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2.1.1 Il pentimento giudiziario del mafioso

Nel documento La Chiesa e la 'ndrangheta in Calabria (pagine 76-81)

Il mafioso nel suo percorso di conversione-pentimento spirituale deve, per non venir meno ai doveri della conversione, collaborare con la giustizia e non sottrarsi all’eventuale espiazione della pena inflitta. Infatti, in comparazione con ciò che abbiamo visto essere il pentimento spirituale, si vuole ora illustrare l’aspetto giudiziario del fenomeno riguardante i “pentiti”, secondo le norme dell’ordinamento giuridico italiano e le possibili incongruenze con il pentimento spirituale.

La tradizione cattolica, fortemente radicata nel nostro Paese, ha fatto sì che si potesse ricondurre ai termini “pentito” e “pentimento” un valore che evocasse la sfera religiosa e la fede198. Tale equivoco, in Italia, ha provocato una forte critica nei confronti di quei collaboratori di giustizia che, senza ravvedimento spirituale verso la loro precedente condotta, sono stati considerati “criminali calcolatori”. Questo perché, come vedremo, i collaboratori di giustizia, in cambio di informazioni, godono di una serie di benefici.

196 Conferenza episcopale calabra, Nota pastorale: ‘’Se non vi convertirete perirete

tutti allo stesso modo’’, 2007.

197 L. M. Guzzo, La scomunica per i mafiosi nel diritto della Chiesa, tra

misericordia e responsabilità civile, lezione del 9 novembre 2016 nell’ambito del corso ‘’Chiesa e lotta alla ‘ndrangheta’’, promosso dalla Conferenza Episcopale Calabra presso l’Istituto Teologico Calabro ‘’San Pio X’’ di Catanzaro.

72 In realtà, si registrano casi in cui, per giustificare la propria scelta di collaborazione con gli organi dello Stato, si adduce un profondo ravvedimento spirituale, al fine di colpire il sodalizio mafioso.199 Infatti, il collaboratore ha interesse a far trasparire una immagine di sé, quale soggetto “pentito” di fronte a Dio, manifestando il bisogno di espiazione, e di fronte agli uomini, decidendo volontariamente di collaborare con lo Stato.

I collaboratori di giustizia, impropriamente definiti nel gergo giornalistico “pentiti”, sono una componente quasi essenziale per la lotta alle mafie, infatti permettono di conoscere direttamente la struttura delle organizzazioni, gli obiettivi perseguiti, le strategie adottate, i delitti che intendano compiere o che avranno già compiuto200.

Colui che decide di collaborare con lo Stato – così come è stato già evidenziato nel caso del sacramento della penitenza, con relativa rivelazione di informazioni mafiose – viola una regola fondamentale dell’organizzazione di riferimento, ossia la consegna del silenzio e sono considerati i c.d. “infami” dal mondo mafioso201. Infatti, i

collaboratori forniranno alle autorità competenti informazioni che provengono dall’interno dell’organizzazione, in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari.

Le dichiarazioni dei collaboratori devono essere riscontrate dagli investigatori, al fine di provarne la loro veridicità.

Ovviamente, tra i requisiti richiesti per accedere al programma di protezione non compare il ravvedimento spirituale, bensì rigidi criteri di comportamento e lealtà nel rivelare le informazioni202.

199 A. Dio, La mafia devota, Edizioni Laterza, 2010.

200 Commissione parlamentare antimafia, Collaboratori e testimoni di giustizia, sito

web:(http://www.camera.it/_bicamerali/leg15/commbicantimafia/documentazionet ematica/25/schedabase.asp), consultato in data 17 luglio 2018.

201 Ibidem.

73 Una volta appurata la veridicità delle dichiarazioni, i collaboratori – così come i testimoni di giustizia203, figura nettamente differente –

vengono inseriti in un particolare programma di protezione, introdotto in Italia per la prima volta con legge 15 marzo 1991, n. 82. La struttura preposta all’attuazione del programma di protezione è il Servizio centrale di protezione, che si occupa dell'assistenza e della promozione di misure per il reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma. Nel 2001, il Parlamento ha modificato la legislazione in materia di collaboratori di giustizia. Infatti, con legge 23 febbraio, n.45 si è stabilita una netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia ed un diverso regime giuridico per le due figure, sono stati introdotti criteri più rigidi per la selezione dei collaboratori. Inoltre, è stato introdotto un limite temporale entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni di cui è a conoscenza, che è di centottanta giorni. Relativamente all’ammissione ai benefici penitenziari, sono stati introdotti limiti di pena da scontare in carcere, ossia un quarto della pena inflitta ed in caso di condanna all’ergastolo di dieci anni di reclusione204.

Nonostante la norma di legge in esame appaia chiara, alcuni commentatori ritengono che, per non incorrere in un equivoco tra ragioni di fede e quelle dello Stato, sia opportuno richiedere ai mafiosi “pentiti” un “formale atto di pentimento, di emenda interiore’’205, in

cambio di benefici e non avallano l’impostazione di una collaborazione con la giustizia senza un preventivo ravvedimento. Il patto che si instaura tra Stato e collaboratore, in cambio di benefici

203 I testimoni di giustizia, sono coloro i quali forniscono la loro testimonianza di un fatto delittuoso e godono di una protezione da parte dello Stato. Ad esempio, assumeranno tale status i commercianti che si rifiutano di pagare il ‘’pizzo’’ e che decidono di denunciarne il fatto penalmente rilevante.

204 Commissione parlamentare antimafia, Collaboratori e testimoni di giustizia, sito web:(http://www.camera.it/_bicamerali/leg15/commbicantimafia/documentazionet ematica/25/schedabase.asp), consultato in data 17 luglio 2018.

74 reciproci, rischia di risolversi in un’ingiustizia, perché si andrebbe a premiare il reo e, contestualmente, ad offendere le vittime. In tal senso, qualora l’equivoco non dovesse esser chiarito, in molti potrebbero non condividere il fatto che ad un soggetto fuoriuscito da un’organizzazione di stampo mafioso, “per pura opportunità’’206, sia

concesso il beneficio di godere di tutta una serie di privilegi, nonostante la rivelazione di informazioni necessarie per stanare l’organizzazione mafiosa d’appartenenza. Un esempio, è quanto espresso dal carmelitano Mario Frittita: “se uno si pente deve pentirsi veramente della vita che ha trascorso e cambiarla totalmente, e quindi vivere onestamente civilmente e spiritualmente. Se viene a mancare questo non è assolutamente pentito né tantomeno convertito, questi sono i punti fondamentali, altrimenti è un imbroglio, un prendere in giro”.

Però, secondo l’ordinamento giuridico italiano, il “pentito” accede ad un accordo scevro da giudizi morali, in quanto è proiettato in modo “freddo” ai fatti, alle circostanze ed alle eventuali opportunità per il reo di reinserimento sociale207.

L’equivoco tra ragioni della fede e ragioni dello Stato, di cui parlavamo pocanzi, si potrebbe registrare nel caso in cui il pentito, come comunemente accade nel caso dei collaboratori di giustizia, andasse ad implicare una responsabilità altrui. Perché, secondo la tradizione cattolica, pentimento è sinonimo di ravvedimento interiore e quindi non implicherebbe una divulgazione di notizie, particolarmente riservate, delle proprie conoscenze. Perché accusare altrui persone, secondo l’impostazione di matrice cattolica, è uno dei peccati più ignobili. Con ciò, si dovrebbe affermare che chi collabora dovrebbe soprattutto pentirsi, senza dover denunciare le colpe altrui. Tale ragionamento, non del tutto condivisibile, sostenuto da sacerdoti

206 Ibidem, par. 5.2, p.9. 207 Ibidem, par. 5.2, p.9.

75 e prelati siciliani208, fa comprendere come, ancora oggi, il problema pastorale del fenomeno del pentimento non sia stato del tutto risolto. Contrariamente alla posizione appena analizzata, c’è chi – come padre Antonio Raspante – in un’attenta analisi sul rapporto tra giustizia divina e giustizia terrena ritiene che l’obbligo posto in capo al collaboratore di chiamare in causa soggetti terzi è da ritenersi conforme al credo cristiano, in quanto la mafia mira alla distruzione dello Stato di diritto. Infatti, quando la legge dello Stato è conforme ai principi delle Costituzione della Repubblica italiana, ai valori assoluti della dignità dell’uomo e della Chiesa, meritano di essere osservate. Mentre se queste leggi fossero politicamente contrarie alla dignità dell’uomo, si potrebbe scegliere di non osservarle. Quindi per dimostrare che si è pentiti, anche religiosamente parlando, è necessario fare i nomi dei correi. In tal caso non si configurerebbe un tradimento, perché l’obiettivo dello Stato è il bene comune, mentre quello della mafia è quello di uccidere. Perciò chiamare in causa terzi soggetti è come perseguire la strada del bene comune dello Stato e del cittadino e ciò non è contrario ai valori religiosi. Ecco allora l’esigenza di una collaborazione con la giustizia.

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CAPITOLO III

Nel documento La Chiesa e la 'ndrangheta in Calabria (pagine 76-81)