• Non ci sono risultati.

Il recesso per grave incapacità manageriale

Il tema del recesso rappresenta uno dei temi più spinosi della dirigenza pubblica in quanto caratterizzato da una profonda diversità di opinioni in dottrina come in giurisprudenza, concentrate principalmente attorno alla eventualità di estendere il principio della libera recedibilità e della tutela reale ai dirigenti pubblici.

L’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 prevede in generale l’impiego di modelli privati salvo diversa previsione, gli articoli 21 e 22 dello stesso decreto legislativo con cui si dispone il recesso, nell’ipotesi di responsabilità dirigenziale, prevedono che esso possa essere disposto qualora ricorrano presupposti di particolare gravità e previa acquisizione del parere del Comitato dei Garanti, a questo quadro normativo si aggiunge la contrattazione collettiva che procedimentalizza l’istituto in esame attraverso l’impiego dei principi che regolamentano il licenziamento disciplinare.

307 V. il testo depositato dal presidente del Comitato dei garanti, Vittorio Zambrano, e condiviso dai componenti del Comitato, a supporto dell’audizione sul d.d.l. A.S. n. 1577, ottobre 2014.

308V. Corte Cost., n. 193 del 2002.

309La quale, pur tenendo conto dell’indirizzo politico, è vincolata ad agire al “servizio esclusivo della Nazione”, ai sensi dell’art. 98 Cost. (V. Corte Cost. n. 104/2007, 390/2008, 304/2010).

155 Il principio di libera recedibilità è stato oggetto di intervento della giurisprudenza costituzionale nei primi anni Novanta310, la quale, nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 29/1993, affermò che l’applicabilità ai dipendenti pubblici delle norme del codice civile comporta non il fatto che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto, quanto che la valutazione dell’idoneità professionale del dirigente è affidata a procedure e criteri di carattere oggettivo a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso.

La ratio di tale intervento risiedeva nella esigenza di evitare un’indebita pressione della componente politica sulle competenze degli organi burocratici, come conseguenza dell’impiego di istituti introdotti con la contrattualizzazione del rapporto di lavoro, orientamento condiviso anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in numerose pronunce, ribadì la necessità di presidiare il rapporto di impiego del dirigente tipizzando sia le misure sanzionatorie adottabili, sia la previsione di adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell’osservanza delle direttive ministeriali311.

Tali interpretazioni hanno influenzato la giurisprudenza di merito e quella amministrativa le quali si sono mosse nell’ottica di scongiurare il pericolo che il recesso ad nutum potesse asservire la dirigenza alla sfera politica al fine di preservare il rapporto di lavoro312.

I giudici di merito hanno evidenziato il fatto che, se la legge condiziona la possibilità di sciogliere il contratto di lavoro del dirigente alla ricorrenza di un’attività direttiva inidonea a perseguire i programmi stabiliti in sede politica, risulta illogico ammetterne poi il licenziamento anche qualora tale presupposto dovesse mancare. A supporto di questa tesi la giurisprudenza richiama la contrattazione collettiva che condiziona l’adozione della più grave tra le misure disposte dall’art. 21 d.lgs. n. 165/2001 allo svolgimento di un apposito iter procedurale ispirato ai principi di immodificabilità, tempestività delle contestazioni nonché a quello del contraddittorio proprio del recesso causale313.

310 Corte cost. 25 luglio 1996, n. 313, in FI, 1997, I, 34.

311 Corte cost. 16 maggio 2002, n. 193, in www.cortecostituzionale.it.

312 Sul tema del licenziamento ha avuto modo di pronunciarsi anche il Consiglio di Stato, secondo cui “la nozione di giusta causa, ex art. 2119 c.c., idonea a consentire la risoluzione senza preavviso del rapporto di lavoro con il personale dirigente, si concreta in un fatto imputabile al dipendente di gravità tale da arrecare un vulnus all’elemento fiduciario che regge il rapporto in parola ed in particolare da mettere in discussione la fiducia riposta dal datore di lavoro circa la capacità, da parte del prestatore, di contribuire fattivamente e positivamente al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

313 Anche la Corte di cassazione, pronunciatosi sul punto, evidenzia come la peculiarità del rapporto dirigenziale evidenzia, in tema di estinzione del rapporto, un trend normativo che, seppur ispirato alla logica dell’estensione dei modelli privati all’impiego pubblico, nega l’identità di disciplina tra dirigenza pubblica e privata. La disciplina del recesso non è la medesima di quella operante per i dirigenti privati con qualifica impiegatizia: l’art. 21 del TUPI circoscrive, infatti, l’esperibilità del licenziamento alle sole ipotesi in cui ricorrono gravi circostanze e solo a

156 Un altro aspetto peculiare è da rinvenirsi nella procedura di adozione della sanzione per via della necessità dell’acquisizione del parere del Comitato dei Garanti ex art 22 del TUPI, la cui mancata acquisizione rende, secondo una parte della dottrina, impugnabile il recesso, mentre secondo altro orientamento lo rende nullo ed inefficace, tale da comportare la prosecuzione “de iure” del rapporto di lavoro dirigenziale. A tale conclusione, secondo la Cassazione, sembra giungere anche il contratto collettivo di categoria secondo cui “costituisce condizione risolutiva del recesso l’annullamento della procedura di accertamento della responsabilità del dirigente disciplinata dall’art. 20 d.lgs. n. 29/1993 dove l’annullamento della procedura di accertamento di responsabilità ben può derivare dalla mancata richiesta di un parere obbligatorio e vincolante”314.

L'aspetto più critico del sistema è dato dalla profonda asimmetria tra il settore privato e quello pubblico: la riforma del lavoro pubblico si fonda sull’estensione di modelli giuridici propri del diritto privato all’ambito pubblico senza però giungere ad una completa identificazione. Tale processo, infatti, non può negare la natura particolare del datore di lavoro, e la necessità di preservarne le peculiarità porta all’introduzione di norme speciali. Queste ultime, tuttavia, non consentono di configurare una duplicità di ordinamenti retti da principi propri; le norme speciali dispiegano la propria funzione in un quadro normativo tendenzialmente unitario. Alla luce di ciò, il licenziamento del dirigente viene disciplinato dagli artt. 2118 c.c. e 2119 c.c. nonché dalle innovazioni introdotte con la legge n. 108/1990.

In questa prospettiva ermeneutica l’art. 21 d.lgs. n. 165/2001 rappresenta una regola speciale volta a definire i tratti di una particolare ipotesi di responsabilità che, come affermato dalla Corte costituzionale315, la pubblica amministrazione è obbligata a porre in essere in ragione del rinnovato ruolo del dirigente.

Tuttavia, se la disposizione citata individua una regola speciale, non può che operare entro i limiti per cui è posta, e ad essa è preclusa la possibilità di fondare un principio di carattere generale valido per ogni forma di licenziamento.

Le argomentazioni esaminate rinvengono la propria fonte in dottrina, ma sono state integralmente recepite da quella giurisprudenza che sostiene l’operatività del principio di libera seguito dello svolgimento di un particolare iter procedimentale, ispirato al principio del contraddittorio, proprio del recesso causale. V. Cass.,1 febbraio 2007, n. 2233, in Foro it., 2007, I, 1722.

314 Cass. 20 febbraio 2007, n. 3929, in www.deaprofessionale.it. L'adozione di una tale opzione ermeneutica crea indubbiamente una forte asimmetria rispetto alla disciplina prevista per la dirigenza privata. Tuttavia, una parte della dottrina evidenzia come tale rottura non sia così netta: se si considerano i recenti sviluppi della giurisprudenza in tema di applicabilità delle garanzie di cui all'art. 7, commi 2 e 3, legge n. 300/1970 anche ai dirigenti privati, si ha modo di valutare come anche per questi ultimi ricorre l'operare di specifiche garanzie formali. Cass. 1 febbraio 2007, cit.

157 recedibilità in materia di dirigenza pubblica: alcuni giudici di merito, affermano che, qualora il rapporto fiduciario intercorrente con il datore di lavoro venga meno, la pubblica amministrazione possa recedere dal rapporto di lavoro nelle medesime forme previste per l’impiego privato. Alla luce di questo orientamento, un po’ risalente nel tempo, e superato – come si vedrà in seguito – dalle pronunce della Corte di cassazione, il rapporto di lavoro dirigenziale pubblico al pari di quello privato, viene fondato sull’elemento fiduciario; questo, nell’ottica dell’omogeneizzazione prodotta dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 consente di poter disporre il licenziamento ad nutum316.

L’amministrazione quindi, ben può ritenere opportuno, a fronte di una caso grave di responsabilità dirigenziale, recedere non solo dal rapporto di incarico, ma proprio dal rapporto di lavoro di base, incidendo, con un’unica manifestazione di volontà negoziale, su due contratti, quello di incarico, revocandolo e quello relativo al rapporto di base, sciogliendone il relativo vincolo. Ciò che è necessario è la contestualità tra la revoca dell'incarico ed il recesso dal rapporto, questo per evitare che il dirigente percepisca, medio tempore, la retribuzione tabellare317.

Come anticipato, inoltre, il recesso presuppone una procedura che abbia rispettato i principi della contestazione dell'addebito e dell'adeguata difesa così come esplicitati dall'art. 21 del d.lgs. 165/2001, come novellato dal legislatore del 2009, che accoglie i dettami delle più significative pronunce della Corte costituzionale318.

La verifica della parte pubblica deve ispirarsi ai criteri di correttezza e buona fede, pur nel rispetto della procedimentalizzazione dell'attività di accertamento della responsabilità dirigenziale che la normativa prevede, vale a dire il preventivo svolgimento delle 6 fasi del ciclo di gestione della performance nel rispetto dei principi del coinvolgimento del valutato nella valutazione ed in generale del giusto procedimento (contestazione e contraddittorio) pur a fronte dell’abrogazione dell'art. 5 del d.lgs. n. 286/1999. Una volta conclusa con esito negativo la valutazione e riscontrati gli estremi per l'addebito ai sensi dell'art. 21, l’amministrazione procede con la contestazione, nel caso in cui intenda irrogare una sanzione lieve, e con la

316 Trib. Milano 22 giugno 1999, in RCDL, 1999, 665; Trib. Rieti 14 luglio 1999, in LPA. 2000, 119; Pret. Venezia 15 maggio 1999, in LPA, 1999, 606; Trib. Roma 5 giugno 2000, in GL 2001, 497; Trib. Genova 16 giugno 2000, in

LPA, 2001, 443; Trib. Piacenza 15 febbraio 2004, in www.formez.it; Trib. Marsala 27 giugno 2007, in LPA, 2007, 1175.

317 Così pure BOSCATI A., Il dirigente dello stato, cit., pp. 328-329.

318 Accanto alle pronunce della Corte costituzionale risalenti agli anni Novanta, con cui si affermava la necessità di sottoporre il recesso a criteri e procedure di carattere oggettivo, assistite da un'ampia pubblicità e garanzia del contraddittorio (Corte cost., 25 luglio 1996, n. 313), si collocano le sentenze della Consulta, n. 103 e 104, del 2007 che hanno definitivamente consacrato il principio del giusto procedimento quale condizione necessaria della revoca dell'incarico di funzione dirigenziale.

158 contestazione ed il contraddittorio nel caso in cui intenda invece comminare la sanzione più grave del recesso.

Come già accennato, per il corretto svolgimento dell’iter procedurale è infine necessario che la sanzione venga adottata ‘sentito’ il Comitato dei garanti, il cui potere è stato però di fatto svuotato, non essendo più vincolante, per cui la parte datoriale pubblica potrebbe egualmente irrogare la sanzione del licenziamento per responsabilità dirigenziale.

Documenti correlati