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2 – Il dibattito in Assemblea costituente

Anatomia dei rapporti intersoggettivi ante riforma del Titolo

II. 2 – Il dibattito in Assemblea costituente

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Non può prescindersi dall’art. 5 della Costituzione se si vuole comprendere come il Costituente abbia concepito i rapporti fra “centro e periferia”, quale opzione abbia accolto per definire l’assetto “geografico” dei poteri della Repubblica.

E non se ne può prescindere nemmeno alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione che, sì ha profondamente innovato le relazioni fra enti territoriali, ma nel quadro dell’impostazione generale fornita da quell’art. 5 Cost.

Unità e indivisibilità, autonomia e decentramento convivono in quella enunciazione e costituiscono la “spina dorsale” dell’articolazione territoriale dei poteri.

In Assemblea costituente, Gaspare Ambrosini tenne una relazione sulle autonomie regionali, nella quale si esplicitano le ragioni della scelta del modello “regionalista”.

L’esigenza di un modello che valorizzasse le istanze locali non costituiva una novità emergente nei lavori della Costituente. Infatti, sin dai progetti di unificazione del Regno d’Italia sotto le insegne sabaude, lo stesso Mazzini evidenziava la necessità del decentramento76.

Spinte regionaliste si ebbero anche durante il primo governo dell’Italia unificata: il Ministro dell’Interno, Marco Minghetti,

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presentava alcuni progetti di legge riguardanti: la ripartizione del Regno e l’ordinamento delle autorità governative e amministrative; l’amministrazione comunale e provinciale; i consorzi tra privati comuni e province per causa di pubblica utilità; l’amministrazione regionale. Nella sua relazione alla Camera, il Ministro così spiegava l’orientamento del suo governo in ordine all’articolazione territoriale dei poteri del Regno: «Non vogliamo la centralità francese. Per quanto siano grandi i pregi della centralità, per quanto vi sia oggi in Europa incontrastabilmente una tendenza verso di essa; nondimeno tali sono gli inconvenienti che generalmente seco adduce, e che recherebbe più specialmente in Italia, che io credo sia opinione comune in questa Camera e fuori, che noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema. Dall’altra parte non vogliamo neppur un’indipendenza come quella degli Stati Uniti d’America o della Svizzera[…]»77. La morte di Cavour e la conseguente fine del governo da quegli presieduto comportarono il fallimento dei progetti Minghetti e l’affermazione della linea ipercentralista promossa dall’on. Tecchio.78

I difetti del centralismo di epoca regia non mancarono di manifestarsi, testimonianza ne sia la circostanza che nel 1896 fu istituito una Commissario civile per la Sicilia, con poteri assai rilevanti, al fine di «avvicinare agli amministrati le diverse attribuzioni che spetterebbero al Governo centrale, affidandole ad un Commissario che possa vedere da vicino i bisogni e provvedervi con maggiore sollecitudine che non possa farlo un Governo lontano e che viene distratto dalle molteplici cure di tutto il Regno»79.

77 Camera dei Deputati del Regno d’Italia, Leg. VIII, Sess. 1861, Doc. n. 7 e Doc. n. 100. 78 Camera dei Deputati del Regno d’Italia, Leg. VIII, Sess. 1861, n. 10a Rel Tecchio, 6. 79 Senato del Regno d’Italia, Leg. XIX, Sess. 1895-96, Doc. n. 216a.

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Nel primo dopoguerra forti esigenze autonomiste si registrarono in Sicilia ed in Sardegna e il Partito Popolare di Don Luigi Sturzo si fece paladino del movimento regionalista80. In tale periodo si proseguì con l’adozione del modello del Commissario civile, già adoperato per la Sicilia, applicandolo alle Terre Redente (Trieste, Trento, Zara).

Il Fascismo segnò una forte battuta d’arresto per l’attuazione del regionalismo, ma già nel gennaio del 1944 tali progetti ripartivano, prima mediante l’istituzione degli Alti Commissariati per la Sicilia e la Sardegna e poi mediante gli Statuti speciali degli anni 1946-1948.

I Costituenti s’avvidero della necessità di dare seguito al disegno regionalista81, specie in relazione alla forma di Stato che si decise di adottare. Si legge, infatti, nella richiamata relazione Ambrosini, ove si evocano i progetti regionalisti di Mazzini: «se nel 1861, quando cioè le funzioni dello Stato erano molto limitate in confronto a quelle odierne, l’accentramento rendeva l’andamento della cosa pubblica intricatissimo e lento, che dire oggi, in conseguenza all’aumento sempre crescente dell’ingerenza dello Stato in tanti settori della vita economico-sociale che allora erano considerati di pertinenza soltanto degli individui?»82. Le parole del Costituente legano, dunque, in maniera stretta la forma di Stato con l’assetto territoriale del potere. Se, infatti, lo Stato liberale, per l’esiguità dei compiti che gli erano propri (svolgere la mansione di “guardiano notturno”), poteva consentire ad un accentramento delle attribuzioni, così non può essere per lo Stato sociale che è chiamato a rispondere ad esigenze tali da non potere essere gestite da un unico soggetto istituzionale.

80 L. STURZO, Riforma statale e indirizzi politici, Firenze, 1923, passim.

81 Si veda la ricostruzione di E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967. 82 Commiss. per la Costituz., II Sottocommiss., Relaz., 141.

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Le parole di Ambrosini sono una sintesi di quello che la dottrina chiamerà policentrismo istituzionale, nonché del principio di sussidiarietà.

In base a tali considerazioni, venne riconosciuta alla Regioni a statuto ordinario una potestà legislativa concorrente, nonché una potestà regolamentare, ma non vennero previste in Costituzione sedi e strumenti per attuare la collaborazione fra Stato e Regioni.

In particolare, quanto alla struttura del Parlamento, il dibattito fu lungo e vide posizioni assai differenziate83 ed, in nome di un malinteso principio dell’unitarietà della rappresentanza, si diede luogo ad un bicameralismo paritario di dubbia utilità: «essendo le due Assemblee praticamente formate nello stesso modo, si finisce col respingere il principio del bicameralismo, perché quando alla formale distinzione delle due Assemblee non corrisponde una sostanziale distinzione, in quanto vengono formate in maniera quasi identica, è meglio riconoscere che, nonostante le contrarie dichiarazioni verbali, si accoglie in sostanza il sistema unicamerale»84.

Il Senato fu, quindi, pensato come una Camera di raffreddamento e ponderazione degli atti normativi, rispondente alla «opportunità di doppie e più meditate decisioni»85 e l’idea di differenziare le due Camere naufragò del tutto con l’approvazione dell’ordine del Giorno presentato dall’On. Nitti alla seduta del plenum dell’Assemblea cstituente, del 7 ottobre 1947, che recita: «l’Assemblea costituente

83 Si veda F. MATTERA, Il Senato nel dibattito in Assemblea costituente, in Scudiero M. (a

c. di), Le Autonomie al centro, Napoli, 2007, 647 ss. e G. FERRAIUOLO, Bicameralismo e

rappresentanza territoriale, in Scudiero M. (a c. di), Le Autonomie al centro cit., 668 ss.

84 Così, Codacci Pisanelli, Ass. Cost., verb. sed. 10 settembre 1947, 46.

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afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto, col sistema del collegio uninominale»86.

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II.3 – Età Repubblicana precedente alla istituzione delle Regioni a

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