III PARTE: CONTESTUALIZZAZIONE STORICO-ECONOMICA ENORMATIVADELLA RICERCA
8.2 Il “Decreto Salva Italia” caso emblematico in Europa
In Italia con il “Decreto Salva-Italia” la deregolamentazione è totale: 365/anno, 7/7 e 0-24. È interessante che nel testo del Decreto venga esplicitamente citata la normativa dell’Unione Europea, in materia di libera concorrenza come se fosse un esempio da seguire, mentre nei fatti in tutta Europa non esiste un paese in cui sia stata approvata una liberalizzazione totale come in Italia. Qui di seguito una tabella riepilogativa, presentata in un Dossier di Confesercenti del 2013 (l’Italia è sottolineata in verde):
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Ovunque vi sono limitazioni o regolamentazioni, come nel Regno Unito per quanto riguarda la metratura degli esercizi commerciali, per limitare la capacità di concorrenza delle grandi aziende rispetto alle piccole attività. Come si evince da questa tabella, riportata anche nel Dossier di Confesercenti presentato alla Camera dei Deputati nel 2013, dal titolo “Liberalizzazioni orari commercio, il bilancio dei primi 18 mesi di Salva-Italia”, la totale deregolamentazione italiana è unica in tutta Europa.
Dal sito del Governo del Regno Unito, Sunday Working https://www.gov.uk/sunday-working, accesso al 01/06/2017:
“Having to work on a Sunday depends on whether it’s mentioned in either the person’s: employment contract written statement of terms and conditions. A worker can’t be made to work on Sundays unless they agreed it with their employer and put it in writing (for example, changed the contract). Employers only have to pay staff more for working on Sundays if it has been agreed as part of the contract. (…) Opting out of Sunday working. All shop and betting shop workers can opt out of Sunday working unless Sunday is the only day they have been employed to work on. They can opt out of Sunday working at any time, even if they agreed to it in their contract. Shop and betting shop workers must: give their employer 3 months’ notice that they want to opt out - continue to work on Sundays during the 3 month-notice period if their employer wants them to. An employer who needs staff to work on Sundays must tell them in writing that they can opt out. They must do this within 2 months of the person starting work - if they don’t, only 1 months’ notice is needed to opt out. An employee can’t be dismissed or treated unfairly for choosing not to work on Sundays”.
Inoltre, come sottolineato anche nel sopracitato Dossier di Confesercenti, il principio cardine del liberismo della libera concorrenza viene anzi minato dall’impossibilità di
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gestire le aperture per i piccoli negozianti. Alcuni rischiano il fallimento per tentare di competere con grandi compagnie: è troppo costoso aprire 365 giorni, o quasi, all’anno. Si legge nel Dossier di Confesercenti, disponibile alla pagina web http://www.confesercenti.it/blog/liberalizzazioni-orari-commercio-laudizione-di-confesercenti-in-18-mesi-persi-32mila-negozi-e-90mila-posti-di-lavoro/ (accesso al 01/06/2017):
“La Confesercenti si è da sempre battuta per una disciplina degli orari equilibrata, tale da consentire ai consumatori di soddisfare le proprie esigenze di acquisto di beni e agli operatori commerciali di poter contare su tempi di riposo adeguati per sé e per i propri dipendenti e collaboratori familiari. Con il decreto legge 201 del 2011, comunemente detto Salva-Italia, è stato improvvisamente imposto a tutto il settore del commercio un regime di totale deregulation degli orari delle attività commerciali, rendendo possibile dal primo gennaio 2012 l’apertura 24 ore al giorno tutti i giorni dell’anno, domeniche e festività incluse. Un regime insostenibile per le quasi 800.000 imprese del commercio al dettaglio, che dal 2012 al giugno 2013 hanno subito una vera emorragia di chiusure: in 18 mesi il settore ha registrato un saldo negativo di quasi 32mila azienda, con la perdita stimata di oltre 90mila posti di lavoro”
Nella pagina seguente del Dossier di Confesercenti si introduce una interessante riflessione sulle conseguenze economiche e sociali, che però non è stata colta dalla politica:
“Perché diciamo no alle aperture selvagge. L’intento dichiarato della liberalizzazione introdotta del Decreto Salva Italia è dare una spinta positiva alla crescita dei consumi, incrementando la libera concorrenza
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e adeguando il nostro quadro normativo a quello europeo. Noi riteniamo, invece, che la norma rechi un grave danno proprio al principio della libera concorrenza che intenderebbe invece sostenere. Si danneggiano i piccoli esercizi commerciali e il pluralismo distributivo italiano, che è una ricchezza per il Paese, a solo vantaggio della grande distribuzione organizzata. Le grandi strutture commerciali concentrano gran parte dei propri ricavi proprio nelle giornate festive e prefestive, generando non un aumento dei consumi, ma il trasferimento degli stessi a sfavore degli esercizi di vicinato. (…) Se così fosse, perché non riorganizzare non il solo commercio, ma tutto il sistema dei servizi, anche pubblici (asili, trasporti, scuole, banche, etc.) affinché chi lavora la domenica ne possa fruire?”
Come già accennato, non solo Confesercenti ma anche i sindacati si oppongono al lavoro domenicale e festivo, non solo il Italia ma in Europa. La European Sunday Alleance comprende in Italia, Filcams CGIL, Uiltucs, Fisascat e Confesercenti, e nel Regno Unito tutti gli aderenti alla campagna Keeping Sunday Special, cioè sindacati e USDAW, Chiesa Anglicana e altri. Non sono solo i piccoli e medi esercenti ad opporsi ad una totale liberalizzazione. Vi è in questo frangente una sorta di alleanza tra lavoratori e lavoratrici, sindacati, enti e organizzazioni religiose, contro la grande distribuzione organizzata (per il settore alimentazione) e le imprese multinazionali. In Italia ritroviamo un movimento di opposizione anche dal basso alla totale deregolamentazione, che possiamo definire bottom up. Tale opposizione non ha avuto alcun riscontro in sede istituzionale, a parte una proposta di discussione in Parlamento proposta pochi mesi fa (2017). Vi sono gruppi di lavoratori che promuovono campagne contro il lavoro festivo e domenicale, anche sostenute dai sindacati. Vi sono diversi gruppi attivi su social networks, e sono state organizzate iniziative di sensibilizzazione e raccolta firme da partiti politici molto differenti tra loro, ad esempio Rifondazione Comunista e Movimento 5 stelle, contro la totale deregolamentazione delle aperture e il lavoro domenicale e festivo. Il 13 marzo 2012 è stato proposto alla Camera un ordine del giorno, non approvato, per impegnare
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il Governo a rivedere la totale deregolamentazione e aprire una discussione parlamentare sul tema, ODG Camera dei Deputati del 13/03/2012. A novembre 2012 Confesercenti e altri enti diedero vita alla campagna Libera la domenica e raccolsero 50.000 firme, necessarie a presentare una legge di iniziativa popolare per poter restituire le competenze in materia di esercizi commerciali alle regioni. La campagna raccolse 150.000 firme, permettendo la presentazione della proposta di Legge presentata alla Camera in data 14/05/2013 Libera la domenica. Questa proposta di legge è da allora bloccata alla Camera dei Deputati. Nel frattempo, è stata presentata, nello stesso periodo, una proposta che prevede solo 6 giorni di chiusura all’anno da scegliersi tra le 12 festività nazionali più importanti. Il dibattito nel tempo si è polarizzato, tra chi vorrebbe restituire alle regioni la competenza e chi si accontenterebbe di 6 o al massimo 12 giorni di chiusura all’anno decise dallo Stato, a livello centralizzato e non locale. Dal punto di vista invece delle politiche pubbliche nel contesto locale, e non degli esercenti, bisogna fare un passo indietro e sottolineare che anche le regioni si erano opposte fin dall’inizio. Alcune di queste infatti hanno, quasi immediatamente, fatto ricorso alla Corte Costituzionale, chiedendo di annullare la deregolamentazione, perché invece di essere strumento di libera concorrenza in realtà minerebbe la possibilità di competizione dei piccoli esercenti con le grandi compagnie multinazionali. La Corte Costituzionale aveva respinto ogni richiesta. I ricorsi erano stati promossi dalle Regioni Piemonte e Veneto, dalla Regione siciliana, dalle Regioni Lazio e Lombardia, dalla Regione autonoma Sardegna, dalla Regione Toscana e dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. Si legge nella sentenza, N. 299/2012, in merito al ricorso della Regione Piemonte:
“Secondo la ricorrente, l’eliminazione di qualsiasi regolamentazione dell’orario di apertura degli esercizi commerciali non solo non agevolerebbe la concorrenza ma, anzi, produrrebbe essa stessa delle discriminazioni. La concorrenza, infatti, presuppone una parità di condizioni a fronte delle quali anche il consumatore trae dei vantaggi. I piccoli commercianti, invece, non avrebbero alcuna possibilità di «competere» con i grandi centri commerciali sul piano della assoluta
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liberalizzazione degli orari. Tale deregolamentazione aggraverebbe anche le condizioni dei lavoratori e, a maggior ragione, dei piccoli negozi posti all’interno dei centri commerciali. Questi ultimi, per non rischiare la chiusura, avevano a suo tempo accettato di confluire all’interno del centro alla condizione (loro imposta) di rispettare lo stesso orario (allora regolamentato). La «liberalizzazione» si sarebbe trasformata, per questa categoria, nel suo contrario, e cioè in un obbligo che gli stessi non sono in grado di rispettare. (…) Con la norma censurata, pertanto, più che garantire la concorrenza, si introdurrebbero illegittimamente delle differenziazioni all’interno del medesimo mercato rilevante, determinando situazioni di squilibrio economico e sociale a danno di esercizi commerciali dalle modeste dimensioni. Sarebbe evidente lo squilibrio competitivo tra grande distribuzione ed “esercizi di vicinato” a fronte della differenza di risorse possedute. La totale eliminazione delle regole cui gli operatori economici devono attenersi in materia di orari di apertura avvantaggerebbe solo la prima a danno dei secondi”.
Sulle decisioni su orari di apertura delle attività commerciali, che come accennato sono dal 2012 in poi prerogativa dello Stato e non più di competenza regionale, si legge:
“In data 12 marzo 2012 si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. (…) Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato evidenzia che la disposizione censurata, eliminando ogni regola sull’orario di apertura degli esercizi commerciali, consente l’ampia liberalizzazione del settore con rilevanti effetti sul mercato. Sotto il profilo della ratio, inoltre, si tratterebbe di una disposizione volta ad innalzare gli standard di tutela del consumatore in modo da assicurargli una maggiore libertà nell’acquisto dei prodotti. Infine, la
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norma mirerebbe ad accrescere i consumi, agevolando l’accesso ai beni di consumo.”
La regione Veneto ha disposto a dicembre 2011, appena dopo la dichiarazione di inammissibilità e infondatezza della Corte Costituzionale, un procedimento di convenzione per l’apertura dei lavori di monitoraggio delle conseguenze economiche e sociali della liberalizzazione, Del. Reg. Veneto n. 2233/2011, pubblicata nel Bollettino Ufficiale Regionale del 10 gennaio 2012. Titolo della Delibera: “Progetto di monitoraggio relativo agli effetti conseguenti all’introduzione della liberalizzazione degli orari di vendita delle attività commerciali. Convenzione tra la Regione del Veneto e l’Unione Regionale delle Camere di Commercio del Veneto. Impegno di spesa”. La stessa regione è l’unica finora in tutta Italia ad aver avviato tale monitoraggio, che pare invece necessario, e fattibile in termini di ricerca poiché sono passati ad oggi 5 anni dall’attuazione del Decreto. Con questa ricerca si intende andare nella medesima direzione. Non si tratta solo di una questione giurisprudenziale di competenze, regionali o statali. Si legge infatti nella Delibera, rispetto a motivazioni e contenuti del progetto:
“Sulla scorta dei cennati presupposti normativi statali e regionali, nonché al fine di acquisire un dettagliato quadro conoscitivo del fenomeno di cui trattasi, con particolare riferimento ai profili di natura socioeconomica, si rende necessario avviare un progetto di monitoraggio relativo agli effetti sul territorio connessi all’introduzione della liberalizzazione degli orari di vendita, analizzando tali effetti sotto il duplice profilo della tutela dei consumatori e della concorrenza, (…) è stata approvata la costituzione di un gruppo di lavoro composto, tra l’altro, da un rappresentante di ciascuna delle parti sociali interessate dalla materia del commercio, allo scopo di sovraintendere allo svolgimento delle attività di monitoraggio e di analizzarne i relativi esiti e, dall’altro, per quanto di competenza di ciascun soggetto coinvolto, a collaborare nelle fasi di
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realizzazione del progetto medesimo. (…) Il progetto prevede l’acquisizione dei seguenti dati e informazioni ordinate secondo le rispettive aree conoscitive: con riferimento agli operatori del settore - effettiva apertura del punto vendita in occasione delle giornate di apertura domenicale e festiva, - incidenza delle suddette giornate di apertura sulle prospettive di servizio al cittadino-consumatore e di sviluppo del valore aziendale, - implicazioni organizzative con particolare riferimento ai profili occupazionali, con riferimento al consumatore - il grado di soddisfazione del cittadino-consumatore, con riferimento ad entrambe le aree conoscitive - altri dati e informazioni individuati dal gruppo di lavoro di cui all’articolo 3 ritenute utili ai fini delle valutazioni della programmazione regionale. I suddetti dati ed informazioni saranno acquisiti mediante indagini campionarie con rilevazioni in loco e telefoniche, secondo opportune modalità da valutarsi in sede di definizione operativa del piano di rilevazione, prevedendo, per quanto riguarda gli operatori del settore, l’effettuazione di almeno 500 interviste telefoniche e 150 interviste in loco e, per quanto riguarda i cittadini-consumatori, l’effettuazione di almeno 1.000 interviste (…)”.
Un simile progetto di monitoraggio non è stato deliberato in nessun’altra regione, seppur in Lombardia, e soprattutto la città di Milano, vi sia un gran numero di occupati nei settori servizi, turismo e ristorazione, commercio, e seppur questa sia sede di numerose attività commerciali nei centri urbani come nelle aree periferiche. Questo scritte intende essere un primo passo per uno studio più approfondito dei tempi e ritmi di lavoro nel settore della vendita, necessariamente da porre in relazione alla deregolamentazione degli orari di apertura delle attività commerciali. Si è sottolineata qui la vicenda della Regione Veneto in quanto questa è l’unica finora ad aver disposto un monitoraggio, in Lombardia non è stato fatto seppur vi sia una forte presenza di centri commerciali e vie dello shopping nelle città.
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