imprese sociali: che vadano oltre il servizio, l’att ività o il progett o e che lavorino con i propri dirigenti e collaboratori nel creare un’identità dell’organiz- zazione e nell’organizzazione, considerando la molteplicità di identità individuali e sociali che quotidianamente orientano l’agire degli individui nei luoghi di la- voro. L’identità organizzativa, del gruppo di lavoro, si costruisce come “somma” e come “interconnessione” tra le singole identità professionali, sommate ai tre elementi della cultura organizzativa che qui si vogliono ricordare [Schein, 2000].

Secondo Schein, parlare di cultura organizzativa signifi ca esplicitare ar- tefatt i, valori espliciti ed assunti di base. Il livello più superfi ciale è quello degli

artefatt i, i prodott i osservabili e concreti: architett ura, arredamenti, sede, modo

di comportarsi degli operatori, abbigliamento, simboli. A seguire vi sono i valori

espliciti, quelli dichiarati nelle mission aziendali, quelli esplicitati dalla direzione

o dalla leadership aziendale con l’intento di raff orzare il senso di appartenenza, di chiarire le scelte organizzative; li si trovano nelle dichiarazioni, nelle introdu- zioni ai bilanci sociali, nelle presentazioni progett uali, ma anche nei verbali dei Cda, nelle relazioni al bilancio, ecc. Ma per giungere al livello più profondo, si deve ripartire dagli assunti di base, dalle convinzioni inespresse, date talmente per scontate da non essere neppure dichiarate. Questo è il livello più importante per chiarire quale è il “cuore” dell’organizzazione, che in quanto non esplicitato necessita di tempo per essere compreso, introitato, sopratt utt o nelle fasi di ri- cambio generazionale o di cambio di ambiti di operatività.

Per chi, tra i lett ori, opera in o dirige un’impresa sociale, un interessante esercizio è quello di chiedersi che tipo di cultura organizzativa si stia costruendo al proprio interno. Per una volta, non si guardi all’impatt o sul bene comune, sulla collett ività, ma al proprio interno: quali artefatt i, quali valori espliciti e quali as- sunti di base permeano la propria impresa. E sopratt utt o, si provi a valutare quan- to siano condivise le visioni: dal dirigente fondatore che opera in impresa da anni, al nuovo operatore fresco di corso di studi che si trova catapultato nell’impresa sociale, fi no al livello intermedio di coordinatori/responsabili che nel for profi t verrebbero defi niti middle management, mediatori tra le vision strategiche e le att ività quotidiane ed operative, snodo fondamentale per la trasmissione della cultura organizzativa tra funzioni, servizi e fasi di vita dell’impresa sociale.

E per concludere la rifl essione, ci si chieda se tale cultura organizzativa d’impresa è percepibile dall’esterno. Per tornare all’esempio iniziale, dovrebbe essere chiaro “cosa cambia” per i citt adini, per gli utenti, per l’ente pubblico che affi da, nel cambiare l’impresa che eroga un servizio dedicato alla collett ività. Quale impresa si sta scegliendo e – dato che spesso si tratt a di servizi alle per-

Capitolo 4

Come l’identità diventa valore sociale